15 Febbraio 2019

“L’aerosol diventava la cabina d’un caccia a reazione”: cosa vuol dire essere figlio di un poeta. La mia vita con Pier Luigi Bacchini

Fu un padre affettuoso. I ricordi mi vengono così, a sprazzi, senza organicità. La porta chiusa. Fu un attimo prima arrivasse il fabbro, che alla fine aprii. Da solo. Da fuori, mi avevi guidato con la voce, calma. E quando quasi si rovesciò il pattino, con me, al largo, mi hai ripreso. Ti facevo bruciare la carta degli aranci fino al soffitto. Il riso, nel piatto, un fortino, da bombardare con la forchetta. L’aerosol diventava la cabina d’un caccia a reazione, con la mascherina. Di sera, la caccia grossa, nell’ombra del salotto, coi fucili di plastica. E quando la vipera mi è passata sul piede, mi avevi fatto mettere i gambali di cuoio, doppio, fregandotene dei parenti. Dove sono i miti greci, nelle passeggiate in campagna? Ma, a parte questo, hai voluto instillarmi l’amore per la poesia, un pomeriggio, quando hai trasformato d’improvviso la cucina (la cucina!) in una camera verde, con la tua voce, leggendomi d’Annunzio: non ti perdonerò mai, ti sono grato.

E quel film di Scola [La più bella serata della mia vita (1972), di Ettore Scola. Con A. Sordi. Musiche di Armando Trovajoli]. Con addosso tutti i tuoi colori mediterranei. Il bianco sporco, l’azzurro chiaro, il crema, il beige – i tuoi preferiti, divenuti poi, in vecchiaia, tutte le tonalità dei verdi delle colline. Ma ci è sempre sfuggito un dettaglio, in quel film con la Maserati in bilico sulle Alpi svizzere – non le avevano sabotato il freno… E se me ne sono accorto soltanto ieri, dopo averlo incontrato quasi per caso negli interstizi della rete, ti ho rivisto per un attimo nel colletto della camicia di Sordi; nella cravatta, nella giacca chiara, nell’auto aragosta coi sedili in cuoio e il volante di legno chiaro. Il mento sbarbato. I tuoi colori mediterranei. Gli anni Settanta. Il sole sul vetro.

*

Ma che vuol dire esser figlio di un poeta? Beh, Innanzitutto, accettare il fatto che avesse due lavori. Il che, naturalmente, significava meno tempo per me. Di quali lavori parlo? Uno al secolo, per così dire; ovvero, quello che gli ha permesso di vivere decorosamente e di formare una famiglia. Lavorava per una multinazionale farmaceutica, come informatore – da piccolo lo aiutavo a caricare e scaricare il baule della macchina di scatole zeppe di campioni di medicinali. Un lavoro ben remunerato, così si dice, ma lo impegnava molto, troppo, com’ebbe a dichiarare in seguito in diverse interviste, per un’indole contemplativa come la sua. Per tutta la vita si strappò dal sistema nervoso il tempo per scrivere, per leggere, per contemplare e riflettere (l’altro lavoro, per dirla con Conrad). Si lesse Proust nelle pause delle sale d’attesa, quasi freneticamente, prima di entrare dal medico con la valigetta; oppure scriveva in autostrada, dopo aver accostato in una piazzola, o in una stazione di servizio. In treno, anche, ma meno. Troppo penniano, diceva…

Ritagli di tempo, e di taccuini portati in tasca.

Non mi fece mai mancar niente, nella misura delle sue possibilità. Amò sua moglie, mia madre. Da sempre, la sua prima lettrice. Le poesie, se non piacevano a lei, erano subito cestinate.

Facevamo le ferie al mare, o in montagna. Ma soprattutto nella casa di campagna, a Medesano, che Attilio Bertolucci, venuto a trovarci, definì “villa in prima collina”. Lì, negli anni della sua lunga vita, papà ha composto il corpus della sua opera, che ha al centro, dicono, la sintesi tra la Natura e la Scienza, la Storia e l’Uomo: cose, queste, che lascio ai critici.

Quando Cesare Garboli venne da noi, un giorno di molti anni fa, insieme a Rosetta Loy, passeggiando nel parco, disse, davanti a un’aiuola: “qui siamo tra Giverny e Pascoli; ha personalità lei, Bacchini: come ha fatto a non esserne influenzato?”.

Ma mi sovvengono di nuovo le “incantevoli storie” – in questo ricordo forse disorganico, emotivo – e le fiabe, che mi raccontavi. Nordiche o mediterranee. Ecco, me le facevi vivere; così che io vedevo passare Meleagro col cinghiale, o precipitare Icaro fra le canne. O litigare il grande Klaus e il piccolo Klaus. Oppure, con la mamma che mi leggeva nel dopocena – se non si guardava un film – Le avventure di Pinocchio, ascoltavi.

