04 Marzo 2018

“L’Italia è un Paese per vecchi e di vecchi. Ma dobbiamo continuare a lottare”. Vittorio Emanuele Parsi (in divisa da rugby) su: futuro della democrazia, oligarchie finanziarie, Europa

La prima domanda sorge spontanea. Cosa ci fa un pluridecorato prof della Cattolica di Milano, direttore dell’Aseri, che sta per ‘Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali’ su un campo da rugby, a darsele di santa ragione per ottenere la divinità della palla ovale? Dopo un po’, la domanda pare cretina. Vittorio Emanuele Parsi, mettiamola così, non è uno che sta a guardare. Non sta in cima agli spalti dello stadio a dettare le strategie di battaglia dei suoi, ben vestito e decorosamente lindo. Parsi è uno che si getta nella mischia. Così – percezione mia – il suo ultimo libro, dal titolo perentorio, Titanic. Il naufragio dell’ordine liberale (Il Mulino, 2018), non è la consueta ‘operetta’ di un canonico cattedratico. Ovvio. Parsi fa le cose per bene. In duecento pagine piuttosto divulgative indaga la crisi delle certezze economiche occidentali – che significa: mutamento dell’idea stessa di lavoro e dunque del modo di vivere quotidiano – a partire dalla fine della Seconda guerra, focalizzandosi sugli ultimi trent’anni, dalla caduta del muro di Berlino in qua. Parsi mette il bisturi dello storico e dell’analista nelle ulcere: l’Europa conta quasi nulla, l’Italia conta niente, gli Usa di Trump sono indeboliti e possono poco contro le satrapie autoritarie di Russia e Cina, il capitalismo non ci rende più tutti belli, baldi e felici, si è mutato in un “capitalismo della rendita, oligopolistico e finanziarizzato, che non ha alcun senso definire ancora ‘libero mercato’”. Insomma, è il lento, definitivo tramonto dell’Occidente. L’“esperienza fin troppo comune di vivere il crepuscolo di un’epoca che ci era stato fatto credere avrebbe segnato il trionfo dei valori liberali, contrassegnata da una crescente e più equamente distribuita opulenza, dalla rarefazione dell’insorgenza della guerra, dalla generalizzata espansione della tutela di quei diritti individuati durante l’Illuminismo e così faticosamente conquistati e difesi nel corso del Novecento”. Il libro di Parsi, dicevo, non è l’esercizio tronfio di un vip dell’accademia. Parsi parla a cuore aperto, dice quello che nessuno vuole sentirsi dire (“di questo dibattito, i mass media danno ben poca notizia”), abbozza delle soluzioni per evitare che l’Europa si disintegri sotto il peso della sua stanca nobiltà. Studia, reagisce, combatte. Per questo, forse, il suo libro, che evoca il Titanic – le cui bozze, non a caso, sono state perfezionate a bordo della ‘Vespucci’, “novantaquattro giorni indimenticabili di navigazione da Montréal a Livorno, alla quale ho avuto il privilegio e l’onore di partecipare come Capitano di fregata di Stato Maggiore e political advisor” – non è un requiem ma un inno alla lotta. “Non esiste alternativa (mai) a scendere in campo e giocarsela”, mi dirà, più tardi, Parsi. Così il rugby diventa la metafora della strategia dell’onore in un mondo di iene e di faine. (d.b.)

Partiamo con un tema ‘di pancia’. Stretti tra “demagogia populista” e “tecnocrazia oligarchica”, come scrive, rifiutiamo d’intendere che la fatidica crisi economica non è passata, non è parziale, ma sostanziale. Ancor più alla luce di un liberismo ‘teologico’ che rende più forti i forti (pochissimi) e più sfortunati i deboli. Cosa sta succedendo?

Quello che sta succedendo è che la sostituzione del liberalismo con il neoliberalismo ha comportato la riduzione del parametro egemonico in base al quale giudicare e conformare ogni comportamento umano alla pura dimensione economica. Facendo così si è privata l’arena stessa della competizione economica di regole, limiti del campo da gioco e di un arbitro. In tal modo chi era più forte è diventato sempre più forte e tutti gli altri sono stati progressivamente eliminati dal mercato. Il meccanismo non è poi così dissimile da quello che ha costituito la casta degli “oligarchi” dopo il crollo dell’URSS. Lì la privatizzazione selvaggia ha creato una superclasse di ricchi e potenti, qui l’idea che il capitalismo finanziarizzato potesse (sapesse e volesse) autoregolarsi ha prodotto la distruzione dei ceti medi. La crisi ha solo reso evidente e insopportabili le storture di un sistema destinato a generare l’infelicità del maggior numero.

