07 Gennaio 2018

L’arte ci riconcilia con il terrore: ecco perché ci piacciono le fotografie ‘gotiche’ di Emanuela Cau (che ci ricordano tanto quel geniaccio di Leopardi)

Il nostro è un tempo assurdo e corrotto nella sua strenua difesa della moralità. Una povera mortale, invece di fare i conti con la sua miserabile caducità, sfida e oltraggia l’incommensurabile arte di Balthus, propone la censura. Al di là di ogni ragionevolezza, una sfrontata morale da schiavi di nietzschiana memoria riesce a imporsi sulla furia vitale della morale dei signori. Il basso diventa alto, la bellezza deve sottomettersi alla meschina visione della servetta bigotta. Il sacro ordine ancestrale del mondo si rovescia. Mala tempora currunt e l’uomo rischia di distruggere il migliore dei suoi prodotti – l’arte –, prima ancora che il tragico e ineluttabile corso della materia giunga al suo termine.

Ma qual è l’orribile colpa per cui l’arte dovrebbe essere bruciata e bandita, secondo le masse? Tutto inizia con l’infame saggezza di Platone che, nella Repubblica, condanna giustamente poeti e consimili. Purtroppo, è difficile dargli torto: la poesia è attività massimamente spirituale e si sa che troppo spirito è nocivo a ogni tipo di comunità coesa. L’ego del poeta esplode, pretende di primeggiare, e ciò non si addice se non a uno stato anarchicamente liberale. In tal senso, Popper ha ragione nel porre il vecchio greco tra i nemici della società aperta.

Un portfolio di immagini, abissali, di Emanuela Cau

L’arte ha il magico potere, molto più dell’asettico linguaggio, da manuale di patologia medica, della filosofia, di aprire uno squarcio sul male e il terrore di un’epoca. Dice giustamente Hegel che la filosofia, come la nottola di Minerva, inizia a volare quando la giornata è bella che fatta. Ciò che essa riesce a constatare con la rassegnazione del medico, oramai ridotto a poter fare unicamente l’autopsia di un cadavere, la poesia, la narrativa, la pittura l’hanno sovente già denunciato con largo anticipo. Questo è certamente il caso delle fotografie di Emanuela Cau. Aleggia sulle sue opere una patina oscura di polvere e graffi che è anche l’atmosfera che avvolge il nostro esistere. Ci sono forze e pulsioni che minano la vita stessa dall’interno e proliferano come batteri nascosti alla visione a occhio nudo e che qui emergono in tutta la loro furia dionisiaca. Perfino la forza cristallizzante dell’obiettivo non riesce a catturarle fino in fondo, da qui i volti scomposti nel moto. Oppure è proprio questa la loro essenza, un gorgo confuso, un qualcosa che non conosce mai una forma fissa e stabile.

È certo che, nel dare voce a ciò che solitamente tace in noi, emerge una bellezza del terrore e dell’ossessione con cui in pochi riusciranno realmente a fare i conti. Come per la fruizione di Francesca Woodman e di Jan Saudek – chiari riferimenti nel background dell’artista –, così per cogliere il fascino delle foto della Cau, bisogna aver affinato un certo gusto per il piacere del disturbante. Il gusto di chi non ha paura di fare i conti in ogni momento con certi demoni e incubi alla luce del sole, che mostra le ferite con un orgoglio da reduce, scampato per un pelo al suo stare al mondo.

Cau 2C’è un’inquietudine nelle sue immagini che quasi genera timore e induce a tenere le distanze dalla creatura umana – cosa nasconda non è chiaro, ma certamente non si tratta di alcunché di rassicurante. La sensualità diventa oscura e pericolosa (la nudità è spesso sporca di sangue); i resti dell’infanzia (quelle bambole che compaiono) non rimandano a un passato di leggerezza e serenità. Le maschere e la simbologia sono spesso equivoche come in un film di Lars von Trier. Il torbido è la cifra morale, tanto quanto la desaturazione e la successiva ricolorazione lo sono sul piano stilistico.

Ma, allora, perché l’arte? Da cosa può nascere la necessità estetica in un tale ginepraio di terrore e malessere? Queste foto sembrano in tal senso dare ragione a una tra le più abissali riflessioni artistiche che il Leopardi porta avanti nello Zibaldone: “Hanno questo di proprio le opere di genio, che quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l’inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia ad un’anima grande che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e scoraggiamento della vita […] servono sempre di consolazione, raccendono l’entusiasmo, e non trattando né rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta. E così quello che veduto nella realtà delle cose, accora e uccide l’anima, veduto nell’imitazione o in qualunque altro modo nelle opere di genio […] apre il cuore e ravviva. Tant’è, siccome l’autore che descriveva e sentiva così fortemente il vano delle illusioni, pur conservava un gran fondo d’illusione, e ne dava una gran prova, col descrivere così studiosamente la loro vanità (v. p.214-215.), nello stesso modo il lettore quantunque disingannato, e per se stesso e per la lettura, pur è tratto dall’autore, in quello stesso inganno e illusione nascosta ne’ più intimi recessi dell’animo, ch’egli provava. E lo stesso conoscere l’irreparabile vanità e falsità di ogni bello e di ogni grande è una certa bellezza e grandezza che riempie l’anima, quando questa conoscenza si trova nelle opere di genio”.

Non è necessario, a ogni modo, che l’artista abbia letto queste riflessioni. Basterà che ne abbia un’oscura cognizione, uguale a quella che la anima al momento della realizzazione. L’arte, del resto, non ha da essere trasparente nemmeno a chi la crea.

Matteo Fais

Gruppo MAGOG