16 Marzo 2021

“Non sapete quanto sia bello svegliarsi con la voce di Cortázar…”

Mi viene chiesta qualche parola per capire il contesto in cui, in piena dittatura militare, si produsse la polemica che ebbi con Julio Cortázar. Questo mi obbliga ad affrontare due questioni per me essenziali: il legame che nel corso degli anni mi unì e continua ad unirmi a questo grande e caro scrittore e la rivista letteraria dove fu pubblicata questa polemica: El Ornitorrinco, fondata nel 1977 da Abelardo Castillo, da Sylvia Iparraguirre e da me. Tuttavia, per dare un’idea esatta di quello che fu questa rivista, devo fare riferimento ad altre due: El grillo de papel, fondata nel settembre del 1959 da Abelardo Castillo e da altri tre giovani scrittori e che fu vietata per decreto statale, insieme ad altre pubblicazioni di sinistra, nell’ottobre del 1960; e El escarabajo de oro, fondata nel 1961 da me e da Abelardo Castillo e che smise di uscire nel 1974. Queste tre riviste costituiscono un tutto che si conformò nell’arco di ventisei anni; noi, che le facevamo, di solito le inglobavamo sotto un unico nome, inclusivo ed eloquente: la rivista. E con questo alludevamo a un atto vitale che ci impegnava non solo in quanto creatori ma anche in quanto depositari di uno strumento, la parola, ineludibile per testimoniare e per pesare in modo immediato sul nostro mondo, nell’ordine sociale, in quello culturale e in quello politico. Abelardo Castillo, cofondatore delle tre riviste e uno dei più grandi scrittori latinoamericani, segnò la loro rotta estetica e ideologica. Ma, come abbiamo sempre sostenuto, una rivista non è un’opera individuale bensì quella di un gruppo di scrittori che convengono su cose essenziali e acquisisce valore al di là dell’opera personale di coloro che la fanno. Di me posso dire che arrivai a El grillo de papel nel gennaio del 1960, all’età di sedici anni e che, fino all’ultimo numero di El ornitorrinco, fui una delle sue fautrici; non riesco a concepirmi senza la rivista, senza quel molteplice e appassionato lavoro che presuppose pubblicarla nel corso degli anni, così come non mi concepisco senza i miei racconti o i miei romanzi. È una parte fondamentale della mia attività di scrittrice. […]

Il golpe del 1976 mise noi argentini dinnanzi a una istanza sconosciuta: l’istanza della morte. E quella istanza avrebbe pesato su ogni nostro singolo atto e su ogni nostra singola decisione.

Quanto sopra mi porta ad asserire: la decisione, presa nel 1977, di fondare una nuova rivista letteraria, El Ornitorrinco, nonostante possa sembrare paradossale, fu un atto di libertà più assoluto rispetto a quello che sedici anni prima aveva generato El escarabajo de oro. Questa nuova rivista – come gli appelli pubblicati per denunciare i desaparecidos, come Teatro Abierto, come i laboratori dove si insegnava ciò che era vietato nelle università e nelle strade, come, soprattutto, il movimento delle Madri di Plaza de Mayo, di un coraggio e di una combattività senza eguali – si insediava nonostante e contro un sistema feroce che, per sua natura, negava il pensiero, la creatività, la discussione, la parola come strumento di trasformazione e di cambiamento, tutti valori per cui vale la pena vivere. Nell’editoriale del primo numero di El ornitorrinco, Abelardo Castillo scriveva: “L’arte, per me, è un atto a favore della vita. Non credo né ho mai creduto in un’arte che serva a screditare l’uomo. Ritengo che l’opera d’arte (il bello) sia un atto; ritengo che quell’atto sia sempre un gesto di ribellione e una rivendicazione della libertà che impegna tutti gli uomini. Etica ed estetica, per me, sono pressoché lo stesso (…). L’odio verso l’uomo, la sua libertà, la meschinità, la stupidità sono forme di bruttezza”.Questo è quanto scriveva Castillo nel novembre del 1977, nel momento più buio della dittatura militare. Tenuto conto che, come ho già detto, una rivista dialoga sempre col suo tempo, è chiaro che gli argomenti di ordine ideologico e politico non furono gli stessi degli anni Sessanta. La censura, l’autocensura, la demenza criminale dei dittatori – Videla e Pinochet – che ci volevano portare a una guerra argentino-cilena, la ri-significazione di un’espressione come “diritti umani” che anni addietro sarebbe parsa anacronistica o innocua, l’esilio e il non esilio come situazioni conflittuali, le petizioni per i desaparecidos, la militanza delle Madri di Plaza de Mayo; questioni che anni prima sarebbero state inconcepibili, durante la dittatura militare erano prepotenti e implicavano un rischio. E non solo testi che testimoniavano la realtà immediata: rivendicare Sartre o pubblicare un racconto fantastico come Le montagne sono proibite di Dino Buzzati potevano essere atti di sovversione.

