13 Novembre 2017

Liliana Heker: la scrittrice che ha parlato della morte con Borges e ha bacchettato Cortázar

Liliana Heker è una delle voci fondamentali della narrativa argentina ed è, inoltre – e soprattutto – un maestro del racconto in un paese di narratori straordinari. Anche se la scrittura si è installata in lei come necessità tra i tredici e i quattordici anni – le era necessario scrivere per dare consistenza a idee debordanti – tuttavia non pensava di diventare scrittore. Dieci anni più tardi pubblicherà il primo libro di racconti, Los que vieron la zara (1966), che ottiene una menzione al Concurso de Casa de las Américas. Così, in estrema sintesi, tutto ha avuto inizio.

Al primo libro, ne seguirono altri. Saggi, racconti, romanzi, come El fin de la historia (1996), un libro che narra le violenze accadute durante l’ultima dittatura militare e le contraddizioni che allignavano dentro una certa parte della gerarchia. Alla sua pubblicazione, il romanzo generò diverse polemiche, ma questo non disarmò la Heker. Al contrario. Per Liliana Heker (nella fotografia di Alejandra López), la cosa buona delle polemiche è che permettono di discutere a fondo di certe idee e di arricchirsi nel dibatterle. “Nessuno uccide o muore nella polemica”, ha detto una volta a Julio Cortázar, di cui era ed è una ammiratrice, e con cui polemizzò a lungo, appassionatamente.

Borges
Lui è Jorge Luis Borges (1899-1986)

Insieme a Sylvia Iparraguirre e ad Alberto Castillo, che la Heker considera come suo maestro, la scrittrice ha fondato in pieno regime militare El ornitorrinco (1977-1986), una delle riviste letterarie di maggior impatto nella letteratura latinoamericana. Nello stesso periodo (1980), l’era in cui la morte era in agguato in Argentina, l’autrice di Las peras del mal (racconti, 1982) cominciò a lavorare a un libro di interviste, Diálogos sobre la vida y la muerte (2003), attraverso il quale si proponeva di indagare il significato della mortalità come fenomeno biologico e psichico, e i diversi modi in cui, nel corso della Storia, l’uomo ha cercato di convivere con questa insopportabile certezza: la sua condizione mortale. Tra gli intervistati, c’è anche Jorge Luis Borges, che all’epoca aveva ottant’anni, a cui, a dire della Heker, l’idea della morte non provocava alcuna inquietudine. “Parla di Mark Twain, specula di teatro, parla di poesia inglese, parla di morte. È felice di parlare di cose che gli interessano”.

I racconti di Liliana Heker sono stati tradotti e pubblicati, tra gli altri paesi, in Germania, Francia, Russia, Turchia, Olanda, Inghilterra e Polonia. Il romanzo El fin de la historia è stato premiato nel 2010 con il Premio Esteban Echeverría (vinto, tra gli altri, da Borges, da Ernesto Sabato, da Adolfo Bioy Casares e da Silvina Ocampo), e nel 2012 è stato pubblicato in lingua inglese.

La necessità di scrivere. Quando è nata? Come?

“Quell’esigenza, in un certo modo, è iniziata quando avevo quattro anni, nel cortile di casa di mia nonna. Il mondo reale mi sembrava molto poco interessante, quindi mi inventavo delle storie girando per il giardino; se qualcosa non funzionava, tornavo indietro e modificavo la storia, che esigeva nuove modifiche, e così via. Mentre la mia storia si avvicinava alla perfezione (senza mai raggiungerla), io giravo sempre più velocemente, sempre di più. In modo più specifico, la scrittura si è installata in me quando avevo tredici o quattordici anni. Ero una adolescente esagerata: avevo bisogno di correre per le strade per sfogare la mia debordante energia, avevo bisogno di scrivere per dare solidità alle idee che esondavano dentro di me. Tuttavia, non avevo idea di diventare una scrittrice. Scrittore, per me, erano gli altri, gli autori dei libri che amavo, che divoravo con passione. Quando ho dovuto scegliere una facoltà universitaria, ho scelto Fisica. A sedici anni, nello stesso periodo in cui facevo ingresso alla facoltà di Scienze, entrai nella rivista letteraria El grillo de papel, e lì ho incontrato scrittori in carne e ossa, ho scritto i miei primi racconti, ho scelto la letteratura. A ventuno anni, già vicedirettrice della rivista El escarabajo de Oro e con un libro di racconti quasi terminato, abbandonai la carriera di fisica”.

