14 Agosto 2019

“Quel metro di legno continuerà a sfidarlo”: addolcito, svilito, avvilito di Pinocchio non abbiamo capito nulla. Bisogna leggerlo insieme a Giorgio Manganelli

Raccontare le favole ai bambini. Farle a pezzi e farsi fare a pezzi, dalle favole, da adulti. Questo è uno degli innumerevoli destini della letteratura. Suprema e insuperabile musa. Suprema e insuperabile solo per chi ne sa cogliere la vivida, angosciante e urticante essenza. Ma partiamo dalle favole. Dalla favola: Pinocchio. Favola di Carlo Collodi (all’anagrafe Carlo Lorenzini), che nel corso dei decenni, è trascorso più di un secolo, è stata edulcorata, tramutata, svilita, avvilita e addolcita. Riassunta nella rassicurante storia di in un burattino di legno che finisce col diventar bambino. Dopo una rassegna di animali parlanti, menzogneri e fate turchine.

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No, Pinocchio non è tutto questo. Non è solo questo. La lettura più affascinante e profonda di questo testo è nelle pagine di “Pinocchio: un libro parallelo”, suprema prova letteraria di Giorgio Manganelli. Autore di inaudita capacità di cesellare e musicare le parole. Autore la cui lettura approfondita, dovrebbe far desistere da qualsivoglia velleità letteraria la quasi totalità degli autori, italiani, contemporanei. Sin dalla prima pagina, Manganelli si immerge nella favola diversa da tutte le altre favole. Qui in gioco non ci sono solo i bambini, non sono loro gli unici depositari di quest’opera immortale.

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“C’era una volta…’’. Un Re…’’. No… Quale catastrofico inizio, quanto laconico e aspro, una provocazione, se si tiene conto che i destinatari sono i ‘’piccoli lettori’’, ‘’ragazzi’’, soli competenti di fiabe e regole fiabesche. A scrutare tra li interstizi di queste sette parole, si scopre subito una favola nella favola, qualcosa che è prossimo al cuore di ogni possibile favola. Il ‘’c’era una volta’’, è, sappiamo, la strada maestra, il cartello segnaletico, la parola d’ordine del mondo della fiaba. E tuttavia, in questo caso, la strada è ingannevole, il cartello mente, la parola è stravolta. […] Con svelto gioco di prestigiatore, il favoleggiatore ha dato accesso sì al luogo della fiaba, ma di fiaba diversa”. Una fiaba diversa. E in questa fiaba, Giorgio Manganelli, sviscera i significati fiabeschi, magici, occulti, tetri e terrificanti. Di una fiaba che è tutt’altro che rassicurante. È compito arduo riassumere in poche parole di uno scritto come il nostro riesca a scavare nelle profondità di ogni personaggio, da Geppetto: “Geppetto non è solo ‘’padre’’, scelto da Pinocchio, la sua è paternità filiale, per delega, Pinocchio gli si è proposto, dunque il suo destino non comincia ora, egli è nato nel momento in cui si staccava, erratico ramo, dalla sua pianta. […] Come genitore, è unico: al suo fianco non ci sarà mai una ‘’madre’’ di Pinocchio. Anzi lo stesso burattino pare essere portatore del proprio grembo, di ciò da cui deve nascere, purché Geppetto ne riconosca le fattezze. […]. Quel legno gli appartiene, dovrà patirne amore e oltraggio” alla Fata Turchina, figura magica, mistica e spettrale assieme. Che si palesa bambina, al suo primo apparir dinanzi a Pinocchio: “Non v’è dubbio che Pinocchio abbia incontrato una potenza incantata. […] L’abbiamo detta lunare e mortuaria: ma il suo pallore è albare, essa è insieme la signora morta della notte e la signora del giorno che ‘’balugina’’; è iniziale e conclusiva. […] I capelli della Bambina infinitamente misteriosa hanno un colore notturno, che non dimenticheremo mai più’’.

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E quindi tutte le presenze animali che corrono e scorrono nelle pagine del romanzo di Collodi. Animali parlanti, che conoscono Pinocchio come esistesse da sempre, così come animale, asino attorno al burattino, diventerà Pinocchio, così come nelle fauci della bestia, il pescecane, lo stesso Pinocchio riabbraccerà il disperso e disperato Geppetto. Per poi morire e diventare, ultima magia della altresì morente e mai viva Fata Turchina, un bambino. Ma non è tutto così facile. Il finale presuppone un’altra storia, una storia infinita tutt’altro che confortante: “Ma vi è del mistero in questa morte. Il burattino di legno ha scelto la morte perché potesse cominciare a vivere il Pinocchio – se così si chiamerà – di carne; ma non si è trasformato. Morto, è rimasto come salma ‘’appoggiato ad una seggiola, con il capo girato su una parte, con le braccia ciondoloni e con le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo’’. Pinocchio guarda quel burattino misterioso, il ‘’burattino meraviglioso’’ e ‘’buffo’’. Nella casa del nuovo Pinocchio resta quella reliquia morta e prodigiosa, il nuovo e vivo dovrà coabitare col vecchio e morto. Quel metro di legno continuerà a sfidarlo’’. Ma non c’è solo il sublime racconto di un racconto in quest’opera di Manganelli. C’è una parentesi, tra le mille aperte, che spicca su tutte. E riguarda i libri, i nostri amati libri. “Nessun libro finisce; i libri non sono lunghi, sono larghi. La pagina, come rivela anche la sua forma, non è che una porta alla sottostante presenza del libro, o piuttosto ad altra porta, che porta ad altra. Finire un libro significa aprire l’ultima porta, affinché non si chiuda più né questa né quelle che abbiamo finora aperte per varcarne la soglia, e tutte quelle che infinitamente si sono aperte, continuano ad aprirsi, si apriranno in un infinito brusio di cardini”. È qui il significato tutto del leggere libri. Chi trova qualcosa di meglio da fare, quelle porte, non le ha mai trovate.

Cosimo Mongelli

*In copertina: Carmelo Bene come Pinocchio, nel 1966; fotografia di Claudio Abate

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