Un frammento plastico, quasi orfico, tratto da Nero su nero, opera carsica, caustica, aforistica, tarda – siamo nel 1979 – svela l’indole lirica, inappagata, intima di Leonardo Sciascia. “Trovo in una libreria antiquaria una copia de La condition humaine di André Malraux con questa dedica autografa: ‘À la lectrice inconnue’. Sotto la firma, come Malraux usa fare, è un disegnino di pochi tratti: un uccello che somiglia allo struzzo delle edizioni Einaudi. Il libro è della quarantesima edizione, 1933. Ma la particolarità quasi incredibile, e che rende ancora più misteriosa la dedica, è questa: che è intonso. In quarantatre anni non ha incontrato ‘la lettrice sconosciuta’. E considerato che anch’io lo lascerò intonso… il libro è diventato come un monumento alla lettrice ignota, alla lettrice che non lo leggerà mai. È diventato insomma un apologo e un simbolo, è entrato nella circolarità del libro che insegue il suo lettore e mai lo raggiunge. Altro che i venticinque lettori manzoniani. Siamo al solo, all’unico lettore: e irraggiungibile”. Il brano mi pare bellissimo: risolve, programmandolo all’infinito, il rapporto tra scrittore e lettore – si scrive sempre tendendo all’irraggiungibile – tra scrittore e scrittura, che mira al silenzio, al biancore.
Leonardo Sciascia, pochi ricordano, esordisce come poeta: nel 1950 con le prose poetiche Le favole della dittatura e nel 1952 con la raccolta di poesie La Sicilia, il suo cuore. Entrambi i libri escono per l’editore romano Bardi, che il futuro autore del Giorno della civetta consiglia all’amico di una vita, Stefano Vilardo, poeta pure lui, conosciuto al liceo di Caltanissetta, con un consueto cenno di cinismo: “Quando avrai denaro da buttar via, come io ne ho avuto per le Favole… io posso agevolarti l’ingresso presso Bardi e poi scriverti una recensione”. Sciascia è più vecchio di un anno di Vilardo, e ne è acuto e inflessibile maestro: sarà il suo testimone di nozze, nel 1953, ne incoraggia gli esperimenti lirici (“A proposito delle poesie ti dirò che sempre più mi piacciono”), lo bacchetta (“In quanto alla tua poesia, con la mia consueta brutalità, ti dico che non mi va”), infine, battezza l’esordio dell’amico, nel 1954, con la raccolta I primi fuochi: “Vilardo possiede un avvertitissimo gusto, una sensibilità nuova della parola”, scriverà Sciascia sul Gazzettino di Sicilia. La raccolta di lettere, finora inedite in volume, tra Leonardo Sciascia e Stefano Vilardo, dal 1940 al 1957, ora raccolte per i raffinati tipi De Piante come Nessuno è felice, tranne i prosperosi imbecilli (con copertina d’autore di Ferdinando Scianna), testimonia gli esordi del grande scrittore, inquieto, eccentrico (“Mi avvio decisamente verso la critica: e sono giunto ad una maturità e vigilatezza che meraviglia me stesso”, scrive Sciascia nel 1944), e la crescita dell’amico poeta, che arriverà ai grandi editori (nel 1977, con Garzanti, pubblica Tutti dicono Germania Germania; nel 1990, con Sellerio, stampa il primo romanzo, Una sorta di violenza). Sono anni decisivi per Sciascia: nel 1948 si uccide il fratello Giuseppe, nel 1957 muore il padre; nel frattempo si precisa il suo legame con Luigi Pirandello (nel 1953 pubblica Pirandello e il pirandellismo), nel 1956 pubblica Le parrocchie di Regalpetra, due anni dopo l’approdo in Einaudi, con Gli zii di Sicilia e l’avvio di una vicenda intellettuale nota, sontuosa, coi toni della polemica e della contraddizione. Le lettere a Vilardo sono, allo stesso modo, un trattatello di poetica, pieno di arguzia (“Scegliere una parola e farla poesia è più faticoso di un qualunque lavoro normale”; “Saccheggia, svuota, piega il vocabolario: soltanto così dominerai il sentimento. Anche la poesia è una tecnica, suprema, sfuggente, miracolosa – ma tecnica”), una specie di raccolta di ‘lettere al giovane poeta’, ma anche un acido pamphlet ricco di geniali cattiverie: verso il pubblico dei lettori e degli editori (“Ti consiglierei, ove potrai, di pubblicare: il buono piacerà ai pochi. Il brutto piacerà ai più”) o allargandosi a clamorose dimensioni esistenziali (“Nessuno è felice: tranne i prosperosi imbecilli. L’infelicità è una condizione necessaria all’intelligenza”). (d.b.)
