04 Maggio 2020

“Noi vogliamo la fine del mondo”. Le lettere di T.E. Lawrence dall’India (a Forster). Ovvero, ritratto di un uomo che fu Atlantide

Il punto è rompere lo schema, giungere con spavalderia alla rottura, dare leggerezza all’inevitabile. Il genio di Thomas Edward Lawrence credo che sia nella latitanza – indossò diverse identità, accettò la fama e l’ignominia, l’impresa e l’offesa; in ogni atto fu un estremo dilettante, vigorosamente fuori tempo. Già: ci sono persone, rare come un’Atlantide, che attraversano in diagonale la Storia – e se possibile risalgono l’uomo a contrario, aspirando a una implacabile e inappagata giovinezza. Di suo “Lawrence d’Arabia” non ebbe nulla, neppure il nome – il padre, baronetto fedifrago, si chiamava Thomas Chapman; lui si sperperò in decine di pseudonimi, tra cui T.E. Smith, T.E. Shaw, John Hume Ross – tanto meno la posa da totem del deserto, ideata da Lowell Thomas, sagace giornalista americano con prevedibili ambizioni hollywoodiane. Lawrence si fece usare da tutti, abusò di sé, fino a sfigurarsi.

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Viso ampio, occhi docili, indubbiamente irrequieti, labbra carnose, T.E. Lawrence, Aurans Iblis, “Lawrence demonio”, come lo chiamavano nel deserto, è nel tono con cui si descrive, nella nota introduttiva a I Sette Pilastri della Saggezza: “Tutti gli uomini sognano, ma non allo stesso modo. Coloro che sognano di notte nei ripostigli polverosi della loro mente, scoprono, al risveglio, la vanità di quelle immagini; ma quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi, perché può darsi che recitino il loro sogno ad occhi aperti, per attuarlo. Fu ciò che feci io”. Sognatore e figura del sogno, sbucato dai deserti arabi come una chiosa al Corano, lo sbuffo di un cabbalista che vaga tra le spirali di un poema di Yeats. “Eravamo esaltati da idee inesprimibili ed inconsistenti, ma meritevoli d’essere difese con le armi”. Tra inesprimibile e sangue non c’è diga; d’altronde, gettare la vita dentro ciò che è inconsistente è un gesto sacro – chi si pone tra i confini dell’utile è congiunto al fumo.

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Lawrence termina la prima stesura dei Sette Pilastri un secolo fa. Il libro fu pubblicato nel 1926; contestualmente, nel 1927, T.E. prepara una edizione scorciata di due terzi, La rivolta nel deserto. Il deserto è il luogo della rivelazione, dell’esodo e della rivolta; “La saggezza ha la sua casa/ ha intagliato i sette pilastri”, dice il libro dei Proverbi. “Cercavo quel profeta armato che, se la storia non mente, trionfa nelle rivoluzioni”, scrive Lawrence, dalla città di Gedda (“Le rare persone che incontravamo erano tutte esili, come sciupate da una malattia, con le facce glabre e segnate da cicatrici e gli occhi sottili: scivolavano davanti a noi rapidamente e cautamente, senza guardarci”). Tutto, nel suo tono, è biblico, e in bilico: per compiere l’impresa, forse, occorre essere fuori luogo, uno che guarda oltre il tempo, alieno al secolo che gli è dato. Non è un caso che dieci anni dopo aver terminato i Sette Pilastri, Lawrence si chiuse a tradurre Omero.

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“Schietto, duro, virile, il suo libro… Per spietata chiaroveggenza e austerità di stile, non esitiamo ad accostare l’inglese a Stendhal”, scrisse Arrigo Cajumi, che lo ha tradotto, nel 1930, per Mondadori. Nemi D’Agostino – ma era il 1974 – sentì l’urgenza della didattica politica: “Lawrence d’Arabia, col suo sogno del ‘Principe della Mecca’ e del libro e innocente beduino, fu un conservatore. Come altri tipici intellettuali e scrittori del suo tempo – Eliot, Pound, Yeats, D.H. Lawrence, quelli che gli sono più vicini – fu il portatore di un ideale individualistico e di un’amara critica romantica del presente”. André Malraux lo idolatrava, ma a differenza sua, Lawrence non avrebbe saputo accettare alcun ministero, alcun ruolo: mentre Malraux rubava statue dai templi in Indocina, Lawrence si camuffava dietro altri nomi per arruolarsi nella Raf e tra i Tank Corps, ripartendo da zero, azzerandosi. Victoria Ocampo era estasiata dal nobile ribelle: gli dedicò due libri; lui avrebbe schifato l’attività intellettuale e lo spreco di soldi in iniziative culturali.

