16 Giugno 2018

Lo chiamavano “combat rock” e loro erano quattro ragazzacci gallesi con i capelli stracolmi di lacca ed energia in esubero: l’epopea (e l’epoca) degli Alarm

Quante volte avete sentito parlare male degli anni Ottanta? Moltissime. Quante volte avete sentito parlare del Galles ed era a proposito del tessuto o della principessa Diana? Moltissime. Quante volte, invece, avete sentito nominare gli Alarm? Forse poche. Quattro ragazzacci del Sud del Galles, con i capelli stracolmi di lacca ed energia in esubero, partiti alla fine dei ’70, con il classico demo, verso Londra, il modello Beatles ben presente, il punk come obiettivo iniziale. Lo chiamavano combat rock, quelli che amavano le etichette, cioè quella musica scritta per protestare, far riflettere, veicolare la propria rabbia in modo costruttivo. Mike Peters, voce, armonica e chitarra, leader fondatore (e attualmente unico detentore del marchio originale), Dave Sharp alla chitarra solista, Eddie Mac Donald al basso e Nigel Twist alla batteria iniziano la loro avventura nel 1977, come The Toilets. Il loro primo successo arriva nel 1983, con 68 Guns, quando l’allarme è già scattato. Il pezzo, pubblicato con l’etichetta alternativa IRS, raggiunge il numero 17 della classifica dei singoli nel Regno Unito ed è un deflagrante anthem pacifista, che certifica subito quella che sarà la formula vincente della band. Voce potente e ruvida, cori che restano subito in mente, chitarre taglienti (per il cui sound Sharp è stato spesso maliziosamente accostato dalla critica a The Edge degli U2), una sezione ritmica che strizza l’occhio al gothic e alla new wave che proprio in quegli anni sta esplodendo Oltremanica. Così arriva il primo Lp, dal titolo che è un manifesto programmatico, Declaration. I ragazzi si fanno conoscere e riconoscere grazie a pezzi di sicuro impatto come Blaze of Glory, che negli anni diventerà un loro classico, We are the light o le trascinanti Marching on e Where were you hiding?. Il successivo, Strength (1985), catapulta gli Alarm in America, prima come supporto agli U2, poi autonomamente. È un bagno di folla alla UCLA di Los Angeles, con un live che resterà scolpito nella memoria dei fan per la sua energia. L’album è maturo, ci sono atmosfere molto britanniche in The day the ravens left the Tower, la storia rock‘n’roll dei minatori gallesi di Deeside, l’inno struggente Spirit of ‘76 e persino una super ballata romantica, Walk forever by my side. In Italia, il gruppo approda per la promozione di Eye of the hurricane, il disco della perfezione, l’apice creativo. L’album regala al gruppo un buon riscontro di pubblico e vendite, anche se i quattro sono sempre scomodamente accostati agli U2 da certa critica superficiale, nonostante pezzi come Hallowed Ground, Presence of Love, Only love can set me free siano un chiaro esempio di personalità musicale ben definita e Rain in the Summertime pura poesia. Il successivo Change, del 1991, resta un tentativo riuscito a metà di pescare nei fasti del suono passato e nella tradizione blues. Di lì a poco, la band si scioglierà, riformandosi qualche anno dopo per volere del solo Peters, che nel frattempo ha combattuto e vinto con enorme strength la sua battaglia contro la leucemia. Gli anni Ottanta sono stati anche questo, un allarme suonato senza preavviso dalle lontane brughiere del Galles, un urlo di rabbia rock che voleva cambiare il mondo, come nel ’68, ma in un’epoca famosa per l’apparenza.

Cesare Orlando

*The Alarm li ascoltate qui

 

 

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