Cosa intende (la cito) per “affaticate democrazie”? Probabilmente con il superamento dei partiti canonici la democrazia è svuotata di senso. Eppure, l’epoca della crisi ha riproposto (in versione pop) antichi reflui di ideologie novecentesche, di destra e di sinistra. Cosa sarà la democrazia, che futuro ha?

L’affaticamento delle democrazie è legato al duplice attacco concentrico portato da chi nega che la globalizzazione produca anche squilibri socio-economici ai quali la politica deve porre rimedio e di chi vorrebbe tornare a un mondo del passato, sovranista o comunitario, che nella realtà non era per nulla un paradiso in terra. Non c’è dubbio che il progresso tecnologico sottoponga a tensione i tempi necessariamente più lunghi della democrazia rappresentativa. Ma dovremmo sempre ricordare che fuori della rappresentanza non esiste democrazia, che quest’ultima è fatta di un momento deliberativo e di un momento di confronto e sedimentazione delle idee. Qualunque forma possa prendere la democrazia del futuro posso dirle che o sarà fondata sulla separazione dei poteri e sulla capacità di far convivere “il popolo” e “le istituzioni” o non sarà tale. Su quest’ultimo punto, la sintesi romana era efficacissima: SPQR, il Senato e il Popolo fanno Roma, nessuno dei due da solo può ergersi a tutto.

Lei analizza, portando in dote diversi fatti storici, un mutamento del baricentro ‘del potere’. Dall’eurocentrismo e dal mondo Usa-dipendente, siamo passati a una sorta di vasta satrapia asiatica. Russia e Cina emergono con prepotenza, e lì la democrazia non è che una fola. Come mai?

titanic parsiIl successo della democrazia nel mondo atlantico è frutto della sua storia particolare e anche delle circostanze, della fortuna, machiavellicamente intesa. La Russia ha conosciuto una breve stagione di confusa, inefficiente e anche corrotta democrazia ai tempi di Eltsin; quella stagione si è chiusa con la premiership e poi le presidenze di Putin. In Cina un movimento verso la democrazia non c’è mai stato. E l’abolizione dei limiti di mandato a Xi ci dice che la convergenza tra i due sistemi è persino nelle forme istituzionali. In Russia come in Cina, “chi governa il Paese possiede il Paese”. Entrambi i Paesi ci dimostrano che il capitalismo può convivere con forme politiche illiberali e autoritarie. Ovvero ci ricordano che il capitalismo è una forma di organizzazione della produzione e delle distribuzione, non un modo di regolare la vita sociale. Quando misuriamo la democrazia solo sul metro dell’efficienza, della sua velocità nel decidere, imbocchiamo già un piano inclinato. Perché la democrazia è un bene, è un valore, in quanto il principio sul quale si basa e che deve riflettere nella sua prassi e nelle sue istituzioni è che “ognuno è titolare dei medesimi inalienabili diritti”, ovvero il principio di uguaglianza. Ciò che dovrebbe inquietarci maggiormente oggi, è che due sistemi così diversi, come quello russo e cinese (da un lato) e quello occidentale (dall’altro) siano perfettamente integrati nello stesso sistema economico globale. Eppure nel primo modello la proprietà privata è tutelata molto relativamente, al punto che potremmo definire un “capitalismo di concessione” (cioè sempre sotto schiaffo del potere politico), mentre nel secondo la sua tutela è sempre maggior e ormai prevalente su ogni altro diritto. La coesistenza è resa possibile dal fatto che l’unica cosa che conta è l’accesso reciproco ai rispettivi mercati. Oggi, l’apertura dei mercati non è più una pratica di politica economica più o meno adeguata a seconda delle stagioni: oggi è un dogma assoluto.

Tutti ci dicono che l’Africa è una risorsa decisiva. Ma l’Africa è già neo-colonizzata dalla Cina, o mi sbaglio? Che futuro per il continente africano?

L’Africa è un continente ricco di risorse naturali e di potenziale forza lavoro. Entro una trentina d’anni sarà il polo nel quale sarà concentrata la più grande massa di popolazione in età da lavoro. Il paradosso è che gli stessi che ci descrivono le potenzialità di questa opportunità, si dimenticano di dirci che il lavoro è sempre meno richiesto. La verità è che il sistema economico contemporaneo è bulimico rispetto al capitale – non gli basta mai, lo divora letteralmente – e anoressico rispetto al lavoro – sempre troppo, troppo pagato, da espellere. Guardate alle previsioni sul saldo tra la distruzione e la creazione di posti lavoro generati dalla robotizzazione e dall’introduzione dell’intelligenza artificiale. Non si tratta di luddismo, ma di ricordare che macchine, robot e computer dovrebbero liberare il lavoro dalla fatica, non cacciare i lavoratori dai processi produttivi. E tutto ciò si può ottenere semplicemente attraverso le regole: ovvero ridefinendo quanta parte dell’incremento di produttività legato all’innovazione tecnologica deve remunerare il capitale e quanto il lavoro.

