27 Luglio 2018

“L’anima mia si colmerà d’un amore sconfinato”: l’insoddisfatto, inafferrabile Rimbaud in una nuova traduzione

“Se si ama la vita, non si legge”, si legge nel saggio che Michel Houellebecq ha dedicato a H. P. Lovecraft. Ma si potrà anche pienamente, tranquillamente, pacificamente dissentire: è del tutto possibile che si possa amare la vita e che si legga; così come è possibile che si odi la vita e non si legga affatto.

Per approssimazione ci si avvicinerà di più alla piccola verità del rapporto tra vita e letteratura attraverso un altro apoftegma, in questo caso di Fernando Pessoa, il quale sostenne invece che: “La letteratura è la dimostrazione che la vita non basta”. La vita non basta soprattutto quando la vera vita non c’è.

La vita non basta, questo è certo più vero, e se c’è chi se la sente di dissentire, specie per contraddire il fatto che la letteratura possa davvero esser non solo la dimostrazione che la vita manca di qualcosa, ma anche la soluzione a questa mancanza, ecco venirgli incontro, a patto d’accettare la prima inverificabile ma vera verità, l’esempio di Arthur Rimbaud, il poeta che forse più di tutti rincorse la vita, o meglio, la vera vita, che sentiva e diceva non tanto mancargli quanto proprio mancare, ma cui la poesia non bastò. E se la sua di poesia non gli bastò, a chi mai potrà insomma bastare? Che poi, come ha scritto Mario Luzi, non si tratta neppure di poesia; l’evento Rimbaud va ben oltre il mero fatto letterario, i semplici libri: “Non si tratta, si capisce subito, di un episodio interno alla letteratura, ma di un accadimento primario e assoluto, incidentalmente coinvolto nella letteratura di quegli anni.”

È da Charleville, villaggio natale del poeta, e dunque da Rimbaud bambino, che bisogna partire; il villaggio dove la vita non gli bastava e non poteva bastargli. Da qui partire per arrivare in fondo alla sua traiettoria poetica; per arrivare a quella illuminazione conclusiva secondo cui la poesia non basta, così come la vita. Ora, se, come scrive Charles Baudelaire nel capitolo “Il genio bambino” della sezione de I paradisi artificiali che egli accoratamente dedicò a Thomas De Quincey, “il genio non è che l’infanzia nettamente formulata, dotata ora, per esprimersi, di organi virili e possenti”, la parabola esistenziale e letteraria del poeta, il suo brandire la poesia per farne uno strumento di scoperta del mondo, di sé e del divino, con tutti gli aspetti fanciulleschi e insieme un raro vigore e infine un misterioso silenzio, hanno, pure al di là della possibile conversione in articulo mortis, un portato “mistico”.

Può poi capitare che non basti non soltanto la vita in un paese italiano che potrebbe esser l’analogo contemporaneo di Charleville, e per giunta proiettato alla fine del tragico XX secolo, agli inizi di un ancor più disgraziato XXI, ma neppure le opere di Rimbaud, o per meglio dire le sue traduzioni in lingua. E che esse scongiurino, per fortuna, una lettura forse troppo canonicamente precoce, quella d’adolescente che già sogna a sua volta la fuga, dalla sua pseudo Charleville, che è poi la dimora famigliare, la scuola di stato o già i corsi universitari, e financo dal paese che non è solo il villaggio bensì la nazione. Perché già bambino trovava i suoi sensi, i suoi nervi, le sue carni solo nelle esplosioni di nebbia accompagnate dal dissolversi delle umane presenze, del loro rumore di fondo, e in quelle delle alte e ramaglie dei pini marittimi, l’estate sempre ritrovata nella linea d’orizzonte tra cielo e mare, eppure mai infinita. Può dunque capitare che quei tentativi d’approccio si concludano in maniera felice, e vale a dire con l’accantonare provvisoriamente quei libri, letture posticipate a un altro momento, a un incontro più riuscito, come quello col saggio che Henry Miller dedicò al poeta, e più ancora al poeta che non alle opere. E ancor più felice, l’incontro con la lingua madre del poeta bambino.

