Il ricordo delle continue morti di mio padre sta distruggendo a poco a poco il mio sistema nervoso.
La prima volta fu solenne, con grande strazio di tutti. Accadde durante le vacanze al mare. Come pesava la luce della lampadina, quella sera, sul Tirreno! L’ultimissima luce del giorno faceva bianche le nubi più alte e le scie degli aeroplani, ma i fichi d’India erano neri, lì, davanti all’ingresso, appena dopo il ghiaino.
In casa c’era una luce gialla e cattiva. Papà stava male, malissimo. È come se questa luce elettrica disse mi cadesse come olio nella bocca e nel naso, impedendomi di respirare. E il suo respiro si fece, in effetti, sempre più faticato, finché, sotto gli occhi di tutti noi (anche i nostri sguardi, forse, lo soffocarono), morì. Qualcuno di noi uscì allora in bicicletta, lasciando lacrime e fazzoletti, accettando che l’aria, ora fresca, gli asciugasse le sue, mentre la pelle gli rabbrividiva sotto la maglietta. La discesa lo inghiottiva, buia come un labbro socchiuso. Sopra il baffo, gli aerei continuavano a lasciare tracce bianche, in quel celeste che indugiava.
Tornarono in due, lui e il prete, che pianse anch’egli a lungo, perché era molto amico di mio padre. Dico “era”, perché dopo quella sua prima morte, mio padre ha lasciato tutte le amicizie. Ma il funerale fu in ogni caso uno spettacolo, con il corteo che si sbriciolava lungo il camminamento di marmo bianco e rosso che seguitando la costa saliva fino alla chiesetta erta a picco tra i due golfi. Era una giornata tersa; l’aspro, splendido mese di giugno lasciava lì le sue orme inconfondibili.
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Giorni lontani. Il dolore si alzava puro, aveva lo stesso colore di quel cielo e non sembrava conoscere ostacoli. Ora è ben diverso. Le continue morti di mio padre divennero causa, per tutta la famiglia, di profondo disagio e, per dirla tutta, di molte seccature, che hanno finito col manomettere i rapporti fra noi. Sicuramente, la colpa è della distrazione di mio padre, che non riuscì mai, nonostante gli spergiuri e l’impegno, ad attenersi alle mille regole indispensabili affinché la morte non si ripeta. Avrebbe dovuto starsene immobile, invece voleva agire, agire, accidenti a lui, e così pressoché ogni azione lo conduceva alla morte.
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La prima volta fu quando, appena tornati dalle vacanze, mentre ancora le valigie erano da disfare, lui volle coricarsi per il sonnellino pomeridiano. Quando andai da lui con il caffè, vidi la sua faccia orribilmente gonfia, la bocca semiaperta, e mia madre che camminava su e giù per la stanza, furibonda.
Cos’era successo? Mio padre era morto di nuovo, molto stupidamente, cercando di sollevare una valigia.
Un’altra volta morì – ce lo spiegò lui stesso, con un filo di voce – perché, col caldo che faceva, non aveva resistito alla tentazione di andare al frigorifero e servirsi un bicchiere di latte freddo. Quella volta, quando accadde, mi trovavo fuori casa, credo ad amoreggiare con una ragazza che non amavo (strano: più mio padre moriva, e più sentivo il bisogno di perdermi in amori di poco conto).
Rientrato, vidi mia madre che parlava con una vicina. È inammissibile, ripeteva, alla sua età, con due lauree: basta che giri il capo, e subito lui mi muore come un bambino, peggio di un bambino. Sono uscita cinque minuti, dico cinque minuti, e quando torno, non lo trovo già morto? Mio nonno, padre di mio padre, dava ragione a mia madre, ma insieme commiserava il povero figlio con sospiri e tentennamenti del capo. Poi la porta di cucina, dove ci trovavamo, si aprì, e la più lesta a volgersi fu proprio mia madre, che era quasi trasalita, come se avesse paura di essere ascoltata. E l’aveva, infatti, perché si sentiva in colpa, in fondo stava sparlando del marito.
Ma chi entrava in quel momento? Proprio mio padre, il volto tumefatto, il passo strascicato, le lacrime affioranti agli occhi. La vicina, che si trovava presso la porta, si affrettò a cedergli la sua sedia. Diglielo tu, disse mia madre, risentita, con gli occhi carichi di pena, diglielo tu cos’è successo.