Lei è un maestro del racconto breve, in Argentina è ritenuta un ‘classico’. Esiste un segreto (penso al ‘decalogo’ di Horacio Quiroga, ad esempio) per scrivere il racconto perfetto?

“Poe, Quiroga, Cechov, Flannery O’Connor, Cortázar, Abelardo Castillo, hanno scritto decaloghi o testi scintillanti sull’arte del racconto. Da questa profusione di idee si possono trarre due conclusioni: la prima, evidente, è che non esiste un unico segreto per scrivere un ottimo racconto; la seconda, che ogni vero narratore sa quanto rigore e quanta intensità chieda una situazione, per quanto minima, per estrarne tutta la luce immagazzinata, curando il testo dalla prima frase – ah, l’arte della prima frase! – per poi, come minacciati, retrocedendo o precipitando o dimorando in una specie di apatia, avanzare verso il cuore della radiazione, unica e immutabile, che è la fine. È comprensibile dunque l’ansia di spiegare – rapida e brusca, come corrisponde al narratore – questa strana avventura che è scrivere un racconto. ‘Il racconto è una storia senza versi’, dice Quiroga; ‘Se c’è una pistola caricata nella prima frase, deve esplodere alla fine’, dice Cechov; ‘Il romanzo vince ai punti e il racconto per knock out’, dice Cortázar. Tutte frasi brillanti; nessuna, è chiaro, dice tutta la verità, però serve, a ciascuno di loro, per illuminare ciò che è così nitido e difficile da raggiungere: un buon racconto”.

Quali sono stati i suoi maestri, se ci sono stati? Borges, lo scrittore argentino più noto in Italia, è ancora un maestro di scrittura? È stato un maestro per lei?

“In senso stretto, il mio maestro è stato Abelardo Castillo, senza dubbio uno dei massimi narratori in un paese di grandi narratori come l’Argentina, con cui ho lavorato, per 26 anni, in tre riviste letterarie che sono state fondamentali per la letteratura argentina. I classici che considero miei maestri sono Maupassant e Cechov. Quelli che hanno marcato in maniera singolare la mia narrativa, sono i narratori nordamericani: Saroyan, Hemingway, Cheever, Salinger, Flannery O’Connor, Catherine Porter, Carver. Borges è ancora un maestro, senza dubbio. Insieme a Roberto Artl e a Leopoldo Marechal è lo scrittore fondamentale della letteratura argentina”.

Lei ha vissuto in Argentina sotto il regime di Videla. Cosa significa per uno scrittore vivere in un momento storico in cui la libertà è minima, minata?

“Per come la intendo io, uno scrittore non spera che il potere di turno gli conceda la libertà. Uno scrittore si assume la propria libertà, abita la libertà nonostante e contro quel potere. Se parliamo di scrittura, uno scrittore, dentro le quattro mura della sua abitazione, è libero di costruire le proprie storie come desidera. Se parliamo di scrittura come testimonianza o come denuncia, lo scrittore dispone di uno strumento prezioso per valicare la censura: sa come maneggiare il linguaggio. Heker ingleseLa censura non è infallibile; ciò che annienta un intellettuale è l’autocensura. Durante la dittatura militare in Argentina si è sviluppata una delle più formidabili forme di lotta contro un regime dittatoriale e assassino: le Madri di Plaza de Mayo. Inoltre, proprio durante quel periodo di ferocia, sono sorti progetti come il Teatro Abierto, laboratori creativi, riviste culturali. Nel mio caso in particolare, oltre a scrivere racconti, ho fondato con Abelardo Castillo e Sylvia Iparraguirre la rivista letteraria El ornitorrinco, dove, oltre ai nuovi scrittori argentini, si pubblicava la grande letteratura nazionale e internazionale. Fu pubblicato un intellettuale come Sartre, ad esempio; fu pubblicato e studiato un inquietante racconto di Dino Buzzati, Le montagne sono proibite. Inoltre, negli editoriali e negli articoli di El ornitorrinco si trattavano temi come la repressione, la censura e l’autocensura, le sparizioni, i diritti dell’uomo, la follia dei due dittatori – Pinochet e Videla – che volevano portare il nostro popolo alla guerra. In sintesi, senza voler dare a tutto questo un particolare senso eroico, credo che, nonostante alcuni scrittori abbiano agito con agio durante la dittatura militare, ce ne sono stati molti altri che, come potevano, hanno costruito quella che ritengo essere una forma di resistenza culturale”.