Così quel fortunato lettore può infine apprezzare la lingua del poeta, può cogliere il senso di quei versi e di quelle prose poetiche, lo “spiritualismo” (si dovrà per donare l’uso di questa parola imprecisa, e abusata e distorta) che uno dei due ultimi romantici – Baudelaire e Rimbaud, gli scrutatori degli abissi, dei recessi, gli unici uomini che si presero la briga di farlo, in mancanza di veri mistici, ancor più che di veri santi – anche a fronte di una Chiesa che – in quanto corpo di Gesù Cristo, e dunque unica vera alternativa alla diverse forme del denaro e del materialismo, sia esso quello dei capitalisti o quello dei socialisti – tra i secoli XVIII e XIX fu certo meno presente di quanto non lo era stata nel corso del più luminoso Medioevo.

rimbaud manoscritto
Il manoscritto di “Ma Bohème (fantaisie)” di Arthur Rimbaud: la poesia è presentata nella nuova traduzione di Marco Settimini

Rimbaud è il paradossale (in quanto alla base ribelle) testimone di un tempo in cui il Cristianesimo è, come scrive Pierre Drieu La Rochelle, “spaventosamente isolato ed esiliato […], tutto investito dalla disperante carenza della Chiesa” e l’uomo (un uomo ancora bambino) che sotto l’egida baudelairiana riconsegna lo spirito della letteratura cristiana nelle mani dei “santi” scrittori cattolici, e anche, per altre vie, sotto altre forme, in altre mani ancora, come nelle deflagrazioni di un Cendrars e ancor più di un Céline, e in particolare nella petite musique del secondo, perché, a ben guardare, negli aspri, grevi versi rimbaudiani di Mes petites aumoureuses ci sono già, in nuce, tanto la lingua quanto i toni di Morte a credito e Guignol’s band.

L’impulso primo è l’energia vitale d’adolescente che, insoddisfatto, parte alla ricerca della vraie vie. La fuga è duplice, fisica, topografica da un lato, e allo stesso tempo poetica, letteraria. E di entrambe dà conto Yves Bonnefoy, del quale si potrà estrapolare l’estrema sintesi.

La poesia: “Rimbaud è sollecitato, con l’aiuto di Orazio – ‘Tu vates eris…’ – a sognarsi poeta, e lo fa, ma non senza presentire, si direbbe, a quali disastrose tentazioni lo esporrà quel potere. Infatti, là dove Orazio diceva che il fanciullo scelto dagli dei riceve da una colomba ramoscelli d’alloro e di mirto, eccolo aggiungere tutte le Muse, che lo prendono nelle loro braccia come un neonato nella culla…”

La natura: con le primissime fughe, “sulla strada”, nella valle della Mosa, preso da fame e sete, ma anche dal piacere delle lunghe camminate tra l’erba e la nebbia, nelle quali le esperienze d’infanzia trovano una potentissima amplificazione, la sensazione si fa più forte, e il desiderio di fusione con la natura analogo a quello con una donna, eppure alla fin fine entrambe sono negate in un vero splendore.

La fame del giardino del mondo, origine del mondo, non verrà mai del tutto placata, rispetto a i sogni. E i suoi versi ne quindi sono scossi, attraversati da un senso di stupore quanto di inevitabile delusione. La quale diventerà un martellante refrain della letteratura moderna.

Questa rappresentazione giunge tuttavia alla sua più alta sintesi in quello che lo stesso Bonnefoy indica come uno dei principali “crocevia” della poetica rimbaudiana, ossia il riconoscimento, la celebrazione della natura in quanto “valore che la società degli uomini potrebbe e anzi dovrebbe far suo”, e l’oggettività della poesia nella pratica di quel dérèglement dei sensi che conduce il poeta alla voyance, alla “visione” più sconvolgente; due tendenze opposte e che allo stesso tempo si completano; che si incontrano e si risolvendosi in un che di vangoghiano.

L’impossibile è l’inesprimibile, che tenta di dire con parole che si stanno quasi per tramutare in puri gesti, pure sensazioni di fame e di sete, di musica e di silenzio, di luce e di buio. Fino a quel sonetto che, come scrive Bonnefoy, “rappresenta […] il più strepitoso e durevole fallimento in tutta la storia letteraria” a livello di critica testuale, e vale a dire Voyelles. Un sonetto nel quale il prisma dei colori e delle lettere altro non è che la scomposizione della luce della poesia in una magica sinestesia, quid che vale invero per tutta la sua poesia. Una scintilla.

