05 Aprile 2020

“Fra sognare e fantasticare Tasso consuma la sua labile vita. Vivere è stato violento…”. Un frammento ritrovato dallo “Zibaldone” di Giacomo Leopardi

Frammento di Zibaldone, cancellato e poi ritrovato, dove Giacomo Leopardi si interroga sul destino di Torquato Tasso (gennaio 1801) e ribadisce la potenza dell’illusione contro il tragico destino delle cose effimere.

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Ho spesso pensato di descrivere la follia di Torquato, ma senza trovare mai le parole giuste. «Era la notte allor ch’alto riposo / han l’onde e i venti, e pare muto il mondo…». C’è una tensione interna, nelle brevi frasi che lo atterriscono, una lunga onda di muta devastazione disperata che ancora mi ammutolisce, quasi come se uomini simili a lui mai fossero semplici pazzi ma arditi protagonisti di un sogno che sopisce tutti i sentimenti esteriori ma non l’interiore immaginazione, che ne esce rafforzata e ampliata, trasformata in incantesimo stregante. Il folletto che visita le notti del poeta ha una voce aspra, nunzia di sciagura: sibila “O vivi o muori!” mentre lui è tormentosamente prostrato nel suo giaciglio; discorre pacatamente dei movimenti dell’universo ma con parole di cui afferra solo in parte il senso oscuro e tenebroso dove vanno errando. Tasso potrebbe ammutolire la sua voce, ma non sa o non riesce, e il folletto incalza con toni febbrili e timbri sempre accesi: “O vivi o muori!”. Il poeta non reprime il senso di tormento che lo invade nella sua stanzetta, in quell’aria cupa, propizia ai prodigi. Cerca di addormentarsi, ma la voce gli rompe il sonno, lo desta continuamente, lo stordisce fino alla vertigine. Così agiscono, per consuetudine, i demoni. Poi alla fine tutto svanisce e resta nelle orecchie la voce, a sillabare piano “O vivi o muori!” mentre Torquato non sa neppure dove posare la testa, non sa se giacere a letto o alzarsi, se tacere o gridare, e si dimena e si dispera, e stampa e corregge libri, spedisce suppliche, implora amici, saggezza e stoltezza si mescolano in lui come terra e acqua nel limo; perde il sonno e la pace; vegliando notte e giorno, implora i cortigiani di inoltrare le sue suppliche, e fa grandissima pietà vederlo. Se si addormenta si sveglia poche ore dopo come in un cimitero, senza distinguere la luna dalle stelle; gli sembra di avere in testa una compagnia di persone che vanno conversando, ragionando, protestando: la Gerusalemme gli torna agli occhi incandescente e sincera, liberata e riformata, doppia e una, infernale e divina, nascosta e celata, terrestre e celeste. Quale la vera? Quale la falsa? Quale quella che deve dedicare alla Massima Altezza Principe Ferdinando di Toscana, baciandogli rispettosamente la mano, da umilissimo servitore?

Le passioni sono collegate fra di loro quanto le scienze, con matematici legami; nessun altro modo più saldo, né catena più forte, fosse di ferro o di acciaio o di altra più dura materia. Ma la materia di cui sono fatto i sogni è tanto più debole? Forse è più salda. Fra sognare e fantasticare Tasso consuma la sua labile vita. Vivere è stato violento, da cui rifugge. La mente è infingarda a pensare, la fantasia pigra a immaginare, i sensi negligenti a nutrire le immagini delle cose, la mano neghittosa alla penna, quasi lo agghiaccia trascrivere lo stato sbigottito che lo prostra. Aspetta e sogna, mentre vorticano i fantasmi. E tutti i fiorentini, per Tasso, assomigliano alle api che si spargono per varie parti delle vigne e dei boschi a raccogliere il miele; i suoi sogni sono tracce che seminano la mente con crudele severità, ammalando il pensiero; e Ferdinando, duca di Toscana, è il re dei sogni che affollano la sua anima, è lui il signore e padrone dei folletti che non smettono di mettergli a soqquadro la stanza, un foglio qui, il berretto là, candele e penne e cenere ovunque, la cenere evidente e diffusa, come i resti di un sabba dove alla fine l’ossesso si sveglierà ma senza nessun segno, corretto, pulito, punito, bello recluso nell’astuccio del suo corpo come nella limpida bara…