Liliana Heker è tra i grandi scrittori latinoamericani viventi: autentica maestra nell’arte del racconto, nel 2016 Alfaguara ha pubblicato i suoi “Cuentos reunidos

Anche le nostre abitudini dovettero cambiare: non erano più possibili le riunioni del venerdì in cui dieci o quindici scrittori si incontravano in un caffè e discutevano con passione su un racconto, un editoriale o sul modo migliore di cambiare il mondo – ci riunivamo e lavoravamo a casa di Abelardo e Sylvia. Continuavamo a distribuire la rivista a mano, ma con discrezione; gli edicolanti non esibivano El ornitorrinco come avevano esibito El escarabajo de oro, e pochi negarono di riceverla. Non andavamo più al caffè La Paz per scoprire i nostri lettori; sarebbe stato inutile. I lettori erano diventati clandestini; non camminavano per Corrientes né si sedevano a leggere nei caffè. Ma esistevano, questo era il punto. Dietro le pareti si facevano lentamente spazio piccoli ambiti di libertà e in segreto si ordiva una resistenza culturale.

Ed è precisamente in questo ambito che si situa la polemica che ho avuto con Julio Cortázar. Per far capire ancora meglio il contesto, voglio raccontare brevemente cosa ha significato e cosa continua ancora a significare per me questo grande scrittore, così amato, così ammirato. Lo incontrai per la prima volta nel modo in cui una persona deve incontrare per la prima volta uno scrittore: attraverso i suoi racconti. Mi abbagliò e, da scrittrice molto in erba, mi rivelò un modo sconosciuto di utilizzare il linguaggio colloquiale. Era il 1960; nonostante avesse già pubblicato due volumi di racconti – La fine del gioco e Bestiario, Cortázar era quasi uno sconosciuto per i lettori argentini. Era appena uscito il suo terzo libro di racconti, Le armi segrete. Nel numero 2 di El grillo de papel Abelardo Castillo pubblicò un’ampia e intensa critica a quel libro. Cortázar la lesse e da quel momento in poi divenne amico e lettore, in ordine successivo, delle nostre tre riviste, fu tra i suoi collaboratori permanenti, scrisse dei nostri testi e, in varie occasioni, ci inviò alcuni racconti inediti da pubblicare. Un fatto personale che non ha mai perduto il suo significato per me: la prima volta che pubblicai un racconto, all’età di sedici anni, fu nel numero 4 di El grillo de papel. In quello stesso numero fu pubblicato un racconto inedito che ci aveva inviato Cortázar: quel breve gioielloche è Continuità dei parchi.