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Riconosceva lo stile, Lawrence – riconobbe una fraternità con il suo opposto assoluto, E.M. Forster. Dal loro vasto epistolario, ho trascelto una lettera che si concentra su Lo stampo, l’altro – scarno, scabro, ribaltato – libro di T.E., che non fu soldato ma capopopolo, non fu scrittore ma avventato, non fu politico ma uomo, non fu stratega ma stregone. All’Arabia, infine, preferì l’India: da lì, dove fu inviato tra il 1926 e il 1928, da Karachi e Miramashah, scrive all’autore di Camera con vista e Casa Howard. “T.E. era una persona difficile, e nessuno che l’abbia conosciuto bene si arrischierebbe a dare un giudizio conclusivo sulla sua figura. Una cosa è certa: possedeva le tre virtù eroiche del coraggio, della generosità, della compassione”, scrisse di lui Forster. Quanto al libro, lo giudicava il Moby Dick dei deserti.

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In un passo del suo libro, Nomadi e vita nomade, Lawrence è in un accampamento, nel deserto. L’amico Nasir gli chiede di guardare “il mio cannocchiale e cominciò a studiare le stelle”. Un altro, Auda, lo sfida: “Perché gli occidentali vogliono sempre tutto? Oltre le nostre poche stelle possiamo vedere Dio, che non è dietro i vostri milioni di astri”. Lawrence gli fa, “Noi vogliamo la fine del mondo, Auda”. Eccola, la grande rivelazione dell’uomo che si è spogliato di tutti i nomi, e che dell’Occidente teneva lo scalpo, tra le dita. (d.b.)

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Miranshah, 28 agosto 1928

Caro E.M.F.,

ti sono grato della tua lettera meravigliosa su The Mint [in Italia edito come Lo stampo, ndr]. Suppongo che madri e padri, di nascosto, prendano in giro i propri figli, come io faccio con i libri. Riesco a vedere che cose sgraziate e sciocche sono: eppure, non posso fare a meno di sentirmi felice, nel posto vuoto tra le mie costole e l’ombelico, quando qualcuno ne parla bene… e se tu, che sei uno degli scrittori più brillanti in lingua inglese, mi dici cose così carine che, beh, non puoi immaginare quanto questo verme tenti di elevarsi! Non essendo mai stato un verme, tu non puoi conoscere i sentimenti di un verme.

Ovviamente, I Sette Pilastri è più vasto di The Mint. Nei Sette Pilastri mi sono lasciato andare, ho tirato fuori le viscere, è un’orgia di esibizionismo. Mai più. Credo che per il suo equilibrio, la dignità, la forma artigianale, The Mint sia migliore. Con ciò non intendo dire che The Mint sia privo di emozioni e I Sette Pilastri senza equilibrio: confrontandoli è così. Garnett [Edward Garnett, scrittore e critico letterario di rilievo: fece pubblicare, tra i tanti, D.H. Lawrence, Joseph Conrad, Robert Frost, ndr], curiosamente, ritiene che i “Pilastri” sia un libro reticente e The Mint un dono di me stesso. Per quanto mi riguarda, non esiterei a pubblicare The Mint domani! In realtà, la pubblicazione non dipende da me. Trenchard [Hugh Trenchard, creatore, organizzatore, comandante della Royal Air Force, ndr] non è l’ostacolo principale, anche se per lui io ho un’ammirazione quasi illimitata. È un uomo eccezionale. Penso che sopravvaluti il danno che The Mint farebbe alla Raf: ciò che mi trattiene è l’orrore che proverebbero i miei compagni nel riconoscersi. Di solito, preferiscono essere visti nei loro vestiti migliori, mentre si passano le mani nei capelli, ben lavati. Nel mio libro appaiono disadorni, se ne avrebbero a male. Devi pensare che The Mint è un libro esatto, analitico: i nomi sono reali! Quindi, The Mint sarà distribuito non prima del 1950. A quell’epoca, i personaggi non avranno più importanza. Trenchard sarà morto [morirà nel 1956, ndr] e forse anche io (morto o a 62 anni, è uguale. Ti immagini, che spettacolo leggere The Mint con la barba bianca, a 62 anni!).

Garnett continua a credermi uno scrittore e mi rimprovera perché ho scritto troppo poco. Ma io non sono uno scrittore. Non c’è alcun demone nel mio cervello che mi spinga a scrivere su carta ciò che mi detta. Eppure, ho scritto due libri, uno da 300mila parole e l’altro da 80mila, in nove anni. Non sono meno scrittore di te – anche se, ovviamente, le mie cose non si collocano affatto al tuo livello. Edgar Wallace scrive molto. Ma non è al livello dei tuoi romanzi – e neanche di The Mint. I Sette Pilastri è stato una sfida estenuante. Eppure, posso assicurarti che per quanto imperfetti, in nessun libro trovi una parola non calcolata, frutto del caso. Ho fatto del mio meglio. Forse in modo esagerato…

Il mio prossimo libro sarà una traduzione letterale dell’Odissea, senza il nome del traduttore. Nella traduzione puoi permetterti tutti i giochi verbali che vuoi, senza le responsabilità dell’artista, della crazione. Potrei continuare a tradurre per sempre, ma ho una idea ancora che mi gira in testa.