Cortázar è, dopo Borges, il più noto scrittore argentino in Italia. So che lei hai avuto una controversia con Cortázar. Puoi spiegarci meglio?

“Premetto, anzi tutto, che ho sempre ammirato e continuo ad ammirare Cortázar, una persona che mi è stata molto vicina. Ciò non toglie che in una circostanza molto precisa io abbia ritenuto necessario polemizzare con lui. Ritengo, come ho detto a Cortázar, che la cosa buona di una polemica è che nessuno muore o viene ucciso, che nessuno vince o perde; la polemica permette una discussione più profonda, e arricchisce sempre. Durante la dittatura, discutere era un mondo come un altro per lottare contro la morte. Fondamentalmente, ciò che rimproveravo a Cortázar era la sua idea per cui in Argentina la letteratura era stata distrutta e che gli scrittori che avevano ancora qualcosa da dire avrebbero dovuto unirsi a lui fuori dal Paese, in esilio. Oltre a farsi chiamare ‘esiliato politico’, cosa che non era (Cortázar era andato in Francia nel 1951 per motivi che, come ha spiegato nel suo diario, non erano politici), considerava l’esilio una pratica e non una fatalità. Fu una polemica ampia e appassionata. Penso che oggi, quattro decenni dopo, sia solo la testimonianza di quei tempi di dittatura. I racconti di Cortázar restano belli e perturbanti come sempre”.

Ci sono scrittori italiani che legge con particolare intensità?

“Decisamente sì. Ci sono scrittori che ho amato nella mia prima adolescenza: Pratolini, Vittorini, Pavese, Calvino, che ho letto con vera devozione. A questi, negli anni, si sono sommati Pirandello, Dino Buzzati, Natalia Ginzburg, Moravia, Tabucchi e altri. Una letteratura eccezionale, senza dubbio”.

Ritiene che i nuovi media – Internet, i social – siano dannosi o vantaggiosi per la pratica della scrittura?

“Nessun mezzo, di per sé, è dannoso o vantaggioso. La questione, sempre, è come lo si utilizza. Io amo la carta e penso che il libro abbia una forma così perfetta che difficilmente potrò scomparire. Però, ovviamente, uso Internet quando mi è necessario. Il problema non è Internet ma ciò che offre in modo indiscriminato a lettori che non sono particolarmente addestrati e che non hanno i mezzi per discernere. Per quanto riguarda i social, io non li uso; mi disturba l’eccesso di comunicazione. Confesso che, di tanto in tanto, mi incanta il silenzio. Per ciò che riguarda la scrittura, Internet dà una risonanza eccessiva al mediocre e allo stupido. Sia chiaro: mediocrità e stupidità sono sempre state scritte. Ma erano meno diffuse di oggi”.

Che disciplina adotta quando scrive?

“Nessuna. Non sono disciplinata. Ci sono momenti in cui mi concentro sull’idea di un racconto o di un romanzo, annoto delle cose, tento di cominciare, e non trovo quello che voglio scrivere. A posteriori, posso dire che sono momenti importanti, ma quando accadono, mi inquietano. Heker libroOra, quando sospetto ciò che vorrei fare, posso scrivere dalle cinque della mattina fino alla mattina del giorno dopo. Mi è successo con molti racconti e, con più forza, durante la stesura dei miei romanzi. Quando tengo la storia per la coda, quando comincio a trovare una forma, quando trovo il modo di maneggiare tutto il materiale che ho accumulato per tanto tempo, capisco che posso scrivere per tutto il giorno. Nonostante non sia così, nonostante possa interrompere la scrittura più volte e per diversi motivi, la mia sensazione è esattamente questa: che sto scrivendo tutto il tempo, e che, appena risolto il motivo dell’interruzione, tornerò a lavorare con la stessa energia e la stessa lucidità di prima. Sono momenti privilegiati. Non accadono sempre”.

Ora, cosa sta scrivendo? A quale libro sta lavorando?

“Ora lavoro a un libro saggistico, La trascenda de la escritura [La trascendenza della scrittura]. Suppongo che sia un titolo eloquente. Non vado oltre il titolo, perché ho imparato che non è bene parlare di un libro che, nonostante sia abbastanza chiaro nella mia testa, resta ancora in un perfetto stato di indeterminazione”.

