31 Marzo 2021

Lo scrittore come amabile delinquente. Dialogo con Leonardo Bonetti

Non apparteneva a questo mondo, mi pareva lunare, pietrificato dentro diverse infanzie – ha ancora i capelli lunghi, come allora. Era il 2009, a Milano, negli uffici – all’epoca – della Marietti: lui esordiva con un romanzo molto bello, Racconto d’inverno, io con un altro – e tremavo come una spada di fronte al futuro, all’alveare delle possibilità. Parlammo di Tommaso Landolfi, di Tarkovskij, il regista; veniva dai meandri del metal, il suo gruppo, gli Arpia – che esistono dal 1982 –, gode di una solida, sotterranea fama. Straniero alla letteratura, con uno stile arcano, di antico candore, Leonardo Bonetti mi fu subito amico, istituii una fraternità tra esuli, tra solari transufughi. Con Marietti completò il progetto romanzesco – quasi una cattedrale romanica – che comprendeva Racconto di primavera (2010) e Racconto d’estate (2012), mentre dal primo romanzo aveva tratto un disco. In un tempo che pare il multiplo dell’arcano, gli chiesi di tradurre il libro del profeta Daniele: ne fece un’opera lirica, cioè musicale – e una meraviglia che giace, per ciò che ne so. Ci dileguammo sulla morgana di una promessa; Bonetti ha continuato a scrivere, come si deve, in un suo modo latitante all’ovvio – nel 2012, con A libro chiuso pubblica la cosa più bella – raccogliendo elogi (tra i tanti, quelli di Walter Pedullà e Antonio Prete). La sua sorniona inquietudine lo ha portato, cinque anni fa, a firmare un film, Un amore rubato. Percorre le avventure per un destino devoto alle candele, Bonetti: l’ultima è un libro-amuleto, L’isola che non c’era, pubblicato con Il ramo e la foglia edizioni, pieno, come sempre, di figure tra fiamme d’ombra, di agnizioni (“La donnola, sulle prime, resta immobile come a voler perdere l’ultima occasione; ma non si fa in tempo a pensarla che è già via… Il mistero è sempre sotto i nostri occhi, ma a pensarlo non si trattiene. Perché sembra immobile, ma non lo è mai abbastanza”). È un libro fuori tempo, questo, con ruggine d’oro e una incauta fiducia nella narrazione (“Quest’isola non c’era. Non compariva nei portolani, immaginosi resoconti redatti dagli equipaggi del secolo decimosesto. Né in seguito nelle descrizioni dei mercanti o degli avventurieri che solcavano il Mediterraneo a loro rischio e pericolo”: così comincia, al crocevia dell’avventatezza). Come fosse scritto in margine a un codice medioevale che censisce le diverse morti di Atlantide, sparpagliando il rischio a bocconi, una fame bianca. (d.b.)

Partiamo da qui. Che cos’è il libro? Perché dare forma al libro?

Ho sempre pensato che il libro è già dotato di una sua forma, e che deve essere liberato dalla materia di cui s’è ricoperto nel tempo. Occorre trovarlo, innanzitutto, perché esso esiste già: vive sommerso, nascosto. Il compito dello scrittore si sovrappone allora a quello del curatore, colui che estrae mandorle dal fango e le ripulisce togliendo ciò che vi si è depositato sopra, per traghettarle dall’informe a una forma originaria. È un lavoro da fare nottetempo, furtivamente, come un amabile delinquente che ruba un po’ dell’infanzia del mondo contro il numero e la nevrosi dell’oggi.

Da dove nasce l’isola del tuo libro, da quale ispirazione?

In realtà questo romanzo è legato indissolubilmente a un’altra isola della mia scrittura, e più precisamente un piccolo volume pubblicato nove anni fa, A libro chiuso, sorta di manifesto e meditazione in prosa poetica. In fondo, ogni opera è un’isola, a mio modo di vedere e, al tempo stesso, un mondo in movimento. Perché l’arcipelago della scrittura è fatto di emersioni che rivelano la rotta verso cui stiamo andando. Così che se ci voltiamo e vediamo le nostre isole, i nostri libri, il cuore è più contento di prima di riprendere il viaggio in un mare tanto sconfinato da togliere il respiro. Tuttavia altre suggestioni hanno agito durante la gestazione del romanzo, e mi riferisco ad esempio agli echi letterari de l’Utopia di Tommaso Moro o L’iguana della Ortese; oppure alla materia mitica e leggendaria dell’Atlantide; o, infine, alle cronache del XIX secolo che raccontavano la storia dell’isola Ferdinandea, sorta e poi scomparsa nel canale di Sicilia dopo essere stata contesa da francesi, inglesi e borbonici. A dimostrazione che quando il potere cerca di possedere l’isola o ciò che l’isola rappresenta di più vivo e di più autentico, essa diviene nuovamente inafferrabile. Bene, da tutto questo e da altro ancora, come un materiale composito di riflessioni, storie e immagini, è nato questo mio ultimo romanzo.