Lei suggerisce, in calce al volume, la necessità di una Europa più forte che non vada ad avvilire le sovranità nazionali. Non sarebbe bene, a questo punto, una opzione radicale: o solo Europa (senza governi nazionali) o niente Europa (se non come azione di ‘vigilanza’), viste le diversità dei singoli stati europei? L’Europa priva di UK, in effetti, non è, come dire, ‘gambizzata’ in partenza?

L’Unione Europea è un’unione di Stati e pensare che possa trasformarsi in una Federazione continentale è una pura utopia. Oltretutto, ora come ora, abbiamo un ritorno alla prevalenza del ruolo degli Stati e del metodo intergovernativo, legato alla costituzionalizzazione del Consiglio dei capi di Stato e di governo degli Stati membri che di fatto ha potere di impedire che la Commissione possa persino istruire una pratica. Allo stesso tempo, da Schengen in poi, il livello comunitario si è occupato in maniera pressoché esclusiva della costruzione del mercato unico, finendo con l’erodere le risorse finanziarie a disposizione dei governi nazionali per sostenere i sistemi di welfare nazionali. La sensazione di spossessamento delle sovranità cui oggi assistiamo generò come prima risposta il NO al referendum sulla costituzione europea di Francia e Olanda. È da lì che origina il ruolo nuovo e ampliato degli Stati dentro l’Unione ed è sempre da lì che parte l’onda lunga del sovranismo e del pupulismo. E la Brexit. Non c’è dubbio che una UE senza Regno Unito è molto più debole soprattutto verso l’esterno. Detto questo, solo se l’Europa saprà recuperare il suo baricentro tra dimensione nazionale e sovranazionale e tra esigenze delle produttività e della solidarietà, potrà salvare se stessa e tutti noi. Qualche segnale c’è: guardi l’accordo tra Confindustria tedesca e Sindacato dei metalmeccanici, per “lavorare meno ore a pari salario”. Ridiscutere le rispettive quote di appropriazione della ricchezza che insieme si produce.

Ultima. Lei sottolinea, con pertinenza feroce, la situazione culturalmente decentrata, periferica dell’Italia. Se l’Europa può salvarsi, qual è il futuro del nostro Paese in un mondo così complesso, complessivamente pieno di lupi?

Guardi, il problema è che da noi le tendenza culturali, persino lo Zeitgeist, arriva sempre dopo, quando gli altri hanno già cambiato aria, si pongono domande e hanno dubbi, invece di ostentare granitiche certezze. Questo resta un Paese per vecchi e di vecchi, in cui vecchi arnesi della politica pensano che l’innovazione sia attaccare il liceo classico, in cui si finge di dimenticare che l’innovazione tecnologica non arriva se non nella forma dei gps per i nuovi cottimisiti del III millennio, che consegnano cibo cotto per quattro spiccioli. La verità è che la sola fase di modernizzazione anche culturale del Paese è stata il frutto della provvidenziale sconfitta contro gli USA nella Seconda guerra mondiale. Appena il Paese ha rialzato la testa, dopo il miracolo economico, è tornato fuori il solito vecchio provincialismo bigotto e autoreferenziale dell’italietta. Noi il ’68, che dovremmo sempre ricordare quale enorme stagione di cambiamento, modernizzazione e speranza rappresentò, oggi non lo avremmo più, perché siamo nuovamente tornati a essere il Paese chiuso di sempre.

Ultimissima. Un grande esperto di geopolitica e di ‘relazioni internazionali’ cosa ci fa su un campo da rugby? La sua è una anima ‘in battaglia’?

Il campo di rugby insegna la lotta, la tenacia, il sostegno nel rispetto dell’avversario, delle regole e dell’interpretazione che l’arbitro ne da. Insegna che in genere chi è più forte vince (quasi sempre) ma che non esiste alternativa (mai) a scendere in campo e giocarsela. Ricorda che i tuoi compagni, la tua squadra, sono i tuoi fratelli, ma che la comunità mondiale dei giocatori di rugby sono il popolo più grande in cui ti fondi e che tutti gli altri, spettatori e persino chi neppure abbia mai sentito parlare del rugby, debba sempre poter trarre dal comportamento di un rugbista – in campo e fuori del campo – un esempio, un monito e un aiuto a continuare a lottare in quello in cui si crede.

 

Gruppo MAGOG