 

(il servizio è di Maria Soledad Pereira e Davide Brullo)

 

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Liliana Heker es una de las voces clave de la narrativa argentina y es, además —o sobre todo—, una maestra del cuento en un país de cuentistas fundamentales. Aunque la escritura se le instaló como necesidad entre los trece y los catorce años —necesitaba escribir para darles salida a las ideas y ocurrencias que la desbordaban—, todavía no se le cruzaba la idea de ser escritora. Diez años después, sin embargo, publicaría su primer libro de cuentos, Los que vieron la zarza (1966), y obtendría la Mención Única en el Concurso de Casa de las Américas.

Y así, en resumen, empezaría todo.

A ese primer libro, le siguieron otros. Y también ensayos, nouvelles y novelas como El fin de la historia (1996), un texto que señala los atropellos ocurridos durante la última dictadura militar y las contradicciones existentes entre ciertos militantes de jerarquía. Al publicarse, la novela generó polémica, pero eso a ella no la desanimó. Al contrario. Para Liliana Heker, lo bueno de las polémicas es que permiten discutir a fondo ciertas ideas y enriquecerse a partir del debate. “Nadie mata ni muere en ellas”, le dijo cierta vez a Cortázar, de quien fue y sigue siendo admiradora, y con quien polemizó larga y apasionadamente.

Junto con Sylvia Iparraguirre y Abelardo Castillo, a quien en el sentido más riguroso del término Heker considera su maestro, fundó, en pleno régimen militar, El ornitorrinco (1977-1986), una de las revistas literarias de mayor repercusión en la literatura latinoamericana, en la que se publicaron obras de autores nacionales e internacionales, entre ellos de Dino Buzzati, y se trataron temas como la represión, la censura y la autocensura, los desaparecidos y los Derechos Humanos.

En esa misma época —1980—, época en que la muerte acechaba en Argentina, la autora de Las peras del mal (cuentos, 1982) encaró el proyecto de un libro de entrevistas, Diálogos sobre la vida y la muerte (2003), a través del cual se propuso indagar en el significado de la mortalidad como fenómeno biológico y psíquico, y las distintas formas que, a lo largo de la historia, ha concebido el hombre para convivir con ese casi intolerable saber: el de su condición de mortal. Entre los convocados, estuvo Jorge Luis Borges, quien en ese momento tenía ochenta años y a quien, al decir de Heker, la idea de la muerte no parecía inquietarlo en absoluto. “Habla de Mark Twain, habla de la teoría de los conjuntos, habla de la poesía inglesa, habla de muertes. Se lo ve contento de conversar sobre cuestiones que le interesan”.

Los cuentos de Liliana Heker se tradujeron y publicaron en Alemania, Francia, Rusia, Turquía, Holanda y Polonia, entre otros. Su novela El fin de la historia fue distinguida en 2010 con el Premio Esteban Echeverría, otorgado por la Fundación Gente de Letras, y en 2012 se publicó la traducción inglesa del texto.

¿Cómo nació su necesidad de escribir? ¿Cuándo?

En cierto modo, esa necesidad empezó cuando yo tenía cuatro años, en el patio de la casa de mi abuela. El mundo real me parecía muy poco interesante, entonces me inventaba historias mientras daba vueltas en ese patio; si algo no encajaba debía ir hacia atrás y modificar alguna cosa, lo que me exigía nuevas modificaciones, y así sucesivamente. A medida que mi historia se acercaba a la perfección (hecho que nunca ocurría), yo giraba más y más rápido. De un modo más específico, la escritura se me instaló como necesidad entre los trece y los catorce años. Era una adolescente excesiva: necesitaba correr por las calles para darle rienda suelta a mis desbordes de energía, y escribir para darles salida a las ideas y ocurrencias que me desbordaban. Pero ni se me cruzaba la idea de ser escritora. Escritores, para mí, eran los otros, los autores de mis libros amados, que devoraba con pasión. Cuando tuve que elegir una carrera universitaria, elegí Física. Pero a los dieciséis años, al mismo tiempo que ingresaba a la Facultad de Ciencias Exactas, entré a la revista literaria El grillo de papel, y ahí conocí a escritores de carne y hueso, escribí mis primeros cuentos y elegí la literatura. A los veintiún años, ya subdirectora de la revista El escarabajo de Oro y con un libro de cuentos casi terminado, dejé la carrera de física.