“Questa scintillazione personalissima, questa trepidazione, questa ipnosi, questi innumerevoli rintocchi sono altrettante versioni, quelle plausibili, di un evento unico: il presente perpetuo, in forma di ruota come il sole, e come il volto umano, prima che la terra e il cielo traendolo a essi non lo di stendesse crudelmente”, scrive René Char. E in quella scintilla apocalittica di presente eterno, sta il paradosso, la frontiera estatica tra natura e Spirito, tra sregolamento e Cristianesimo, che costituisce la “mistica” di Rimbaud, autentica poesia in margine al Vangelo.

D’altronde, fino in fondo, vale il suo “Io è un altro”. La stessa vraie vie è infatti altrove, e “Io è altrove”. Non sarà forse proprio per questa ragione che il Cristianesimo sarà la fonte, dal più profondo, di tutte le “divagazioni spirituali” del poeta, come giustamente le definisce, non senza autoironia e autocritica?

Persino il suo pisciare “molto in alto, molto lontano” è un gesto poetico tanto irridente quanto sintomo di uno slancio quasi metafisico, perché nella natura Rimbaud si trasforma come l’Hölderlin di Iperione in ciò che vede, e ciò che vede, il Creato, non è il Divino ma è divino, è traccia del Dio di cui ha nostalgia.

L’uomo, è una cosa che sapeva da sempre, “appartiene al cielo, scruterà i cieli”, e il suo destino, nello specifico, è quello del “bambino abbandonato sul pontile partito verso l’alto mare, il piccolo valletto, che segue il viale il cui fronte tocca il cielo” di Enfance. “Io è un altro” sembra a volte imitazione di Cristo.

Il testimone è raccolto dai poeti già citati, Huysmans, Bloy, Claudel, Péguy, Bernanos, ma rieccheggia anche nelle pagine del Tropico del Capricorno di Miller, di Campana e di Delfini, come nei versi di un Pasolini (Una disperata vitalità: “Come in un film di Godard: solo / in una macchina che corre per le autostrade / del Neo-capitalismo latino – di ritorno dall’aeroporto – / […] / in un sole irriferibile in rime / non elegiache, perché celestiale / – il più bel sole dell’anno – / come in un film di Godard: / sotto quel sole che si svenava immobile / unico”) e nella pittura di fine Ottocento e della prima metà del Novecento.

René Char scrive che Rimbaud: “Nel poema Genio, si è descritto come in nessun altro poema. È dandoci congedo, in effetti, che conclude. Come Nietzsche, come Lautréamont, dopo averci chiesto tutto, ci chiede d’‘allontanarlo’ [le renvoyer]. Ultima ed essenziale esigenza. Lui che non si è soddisfatto di nulla, come potremmo soddisfarci di lui?” Come avervi una soddisfazione? Ora, le renvoyer significa sì allontanarlo, scacciarlo, spedirlo via ma anche fargli eco, farlo risuonare ancora e ancora. Una sola possibile, allora, per quel lettore un tempo insoddisfatto dalle versioni in lingua italiana, ossia traducendolo.

In metrica e rima. – “Plus de mots.” – Niente più parole. – Solo la musica.

Marco Settimini

*

Sensazione

Andrò per i miei sentieri nelle sere blu d’estate,
Pizzicato dal grano a calpestare l’erba delicata:
E sognando, le mie caviglie ne saranno rinfrescate.
Lascerò il vento bagnare la mia testa denudata.

Non penserò più a nulla, e mai più parlerò invano:
Ma l’anima mia si colmerà d’un amore sconfinato,
E come un vagabondo me ne andrò lontano, lontano,
Nella Natura, come con una fanciulla — appagato.

*

La mia bohème (Fantasia)

Con i pugni nelle tasche bucate camminavo;
Finanche il mio cappotto diventava ideale;
Vagavo sotto il cielo, e ti ero sempre leale;
Oh! là! là! Musa, che amori splendidi che sognavo!

Le mie uniche braghette, ormai da buttare.
— Sgranavo rime in corsa, Pollicino sognatore.
Il mio solo albergo era nell’Orsa Maggiore.
— Le mie stelle su nel cielo, che dolce sussurrare

E le ascoltavo seduto sul bordo della strada,
Le notti di settembre in cui sentivo la rugiada
Fresca sulla fronte come un vino di vigore;

E allora in mezzo a ombre fantastiche facevo
Rime, e come delle lire le stringhe tendevo
Delle mie scarpe ferite, a un piede dal cuore.

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