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Lettera senza data nell’originale e riferita al 1944
Carissimo Stefano,
ti ho inviata una postale di cui tu, nella tua ultima ricevuta a mezzo di Alfonso, non mi fai cenno. Per cui ti scrivo oggi in raccomandata. Certo ho molto ritardato, come sempre: ma ciò non significa che abbia dimenticato l’amico più caro – e tu peraltro mi assolverai appunto in nome dell’amicizia. A proposito delle poesie ti dirò che sempre più mi piacciono; e ti consiglierei, ove potrai, di pubblicare, pubblicare: il buono piacerà ai pochi. Il brutto piacerà ai più – ed in queste due alternative qualcosa di te comincerà a restare nella memoria degli altri, finché da solo ti solleverai a quello che sarà uno stile, una inconfondibile espressione. Per scrivere una poesia tu per ora avverti il bisogno di un avvio “tematico”: una parola una frase una vivida espressione. Questo avvio lo trovi negli altri in Quasimodo, in Ungaretti, magari in Pirandello, anche in una notizia di cronaca. Poi finirai per non cercarlo più. Con questi due brani, o quadretti vedo che tu cammini per la strada della creazione poetica, e tenti con tutte le tue forze e con tutti i tuoi sentimenti e con tutto il tuo vocabolario. E allora ti do un consiglio: saccheggia, svuota, piega il vocabolario: soltanto così dominerai il sentimento. Anche la poesia è una tecnica, suprema, sfuggente, miracolosa – ma tecnica. Io invece mi avvio decisamente verso la critica: e sono giunto ad una maturità e vigilatezza che meraviglia me stesso. E tu sai quanto poco conto io faccia delle mie qualità. Ho per esempio un abbozzo di interpretazione del sentimento del Boiardo, che se trovassi da metterlo fuori bene inquadrato resterebbe memorabile nella storia della nostra critica. Così pure sul Manzoni e sul Machiavelli. Ma sono qui, fisicamente attediato (la vita del paese: soltanto) e spiritualmente pronto e vorace. Che cosa farò? Oggi potrei occupare con invidiabile dignità una cattedra universitaria e invece aspetto un incarico in questo ginnasio e la pubblicazione di qualcosa sul giornale di Caltanissetta. Ho tradotto poesie di Baudelaire: e ne sono contento come della cosa mia più bella. Te ne manderò qualcuna. Questo sfogo di orgoglio e di scontento io me lo permetto soltanto con te. E vengo a parlarti di cose pratiche. Ti ringrazio per il consiglio, innanzitutto. Ti dirò poi che mentre ti scrivo un falegname lavora a dare gli ultimi tocchi alle due stanzette che andrò ad abitare tra poco. Ho messo alle pareti i quadri che volevo, i ritratti più cari (p.e. Pirandello). È un luogo che avrò caro per studiare. La vita familiare mi si apre serena. Comincio ad avere per le persone, ed anche per le cose, un affetto che la mia volubilità di ieri ignorava. Certo nessuno è felice: tranne i prosperosi imbecilli. L ’infelicità è una condizione necessaria all’intelligenza. Ma sereno lo sono. Scrivimi ancora. Ti abbraccio.
Leonardo