Usted es una maestra del cuento. ¿Cuál es el secreto (pienso en el Decálogo del Perfecto Cuentista, de Quiroga, por ejemplo) para escribir un cuento excelente? ¿Hay realmente un secreto?

Poe, Quiroga, Chejov, Flannery O’Connor, Cortázar, Abelardo Castillo, han escrito decálogos o textos deslumbrantes acerca del cuento. De esta profusión se pueden sacar dos conclusiones: la primera, evidente, que no hay un único secreto para la escritura de un cuento; la segunda, que todo verdadero cuentista sabe cuánto rigor y cuánta intensidad requiere que de una situación, acaso mínima, aflore toda su luz guardada, conseguir que el texto se abra en la primera frase –ah, el arte de la primera frase– y, como amenazado, retrocediendo o precipitándose o en apariencia estancándose, avance hacia ese resplandor, único e incanjeable, que es el final. Es entendible entonces la compulsión de explicar –breve y agudamente, como le corresponde a un cuentista—esa aventura impar que es escribir un cuento. “El cuento es una novela sin ripios”, de Quiroga, “Si hay una pistola cargada en la primera línea, el tiro tiene que sonar al final”, de Chejov, “”La novela gana por puntos y el cuento por knock out”, de Cortázar. Todas frases brillantes; ninguna, claro, dueña de toda la verdad, pero iluminadora, cada una de ellas, de eso tan nítido, y tan difícil de lograr, que es un buen cuento.

¿Cuáles son sus maestros, si los hay? Borges, el escritor más conocido en Italia, ¿sigue siendo un maestro? ¿Fue un maestro para usted?

En el sentido más riguroso del término, mi maestro fue Abelardo Castillo, sin duda uno de los mayores cuentistas de un país de cuentistas notables, como es Argentina, y con quien publiqué, durante 26 años, tres revistas literarias que fueron fundamentales en la literatura argentina. Los que considero mis maestros clásicos son Maupassant y Chejov. Y los que han marcado de una manera singular mi narrativa, son los cuentistas norteamericanos: Saroyan, Hemingway, Cheever, Salinger, Flannery O’Connor, Catherine Porter, Carver. Borges es un maestro, sin duda, Considero que él, Roberto Arlt y Leopoldo Marechal son los escritores fundantes de la literatura argentina.

Usted vivió en Argentina durante el régimen de Videla. ¿Cómo es la vida de un escritor en un país donde no hay libertad?

Según yo lo entiendo, un escritor no espera que el poder de turno le otorgue libertad. Se asume libre y hace uso de su libertad, a pesar y contra ese poder. Si hablamos de escritura a largo plazo, un escritor, dentro de las cuatro paredes de su habitación, es libre de ir construyendo su obra como quiere. En cuanto a la escritura como testimonio y como denuncia, el escritor dispone de una herramienta invalorable para abrirse paso a través de la censura: sabe manejar el lenguaje. La censura no es infalible; lo que silencia a un intelectual es la autocensura. Durante la dictadura militar se desarrolló en Argentina una de las formas más extraordinarias y admirables de lucha contra un régimen dictatorial y asesino: el de las Madres de Plaza de Mayo. Además, hubo durante ese tiempo feroz, acontecimientos como el de Teatro Abierto, solicitadas, talleres de creación y de estudio, revistas culturales. En mi caso particular, además de escribir ficción, fundé, con Abelardo Castillo y Sylvia Iparraguirre, una revista de literatura, El ornitorrinco, en la que no solo se publicó a los nuevos escritores inéditos de Argentina y a una gran literatura nacional e internacional, se reivindicó a intelectuales como Sartre, se publicó, por ejemplo, contextualizándolo, el inquietante cuento de Dino Buzzati “Están prohibidas las montañas”. Además, en los editoriales y los artículos de El ornitorrinco se trataron temas como la represión, la censura y la autocensura, los desaparecidos, los Derechos Humanos, el disparate de dos dictadores –Pinochet y Videla—que querían llevar a nuestros pueblos a una guerra. En síntesis, y sin querer darle a todo esto el menor sentido heroico, creo que, aunque hubo escritores que se sintieron muy cómodos con la dictadura militar, hubo muchos otros que, como pudieron, fueron construyendo lo que considero una resistencia cultural.