Io mi dilungo sulla tristezza e sulla malinconia di Torquato e forse non serve più farlo. Mi dimentico (la mente, così incline al vagabondare) la parte più piacevole. Non mi soffermo sul lato bello della follia (che è brutta quando costringe a essere servo di pene e dolori, bella quando permette di costruire sogni contro il mondo, fabbricando dolci finzioni che, come il vento, rendano l’aria meno stagnante). Parlo del vento delle illusioni, magnifiche come lucciole; senza quel vento, quel moto della luce e del sole, anche le lacrime sarebbero aridi sassi, e non lo sono, le lacrime, non lo sono né lo saranno. Esiste anche una follia esagerata e fortissima, una infantile e interminabile potenza di sogno e di vertigine, che non è solo quel senso di noia che opprime, tedia, annienta, rende gravi e muti, vittime di voci tenebrose, ma un turbinìo acuto, un cinguettio, una risata fra le lapidi, un piccolo brusìo di scoiattolo dopo l’incendio devastatore, un debole suono che sopravvive alle infinite distruzioni della natura.

Quando non ho voglia né di leggere né di scrivere né di accendere la luce né di spegnere la luce, io scandaglio l’ignoto e rido, superfluo come un qualsiasi uccello che canti al risveglio del sole; non penso solo ai moscerini, alle puzze, alle fessure dei tarli, all’orrore delle muffe, dentro gli asili turpi per pazzi dell’Italia centrale, che avranno ospitato Torquato, ma a qualcosa di aereo che trascina, travolge, dissemina, profuma. Montaigne, parlando di Tasso, diceva di una sua “virtù letale di pazzia”, di una virtù sovrumana che rende simili agli dèi gli albatri zoppi.

Vorrei tanto, adesso, bere qualche licore zuccherato, ritrovare quel mio ridere dentro le illusioni dell’ebbrezza, senza i caratteri scritti sul foglio o le immagini viste nell’aria: è questo il modo per abbattere la noia della follia, per rendere anche Torquato un po’ meno disperatamente noioso della sua tristezza. Forse avrei dovuto rimetter mano al mio Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare, avrei dovuto omettere, semplificare, rischiarare il personaggio; vivere con lui un momento di indolenza, come quando si preferisce solo vedere i glicini e sentirne il profumo. Mi hanno detto che nelle Marche, all’eremo di Avellana, vicino allo scriptorium dove i monaci tracciavano i loro codici miniati, vicino alla stanza degli inchiostri, si aprono grandi e folti campi di ginestre, in mezzo alle colline verdi; lì sarebbe bello mettere lo sguardo, come davanti a un immenso balcone e lì respirare per sempre; tra sapere e fantasticare è dolce consumare la vita, nella bella utilità di perderla; vedere il frutto cadere e non addentarlo, non scrutare il segno dei denti sulla mela della conoscenza, ma percepire l’odore della donna che ami e che sogni fra i fiori che diventano notturni, e la tua scrittura, buffamente, mentre la donna non c’è o sparisce, ne trattiene l’ombra e tu ci continui a giocare, con quell’ombra, benché l’affanno sia forte, troppo forte, e giocando ti arrivano tanti, tanti pensieri, alcuni non felici, ma mentre la luce scivola sul bordo della tenda e la rende rossa e molte ragazze ridono del tramonto e corrono, corrono entusiaste, non è forse questa, la visione più stupefacente che noi scriventi addolorati rincorriamo, il progetto serio della felicità: cogliere gioie che vengono e vanno, a cui non apparteniamo, che però esistono, sono dolci, lusingano lo spirito, diventano vere e io, vissuto miglia lontano, le ho sognate come le avrà sentite il dolce Torquato, nell’aria di Sorrento…

Poiché tutto è follia in questo mondo, fuorché il serio, brutto folleggiare che da’ sintomi e dolore. Il resto è degno di riso, degno è ridersi di tutto. Bisogna alternare le belle illusioni alla tragica distruzione delle cose. Non dimenticare quelle e questa. Vivere in quella intrecciata vertigine come nella rete tesa fra alte querce, degna sì di un’aquila ma che l’aquila disdegnerà volandone lontano. Poiché sono le illusioni la malta segreta che regge le nuove costruzioni che consentono all’uomo di correggere il passato e le sue sterminate sciagure, di diventare attore della sua memoria, chirurgo segreto che, a paziente ormai sepolto, potrà resuscitarne lo spirito per le anime a venire…

Giacomo Leopardi

*La redazione, la cura, la “scoperta” del testo sono di Marco Ercolani, archeologo di apocrifi

**In copertina: le mani, dipinte da anonimo, di Torquato Tasso

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