13 Agosto 2018

Leggere la storia di Elia per capire il genio narrativo di Saul Bellow (e da dove arriva Melville). Ovvero, la vita è un deserto e noi ci lamentiamo sempre

La domenica parlano – con sperabile ispirazione – i preti. Il lunedì, da incosciente, metto il cranio dentro la liturgia domenicale. Screziando, da dis-graziato, i testi. La liturgia la trovate, per comodità, qui. Io uso il Nuovo Testamento interlineare, bisciando tra italiano, greco e latino. Pigliate questi come appunti sul margine sfinito, come punti d’appoggio – o di rovina – sulla roccia.

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Topografia biblica. Il Carmelo più che un monte è un colle, alto 600 metri, vicino al mare, nella valle di Izreel, poco lontano da Nazaret: è dove abita Elia, il profeta più forte della Bibbia, quello che si scontra contro il re Acab, un pervertito – ogni riferimento filato ad arte da Melville sul corpo del capitano ossessionato dalla divina Balena Bianca è voluto. Il fiume Kison scorre alle pendici del Carmelo, per poi fondersi al Giordano e sfociare nel Mare di Galilea. Lì Elia fa trasportare “i profeti di Baal… lì li ammazzò” (1 Re 18, 40). L’Oreb, invece, dove Elia si dirige braccato dalle maledizioni di Acab, è il Sinai, in Egitto, dove Dio parla, dove Dio ha parlato a Mosè. Nella Bibbia le storie hanno la nitidezza di una pietra che ti spacca il viso – le pietre parlano, i monti contengono profezie, il vento crea una genealogia, i fiumi mormorano alcuni nomi, nessuno dimentica i morti.

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L’episodio di Elia raccontato nel capitolo 19 del Primo libro dei Re potrebbe essere scritto da Isaac B. Singer, da Saul Bellow, da Chaim Potok o da Bernard Malamud. Andrebbe studiato come matrice della letteratura ebreo-americana contemporanea: quel capitolo ha un ritmo narrativo selvaggio, parla di vita e di morte con caleidoscopico umorismo.

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Deserto e ginestra, intanto. “Egli penetrò nel deserto per un giorno di cammino e andò a sedersi sotto una ginestra” (1 Re 19, 4). Il deserto, simile al palato del cobra, è il luogo delle scelte definitive. Elia, il grande profeta, era “desideroso di morire”, “Ora basta, Padrone! Prendimi la vita, che non è migliore di quella dei miei padri” (1 Re 19, 4). Allora l’uomo può desiderare le morte, è lecita la disperazione. Che bello, che salvezza.

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Forse la schermaglia è retorica – l’uomo deve lamentarsi delle proprie sfortune. Elia, il campione di Dio, si ribella, battibecca, vuole la morte, mette alla prova Dio. Dio risponde: invia a Elia un angelo, che lo sveglia e gli dà il cibo, “una focaccia cotta su pietre roventi, e un orcio d’acqua” (1 Re 19, 6). Badate ai dettagli – propri del grande narratore. Chi ha cotto la focaccia sulle pietre roventi? L’angelo-chef? Per due volte l’angelo sveglia Elia, finché il profeta, “con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb” (1 Re 19, 8). Ancora una volta Dio si presenta come cibo: dal niente del deserto – occhio senza palpebra, il deserto fissa le nostre debolezze con precisione che ustiona – trae nutrimento.

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Quaranta è il numero della prova – a cui si può soccombere – da cui si può risorgere. La ‘quarantena’ è il periodo necessario, di isolamento, per guarire da sé. La ‘quaresima’ anche.

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Il rapporto con Dio si esplicita nel cibo: “io sono il pane della vita”, dice Gesù (Gv 6, 48). Dio va spezzato, mangiato, condiviso. Dio è carne tangibile – mica essenza imperscrutabile.

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Dal deserto, un fruscio di vesti d’angelo; nella città il mormorio dei maldicenti. “I Giudei mormoravano di lui” (Gv 6, 41); “Sparisca da voi… ogni maldicenza, ogni cattiveria… perdonatevi a vicenda” (Ef 4, 31; 32), dice Paolo – e il perdono non è condono delle colpe. Il cristiano parla frontale, a viso netto, gettato – altrimenti inghiotte la lingua. Il mormorio convoca le serpi in assemblea.

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Gesù si dice “pane vivo, disceso dal cielo” (Gv 6, 51); metafora papale: la vita è un deserto, noi siamo degli Elia abbandonati alla disperazione, Gesù è il pane che ci porta, al termine della quarantena, a Dio. Il pane a cui allude Gesù “è la mia carne” (Gv 6, 51), un pane grazie a cui, “se uno ne mangia… vivrà in eterno” (idem). Questa prospettiva è assente nel Primo Testamento: il pane offerto dall’angelo dà la vita, non è “vivo”; la morte, per l’ebreo, è buio, mentre per il cristiano è congiunzione con Dio; impiantato nel gorgo della storia e della ‘politica’ all’ebreo biblico sfugge il concetto di eternità, una chimera che fa il valzer nel deserto, un miraggio, aridità che pare lago.

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Ma quella ginestra in pieno nulla – e quei fiori che fanno faro all’angelo, che sembrano i pollici di un sarto celeste –, a fare ombra a Elia, chi l’ha voluta, da dove arriva? (d.b.)

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