Cortázar cominciò ad essere uno scrittore famoso in Argentina e, direi, quasi uno scrittore sacro, nel 1963, dopo la pubblicazione di Rayuela. Al riguardo non posso non ricordare che, in mezzo alla follia acritica e piuttosto fanatica sorta intorno a quel romanzo, di cui si valutava l’aspetto curioso della costruzione, pubblicai un’ampia critica pubblicata su El escarabajo de oro. In essa ponderavo tutta l’eccezionalità che aveva per me Rayuela, ne segnalavo gli aspetti superflui e mettevo in discussione “l’autoritarismo” diCortázar quando proponeva un ordine di lettura (una proposta tendenziosa, d’altro canto, visto che attraverso il suo personaggio-alter ego, Morelli, attribuiva a chi lo leggesse sequenzialmente la passività del “lettore-femmina”). Fondamentalmente, argomentavo che qualsiasi lettore è libero di leggere un libro nell’ordine che gli viene in mente, che 25-123-41 non è meno ordine di 1-2-3-4 se quella sequenza viene imposta. La mia critica fu piuttosto irritante in un momento in cui i dettami culturali stabilivano la deificazione incondizionata del romanzo e del suo autore. Poco dopo, in una lettera in cui commentava un mio racconto, Cortázar, gentile come al solito, mi disse che la mia critica gli era parsa intelligente ma che, forse, non avevo compreso qualche aspetto della sua Rayuela. Per la mia gioia tardiva, qualche anno fa, quando venne pubblicata la sua corrispondenza, lessi in una lettera rivolta al suo editore e amico Francisco Porrúa: “La ragazza [si riferisce a me, che allora avevo vent’anni] si arrabbia (…) e poi dice molte cose interessanti. Comunque, si tratta della critica più attenta e minuziosa che ho letto fino ad ora. Preferisco questo ai ditirambi epistolari che ricevo e che al massimo dimostrano che i loro autori vanno a caccia di dèi, e di me, come dio, ma…” (29 ottobre 1963). La cosa certa è che quella critica non alterò il legame, accidentato ma affettuoso, tra me e Cortázar.

Lo conobbi di persona nel 1973, durante la prima visita pubblica che fece in Argentina. Aveva appena pubblicato il suo romanzo Libro di Manuel e donava i diritti d’autore alla Confederazione generale dei lavoratori argentini, un’encomiabile associazione sindacale. In quel periodo di estrema politicizzazione, una certa militanza e diversi intellettuali, con uno schematismo pari a quelli che lo avevano deificato anni addietro, mettevano in discussione lui e la sua letteratura per il fatto di “vivere a Parigi”.

Aveva telefonato a casa di Castillo, dicendogli che avrebbe voluto conoscerci. Ci trovammo a casa di Sylvia e Abelardo e fu commovente stare con lui, era così timido e cordiale. Qualche giorno dopo andammo a cena. In quella cena, ormai più disinvolto e meno diffidente, si dimostrò quell’umorista abbagliante e spropositato che conoscevamo dai suoi racconti. Abbiamo riso molto quella sera. Prima di rientrare a Parigi, mi invitò a casa sua. Gli avevo raccontato che avevo appena finito una critica al Libro di Manuel e che si sarebbe pubblicata nel prossimo numero di El escarabajo de oro. Cortázar volle che gliela leggessi. Come era successo con Rayuela, anche in questa critica mi ero opposta all’opinione del gregge, che oltraggiò quel romanzo. Il mio testo si concludeva con questa frase: “So che questo non è il miglior romanzo di Cortázar. Ma uno scrittore non è obbligato a scrivere sempre il suo miglior libro. Invece sì, è obbligato – eticamente obbligato, voglio dire –, se è uno scrittore con la esse maiuscola, a dare il meglio di sé e nel miglior modo che gli è permesso. Ritengo quindi che Cortázar sia uno scrittore con la esse maiuscola”. Gliela lessi, gli piacque molto, penso che gli fece piacere. Bevemmo whisky, chiacchierammo. Come si può capire, il nostro legame non era facile ma fu amichevole.