Ero venuto qui solo per bere un po’ d’acqua, piagnucolò mio padre per giustificarsi. L’acqua o il latte? intervenne mia madre, dura. Il latte, sì, va be’, il latte disse lui, quasi senza fiato. Volevo servirmene un piccolo bicchiere, sì, disse “servirmene”, questa parola mi colpì molto, mio padre si concedeva queste piccole irregolarità. Come quando, definitivamente scomparso, mi capitò in sogno, e alla mia domanda su dove fosse ora, come si trovasse, se avesse bisogno di qualcosa, rispose con una sola parola: inargusibile, ossia che “non si poteva arguire”.
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Non voglio parlare, qui, delle altre sue morti, sette in tutto, alle quali ci abituammo tutti ben presto, anche se ogni volta, dietro l’ira, dietro il dispetto per il nuovo misero particolare trascurato (erano sempre, come si vede, i particolari trascurati a condurre alla morte), c’era il solito dolore, il solito penare. Mentre mio padre, come detto, tralasciava tutte le vecchie amicizie, fino a non riconoscere più i suoi amici, anche quando venivano a trovarlo, il resto della famiglia riallacciò alcuni vecchi rapporti, soprattutto con i parenti di mia madre, che vivevano dispersi in Toscana. A parte un paio di zii che abitavano a Firenze, non conoscevo nessuno di loro. Alcuni avevano dei poderi nella campagna, e di due di essi – uno in Mugello, vicino Borgo san Lorenzo, e uno a Monte Spèrtoli – fummo anche ospiti per qualche settimana. Vidi allora per la prima volta i contadini, li vidi dietro i buoi, su per le viottole, col rastrello in spalla, li vidi erpicare e potare, li vidi mangiare pane e salame e bere vino. Vidi il sole levarsi, africano, sopra rotonde, rosse colline, e provavo un forte, ingiusto moto di vergogna di fronte ai toni crudi delle conversazioni, al tramonto, sulle porte, i volti tutti neri per l’ombra calata definitivamente, le mani grosse. Le sedie venivano poste in circolo, aria fresca fuggiva da dietro le tende delle case. Si avvertiva meglio che a casa il gran penare di quella gente, la fatica che costava loro la vita. Quando, però, c’era da ridere, si rideva, anche senza garbo, e le battute salaci non si risparmiavano. Se scoppiava una polemica tra un marito e una moglie, non si avevano riguardi a toccare, come se nulla fosse, gli argomenti più scabrosi, a nominare le parti anatomiche meno propense ad essere esibite, foss’anche soltanto nel linguaggio. Ma loro non se ne curavano, e alla fine tutta questa crudezza fece bene anche a noi. Mio padre era ormai allo stremo, e ascoltava i loro discorsi senza dire mai niente, sempre con lo stesso sorriso di ebete benevolenza incollato alle labbra.
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Caro papà! Io ti amo ancora, sai? Più e, credo, meglio di prima. Sei scomparso d’un tratto, d’un tratto hai smesso di morire, e ti sei ritirato compostamente, senza più accampare nemmeno la pretesa di un ricordo. Perché è così che va il mondo: la dimenticanza ferisce fin dentro il vivo del dolore. Fu, comunque, dopo di allora che nacque in me l’amore per la letteratura, e mi scoprii scrittore. Fu leggendo l’Amleto e riconoscendo in quel birbone di padre un baldo antenato del mio, anch’egli abituato a morire e morire più volte. E fu leggendo gli Ossi di seppia, nel primo distico di una vecchia poesia, che dice Meriggiare pallido e assorto/ presso un rovente muro d’orto, allorché mi avvidi della presenza che l’astuto poeta cercava di nascondere. Solo il volto dei defunti, infatti, è pallido e assorto, soprattutto a mezzogiorno, quando nulla di ciò che vive sopporta di essere così. Senza contare la rima, che richiama naturalmente il mal celato morto.
Da allora diventai, mio malgrado, scrittore, e tutto il mondo assunse in me, senza la minima necessità, la forma di un grande romanzo.
*In origine “Le diverse morti di mio padre” è stato pubblicato su “Nuovi Argomenti”, Gennaio-Marzo 1994, n.49, pp.21-23
**In copertina: Hans Holbein il Giovane, “Il corpo di Cristo morto nella tomba”, 1521, Kunstmuseum, Basilea, particolare