Lui è Leonardo Bonetti

Romanzo, poesia, musica, film… c’è come il tentativo di esaurire ogni esperienza retorica, ogni virtù estetica. Come mai questo vagabondaggio nei generi?

Sono una persona inquieta, che continua a cercare, non uno scrittore, un compositore o un regista. Mi viene alla mente Palazzeschi e la sua Chi sono?: un musicista, un pittore, un poeta? No: “io metto una lente/ davanti al mio cuore/ per farlo vedere alla gente”. In fondo scrivere vuol dire mettersi a nudo. Ma non si tratta né di vanità né di autoesaltazione retorica (come direbbe Gozzano: “io mi vergogno,/ sì, mi vergogno d’essere un poeta”). C’è al contrario un’urgenza, una necessità espressiva che risponde ad altri appelli. Non si scrive per l’utile, né si compone o si rischia la reputazione con improbabili esperienze cinematografiche per ottenere un premio da corrispondere ai giudici dell’estetico in cambio di un giusto compenso. Perché in questa ricerca inesausta, disperatamente festosa, c’è la risposta a un sentimento di carattere etico ed estetico che si fa via via più pressante. Cresce, questo sentimento, di fronte al richiamo – che alcuni sentono disperato, altri stupito – di un mondo sommerso e senza parola che supplica di essere detto. Ognuno di noi scrive, compone, si esprime in modo autentico sempre e solo aiutando l’isola a emergere dagli abissi in cui era sprofondata. Occorre una dose d’amore al limite dell’umano per proteggerla dalla corruzione e dal potere. Occorre una parola che si nutra della sua ombra e del suo silenzio. Occorre la parola della poesia non come genere letterario, ma come indole dell’umano che attraversa i linguaggi, tutti i linguaggi necessari a difendere il cucciolo dell’isola dalla sua perdizione.

Scusa ma… che fine hanno fatto gli Arpia?

Sono attivi negli scantinati della postmodernità, direi. Anzi, posso rendere pubblica una novità che sa di anni Ottanta: a maggio verranno pubblicati i nostri lavori di allora in versione restaurata, su vinile: editore spagnolo e distributore statunitense. Un riconoscimento forse tardivo di quanto di arrischiato tentammo in quegli anni tanto prolifici.

Cosa leggi? Qual è il tuo rapporto con la cultura del tempo, con gli altri scrittori italiani?

Che dire? Mi sento perfettamente inserito nell’oggi, ma a veder bene del tutto in controtendenza. Questo mio tempo lo considero con lucidità, ne registro gli errori, le mancanze. Forse perché me ne sento distante quel tanto che basta. Non leggo autori contemporanei, mi limito a scorrerli velocemente, quasi avessi poco tempo da dedicare a chi, non credendo in niente, scrive per qualche altro motivo, per qualche altro fine. Quando incontro un autore lo affronto con appassionata allegria, tutto qui. Sono un postmoderno che cammina nella direzione comune a tutti procedendo a ritroso. E questo perché cammino rivolto all’indietro, con la nostalgia del moderno. È il Novecento il bacino a cui continuo ad attingere senza risparmiare qualche puntata verso le meraviglie dell’origine e della tradizione: il Duecento, Ariosto, Tasso. Ma se la mia predilezione per il secolo scorso è indubbia, resta sempre al di qua della linea sottile che sta tra moderno e avanguardia. Scrivo seguendo le tracce del mio cammino come solo può uno scrittore degli anni Dieci, degli anni Venti. E segno le mappe di questo percorso come una poetica ricca di corrispondenze. Non mi avventuro al di là delle avanguardie, se non per osservare con dolore le macerie della disintegrazione dell’io e della morte della pietà. In questo nostro tempo riconosco nel grottesco della tecnica tutti i segni di una continuità con l’orrore del passato, di un vivere e morire nella macchina e per la macchina. Ma so bene, e allegramente, che solo di eclissi si tratta. Che dall’arte e dalla letteratura si alzano ancora voci purissime a cantare, in questa nostra postmodernità, il sentire dell’uomo, il suo patire insieme: Ortese, D’Arrigo, Mazzaglia. E ogni volta è una festa.

Perché ostinarsi a scrivere?

Non si tratta di ostinazione. È semplicemente impossibile smettere finché si continua a credere. Le due funzioni sono irrimediabilmente correlate. Forse dovresti rivolgere questa domanda a chi oggi scrive senza più possedere l’organo preposto alla fiducia. Io, per me, sono ancora troppo sprovveduto, troppo giovane e sensibile per ottenere la patente di cinico o nichilista. Lascio veleni del genere ad autori più maturi e smaliziati. Chi non ha un faro da seguire, nell’insoddisfazione che ne consegue, genera un po’ di rumore, qualche disturbo, nulla più. Sennonché, di qua da quella linea, resiste l’umano, la vertigine della natura e dei mari dove ancora ci si arrischia alla ricerca di rotte che dall’isola portano ad altra isola, dal libro ad altro libro.

*In copertina: Nicola Samorì, Soluzione, 2009, olio su rame

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