Cortázar es, después de Borges, el escritor argentino más conocido en Italia. Yo sé que usted ha tenido una controversia con Cortázar. ¿Puede explicarlo mejor?

Quiero decir, ante todo, que siempre admiré y sigo admirando a Cortázar, y que ha sido para mí una persona entrañable. Lo cual no quiere decir que, ante una circunstancia muy precisa, no haya considerado necesario polemizar con él. Creo, como le dije a Cortázar, que lo bueno de las polémicas es que nadie mata ni muere en ellas, ni siquiera se las ganan o se pierden; permiten una discusión a fondo de ciertas ideas, y eso siempre es enriquecedor. Durante la dictadura, discutir ideas era otro modo de luchar contra la muerte. Básicamente, lo que yo le cuestionaba a Cortázar era que hubiese dicho que, en Argentina, la literatura estaba a aniquilada y que aquellos escritores que teníamos algo que decir debíamos reunirnos con ellos (los escritores exiliados) fuera de la patria. O sea que, además de llamarse a sí mismo “exiliado político”, cosa que no era (se había ido a Francia en 1951 por motivos que, como él mismo explicó en su Diario, no eran políticos), consideraba al exilio, no como una fatalidad sino como una praxis. Fue una polémica extensa y apasionada. Pienso que hoy, luego de casi cuatro décadas, es solo un testimonio de esos tiempos de dictadura. Y que los cuentos de Cortázar siguen tan bellos y perturbadores como siempre.

¿Hay escritores italianos que usted lea con particular intensidad?

Decididamente sí. Hubo escritores que amé desde mi primera adolescencia: Pratolini, Vittorini, Pavese, Calvino, a quienes leí con verdadera devoción. Y a los que, a lo largo de los años, se sumaron Pirandello, Dino Buzzati, Natalia Ginsburg, Moravia, Tabucci, y otros. Una literatura excepcional, sin duda.

¿Piensa que los nuevos medios –pienso en Internet, en las redes sociales—son dañinas o beneficiosas para la práctica de la escritura?

Ningún medio, por sí mismo, es dañino o beneficioso. La cuestión es cómo se los utiliza. Sigo amando el papel, y creo que el libro tiene un formato tan perfecto que difícilmente se podrá superar. Pero claro que recurro a Internet, cuando lo necesito. El problema no reside en Internet sino en lo indiscriminado de lo que ofrece para aquel que no está formado como lector y no está en condiciones de discernir. En cuanto a las redes sociales, no estoy en ninguna; me perturba el exceso de comunicación. Confieso que, de vez en cuando, me encanta estar incomunicada. En cuanto a si afecta la escritura, al menos le da una difusión desmesurada a la mediocridad y a la estupidez. Quiero ser clara: estupideces y mediocridades se han escrito siempre, pero tenían una llegada menos multitudinaria que la actual.

¿Qué disciplina adopta usted cuando escribe?

Ninguna. no soy disciplinada. Hay épocas en las que le doy vueltas a la idea de un cuento o de una novela, anoto cosas, intento comienzos, y no consigo dar con lo que quiero escribir. A posteriori, puedo decir que son períodos necesarios pero, mientras suceden, me resultan inquietantes. Ahora, cuando empiezo a sospechar qué quiero hacer, puedo escribir desde las cinco de la mañana hasta la madrugada del día siguiente. Me ha pasado con muchos cuentos y, más nítidamente, con cada novela. Cuando la tengo agarrada por la cola, cuando empiezo a encontrarle la forma, cuándo vislumbro cómo manejar todo lo disperso que fui acumulando durante largo tiempo, entonces siento que estoy escribiendo todo el día. Aunque en rigor eso no es cierto, aunque puedo interrumpir la escritura varias veces y por diferentes motivos, mi sensación es exactamente esa: que estoy escribiendo todo el tiempo, y que, apenas se resuelva el motivo de la interrupción voy a volver al trabajo con la misma energía y la misma claridad con que lo estaba haciendo. Son épocas privilegiadas. No me suceden siempre.

Ahora, ¿qué está escribiendo?, ¿en qué libro está trabajando?

Ahora estoy trabajando en un libro de no ficción: La trastienda de la escritura. Supongo que el título es elocuente. No voy a ir más allá de ese título porque aprendí que no es bueno hablar de un libro que, aunque en mi cabeza empieza a estar claro, en los hechos sigue en perfecto estado de indeterminación.

 

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