Ci rivedemmo a Parigi nel 1978. Venne a prendermi all’alberghetto di rue de Sommerard dove pernottavo (il più economico e precario, credo, di tutta Parigi). Dalla porta mi indicò, qualche metro più in là, l’albergo dove aveva vissuto García Márquez durante il suo primo viaggio a Parigi. E accadde qualcosa che mi parve molto comico. Per telefono mi aveva detto che mi avrebbe portato in un bel posticino del Quartiere latino. Credo che, fino a quando non mi vide, non aveva messo in conto che sono alta 1 metro e 56. Cioè, una conversazione tra noi, mentre camminavamo, sarebbe stata come minimo scomoda. Suppongo che Cortázar, così arguto, lo percepì. La cosa certa è che mi disse: “Andiamo a un bar qui sotto, è meglio”. Dopo pochi metri, entrammo. Allora sì, abbiamo chiacchierato appassionatamente. Dell’orrore della dittatura, della situazione in Argentina, di lui, che si era appena separato, di me. Fu un incontro bellissimo. Non ci siamo più visti, ma due giorni dopo mi svegliò il telefono. Risposi; era la voce inconfondibile di Cortázar; mi diceva che avrei dovuto coprirmi bene, che a Parigi faceva molto freddo. Mi emozionai e mi fece una grande tenerezza; lo raccontai a Sylvia e ad Abelardo in una lettera: “Non sapete quanto sia bello svegliarsi con la voce di Cortázar che ti dice di coprirti bene”.

Pochi mesi dopo quell’incontro, la rivista colombiana Eco pubblicò l’articolo che suscitò questa polemica. Alla fine del 1983, con l’avvento della democrazia, Cortázar venne a trovare sua madre. Dichiarò pubblicamente che si era sbagliato in merito all’annichilimento della cultura in Argentina. Telefonò ad Abelardo Castillo per dirgli che stava per tornare a Parigi ma che sarebbe rientrato molto presto in Argentina e che avrebbe voluto organizzare un incontro per parlare di tutto quello che era successo. Quel viaggio e quell’incontro non sono mai avvenuti: Cortázar morì nel febbraio del 1984.

Quando muore un grande scrittore, e una grande persona, la perdita è sempre dolorosa. Nel mio caso, quella perdita fu di una tristezza ulteriore. Mi mancò, mi mancherà sempre, quella chiacchierata in cui, non ho alcun dubbio, si sarebbe rinsaldata la nostra amicizia, accidentata, certo, ma persistente e intensa.

Nonostante tutto, non ritratto nulla di quello che, in un contesto storico ben preciso, ho scritto in questi testi. Credo fervidamente nel confronto delle idee e nella passione con cui si difendono le proprie convinzioni. Come dico a Cortázar in un paragrafo, in una polemica nessuno uccide, nessuno muore; non si vince e non si perde. C’è dell’altro: penso che nessuno possa discutere con il nemico. Sarebbe concepibile una controversia con il dittatore Videla o con il dittatore Pinochet? Si discute con quelli di cui si rispettano i pensieri, nonostante non si convenga con loro.

In un incontro che ebbe luogo nel Maryland, nel 1984, lo scrittore Osvaldo Bayer mi chiese se, adesso che Cortázar era morto, non mi pentivo di aver polemizzato con lui. Gli dissi di no, assolutamente; ciò avrebbe significato mancare di rispetto a Cortázar; supporre che la morte lo aveva sconfitto, lo aveva reso innocuo. E no: Cortázar è un grande scrittore, con la sua opera eccezionale, con la sua solidarietà, con il suo calore e con le sue contraddizioni. Continuo ad ammirare e a voler bene a quello scrittore totale e attuale. E, nel contesto storico in cui avvenne la nostra controversia, continuo a discutere con lui.

Liliana Heker

*Si ripropone in parte, per gentile concessione, il testo introduttivo a: Julio Cortázar/Liliana Heker, “Esilio & Letteratura. L’arte ai tempi del regime. Una polemica”, De Piante, 2021. Il libro raccoglie, e commenta, per la prima volta in assoluto, le carte della polemica pubblica tra Liliana Heker e Julio Cortázar sul compito dell’artista sotto il regime militare argentino di Videla. In appendice, Sylvia Iparraguirre ricostruisce il rapporto epistolare Cortázar e Abelardo Castillo, con diversi testi inediti. La traduzione italiana è di Mercedes Ariza

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