12 Luglio 2020

Dagli archivi. Dialogo con Laurie Anderson, straordinaria musicista, tra William Burroughs e i canti della Mongolia estrema

Laurie Anderson verso la fine del Novecento declina a suo modo il termine «avanguardia». Fin dagli anni Settanta coniuga minimalismo, scultura, pittura, fotografia, videoarte e regia; collabora con scrittori del calibro di John Giorno e William Burroughs e partecipa alle installazioni sonore e multimediali di John Cage. Nello spettacolo Transitory Life il suo particolare approccio vocale sovente manipolato attraverso l’elettronica nobilita il recitato, perché spiega di sentirsi prima di tutto una narratrice. Laurie Anderson come Cage non dimentica che l’improvvisazione è anche gesto musicale ed è presente in ogni civiltà, ad ogni latitudine ed in ogni epoca, approccio estetico che la conduce dalla Mongolia alla musica eurocolta. Dai compositori Terry Riley, Steve Reich e Philip Glass, l’artista americana eredita il piacere di una pulsazione ritmica regolare unita alla scarnificazione del linguaggio armonico che si apre in questo modo a soluzioni illimitate. Il panorama sonoro di Laurie Anderson sembra filtrato attraverso un modo sempre nuovo di vedere e ascoltare collegato alla tecnologia, a volte alla velocità ed alla forma canzone panetnica. Abbiamo avuto l’occasione di chiacchierare con Laurie Anderson dopo una conferenza informale aperta al pubblico e ai giornalisti, e in questa occasione ha voluto raccontare anche dei suoi incontri con gli artisti newyorkesi minimalisti.

In che modo nasce la sua ispirazione per lo spettacolo «Transitory Life»?

L’ispirazione di Transitory Life nasce da racconti di avventura e dall’aver attraversato vari luoghi. Quando viaggi in terre come il Polo Nord, il Messico o la Slovenia, avverti la sensazione di trovarti realmente in un posto diverso e forse questa suggestione mi ha spinta a realizzare le immagini tradotte in musica di Transitory Life, come se si trattasse di montare diversi cortometraggi. Inoltre il mio viaggio mi ha avvicinata a una percezione diversa del tempo: a volte l’ho sentito arretrare, altre muoversi più velocemente o addirittura fermarsi.

Come mai per «Transitory Life», un insieme di lavori che raccolgono progetti di epoche differenti, ha scelto di utilizzare unicamente il linguaggio musicale?

Per rendere Transitory Life un film. La musica scava nel profondo… come un contrappunto. Nei film, ad esempio, l’immagine di un edificio può essere modificata da un sottotesto musicale che crea un’atmosfera di tensione o tranquillità. A mio avviso la musica è un veicolo emotivo che aggiunge altre informazioni e a volte ti suggerisce come sentirti.

Il musicologo Carl Dahlhaus, durante una discussione sul tema «Identità e musica» osservò che sarebbe stato più appropriato sostituire la parola «identità» con il termine tedesco «wesen» (coscienza dell’essere). «Transitory Life» potrebbe abbracciare questa idea ?

È una domanda davvero complessa… la musica ti offre la possibilità di guardare le cose da un ulteriore punto di vista. La musica è un modo di guardare: quando sono in giardino, ad esempio, mi capita di osservare le pietre, il modo in cui sono disposte lungo il bordo, la linea che divide l’erba dalla ghiaia, e apprezzo il mondo. Nel caso specifico di Transitory Life, il mio approccio musicale ha a che fare con il prestare attenzione, non riguarda il fare qualcosa di grande, nuovo, originale.

Nel suo album intitolato «Homeland» l’incipit del brano «Transitory Life» è ispirato alla tecnica del canto diafonico utilizzato nella musica folk dell’Asia Centrale?

Il mio museo preferito di New York è il Rubin Museum (museo di arte himalaiana) dove è allestita una bellissima collezione; un giorno per puro caso mi è capitato di ascoltare un coro di mongoli cantare ogni singola nota comprensiva di armonici, come una radio sintonizzata su 26 stazioni contemporaneamente! Ne rimasi davvero sorpresa, motivo che mi convinse a seguire un laboratorio insieme ad alcuni musicisti di New York; dicono sia un cliché che la musica sia un linguaggio internazionale, ma è così. Non avevamo bisogno di parlare, improvvisamente suonavamo all’unisono, era magico! Terminato il workshop proposi al coro di seguirmi in tour… ricordo un concerto in Portogallo: era notte e suonavamo in un castello, era un sogno suonare all’aperto, in lontananza, senza guardarsi. Terminato il concerto notai che il coro di musicisti mongoli si allontanava a piedi nell’oscurità, dopo alcune ore scoprii che il loro manager russo si era dimenticato di organizzare il trasporto e il coro aveva deciso di raggiungere la tappa successiva del tour a piedi… Una camminata di dieci ore in piena notte! Ho imparato così tanto da loro, dal modo che hanno di vivere la musica e dalla loro concezione del tempo. È un mondo completamente diverso, non che il nostro sia così orribile e il loro così perfetto, mangiano carne di yak! Non idealizzo la cultura mongola, ma ho trovato interessante accostarmi a una realtà tanto distante dalla mia.

Maria Giovanna Barletta

*Il testo è stato pubblicato in origine su “Alias”, allegato al quotidiano “Il Manifesto”, il 22 dicembre 2012

**In copertina: Lou Reed e Laurie Anderson (la fotografia è tratta da qui)

 

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