Che lettera egocentrica. Colpa tua: mi costringi a scavarmi, a giustificarmi. Credimi, in realtà non penso quasi mai a me stesso. Tuo,

T.E.S.

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Edward Morgan Forster era del 1879 e studiò a Cambridge. Lawrence d’Arabia dell’’88 ed era di Oxford. Nonostante ciò, le loro vite si incrociano, c’è stima affetto comprensione. Passaggio in India è del ’24, I Sette Pilastri della Saggezza è terminato due anni prima. Forster portò il feretro di Lawrence assieme a Churchill e pochi altri.

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Le sue lezioni critiche cui Lawrence fa riferimento nella lettera che si traduce oggi hanno forse qualcosa a che vedere con le lezioni date da stampare a Penguin che comprensibilmente in italiano non circolano. Sono ad alto tasso di genialità. Ne riparliamo.

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Maurice invece è il romanzo volutamente uscito postumo, dopo il 1970: la via verso l’omosessualità di Forster è accidentata dalla misoginia, vista con lo sguardo di oggi. E chi lo sa se il progresso è una freccia che corre sempre dritta…

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Poteva essere una, ma non l’intera ragione dell’amicizia tra i due, questa componente omosessuale. In Forster tutto viaggia patinato: l’incontro misterioso nella grotta tra l’inglese e l’amico indiano in Passaggio in India può adombrare anche un quindicenne, sollevare un mistero sotto il velo intellettuale con un’arte allusiva estenuata. Stesso discorso criptico per Lawrence, a maggior ragione considerato che era nei ranghi speciali. Ecco uno squarcio teso tra i due, una lettera del 1927 da un continente all’altro. “Per trovare il codice della nostra epoca, usa il senso critico”. Chi meglio di lui poteva dirlo?

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In quel 1927 Lawrence non si sa bene come aveva composto un saggetto su Richard Hakluyt, scrittore e viaggiatore in America nel Cinquecento, poi una cosa divertente intitolata Una critica dei critici sottoposti a critica, poi un articoletto di letteratura feuillettonista (Biscotti assortiti) e un altro su D.H. Lawrence. Ci si chiede a questo punto che mira avesse, quando si esercitava… (Andrea Bianchi)

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Karachi, 14 luglio 1927

…Ho letto tutti i tuoi libri, tranne Passaggio in India, più volte, di recente. Mi superano. Sono attraversati da detti – generalmente terribili – che ritengo siano usciti con le fiamme dal tuo cuore, e che ti rappresentino; ma quando poi li raccolgo su un unico foglio, il ritratto che ne viene fuori è quanto di più lontano da quello vero, che ho ricavato quando si beveva un tè insieme. Il tè, ovviamente, è la tua bevanda; l’acqua è la mia, la birra di Chesterton e il Borgogna di Belloc. Quanto è duro il lavoro critico. Mi chiedo se sarò mai in grado di scrivere quell’articolo che ho immaginato prima di lasciare l’Inghilterra. Qualcosa di estratto dal naufragio che è questo viaggio in India.

In India… ma non è esatto. Non sono uscito ancora fuori dai confini del campo, non ho visto una casa indiana né altri indiani oltre a quelli che lavorano qui, sostanzialmente degradati e denazionalizzati. Finché sono qui, non uscirò. La maggior parte del tempo la passo a leggere e a pensare, vagabondo, mi siedo sull’enorme aerodromo, una distesa piatta, pulita, un lago di sabbia di quasi un miglio quadrato. Di notte mi sdraio di schiena lì in mezzo, e speculo sul fatto che alcuni di voi, in Inghilterra, vedranno queste stesse stelle nell’arco di qualche ora. Una vita facile. Ho comprato otto dischi di sinfonie corali, li trovo meravigliosi.

Come stanno i nostri professori? Povero te, ti immagino tra loro mentre farfugliano: deve essere un purgatorio – e un purgante.

E le tue lezioni critiche? Stanno uscendo? Spero di aggiungerli ai romanzi come prove contro di te. È tuo dovere dare al mondo una guida per interpretare il percorso che hai tracciato (anche il coniglio mostra il bianco della coda in corsa). Altrimenti i cacciatori non avranno mai la tua pelle: e come possono scaldarsi in inverno se non hanno la pelle di uno scrittore? Per trovare il codice della nostra epoca, usa il senso critico.

Tuo

T.E.S

E stai anche maturando lentamente un senso critico relativamente ai miei due testi. Te la ricordi la storia di quel candidato all’esame di ammissione che aveva tre ore per il suo saggio e che sedeva per 2 ore e 59 minuti, nel silenzio della grande aula, poi si accostava alla luce della lampada sul tavolo e scriveva una sola frase? Ti ricordi che ce la fece?

 

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