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Scriveva con meticolosità. Con abnegazione. Con grande autocritica. Ne esistono le prove archivistiche. Dopo la laurea, nei primi anni Duemila, ho riordinato, al seguito di Marzio Dall’Acqua, noto studioso allora direttore dell’Archivio di Stato di Parma, la donazione che papà fece all’Archivio. Ne ho stilato l’inventario. Lì, sono conservate carte che parlano chiaro riguardo al rigore del suo modo di comporre: ci sono, tra le altre cose, numerosi fascicoletti di tre o più fogli ciascuno, tenuti insieme da una graffa. Faccio un esempio: il primo foglio è scritto a mano, generalmente, e contiene una prima stesura di un testo poetico; il foglio porta la scritta seguente: “Data. Da riaprire in data”. La seconda data del secondo foglio è esattamente di un anno dopo, precisa persino nel giorno. Il che significa che dalla prima alla seconda stesura faceva passare un intero anno. Il secondo foglio, scritto a macchina, che presenta varianti alla prima stesura, ha anch’esso, in calce, lo stesso monito di riprendere in mano il testo ancora un anno dopo. In totale tre stesure per tre anni (le varianti vanno spesso nel senso di una progressiva asciugatura del verso). Questo in nome di Orazio, che diceva di far passare molto tempo, per avere una giusta distanza autocritica.

Cosa mi ha lasciato, oltre a quella che si dice una buona educazione, condotta secondo le sue disponibilità, economiche e di tempo? Il gusto per la letteratura, certo, come dissi, ma anche per l’arte: ne ho fatto due professioni: di docente; di critico. Ho apprezzato l’arte cominciando da Manet e da Boccioni, con riproduzioni che lui prendeva a mani larghe dagli scaffali della libreria di casa. Mi diceva non più di due cose, spesso lapidarie, per ogni quadro. Non faceva lezione. Mai. Davanti alla Città che sale di Boccioni, ad esempio, mi disse: “Non ha dipinto un cavallo, ma la forza di un cavallo”. Stop. Mi bastò. Educato l’occhio, con i libri giusti, avevo gli strumenti, in seguito, per studiare da solo. Ma l’imprinting, in queste conversazioni quasi casuali, en passant, era stato dato. In tenera età. E la Poesia? Questa condanna, questa sublime dannazione… così anti borghese, per me, che borghese sono tantissimo (e ne sono orgoglioso, del resto). Bastò, anche qui, poco. Un pomeriggio qualunque, un martedì bigio di febbraio, avevo 8 anni, mi lesse Jaufré Rudel, da Rime e ritmi, di Carducci. Contessa, che è mai la vita? E fu un corridoio di spiagge, mare, luce, lacrime. Lungo gli anni, mi fece piangere con i versi di Pascoli, mi esaltò con Omero; e poi i Lirici greci nella traduzione immortale di Quasimodo; vennero anche Catullo, Dante, Lorenzo il Magnifico, Shakespeare, Goethe, Benn, Montale, Ungaretti, Quasimodo, Pound, Eliot, Edward Thomas, Auden, la Dickinson, Cardarelli e innumerevoli altri… Me li leggeva all’improvviso, come si dà un bacio. Mi lesse passi di Hemingway, Dostoevskij. In famiglia, del resto, si citavano a memoria Tolstoj, Wilde, Baudelaire, Jerome K. Jerome… Con mamma, invece, leggevamo I Promessi sposi, una seconda bibbia di casa, e i romanzi di Woodehouse – quelli con Jeeves, s’intende – che ci occupavano intere serate. Mi porse, insomma, le letture giuste, all’età giusta. Mi insegnò la prudenza. A difendermi dall’uomo. Mi trasmise la lealtà, il rispetto, la fatica, il metodo di studio, il coraggio. Non so se ho messo in pratica tutto o in quale misura, ma so che lui ci ha provato. Alacremente, e senza pesantezze. Mi diceva, con aria sognante, di appartenere a un altro mondo, e indicava il cielo (una sorta di Duke Fleed, per intenderci). Intendeva il mondo della poesia, ma lo capii più tardi.

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I forti riconoscimenti e le piene storicizzazioni, per lui, arrivarono dopo, tutte insieme: nel ventennio che va dal 1993, l’anno in cui pubblicò per Garzanti e vinse il Premio Viareggio, al 2013 e oltre, dopo la sua morte, avvenuta a quasi 87 anni. Riconoscimenti tardivi forse, ma furono più che sufficienti a non fargli sentir gettata via la vita. Dovette lottare silenziosamente per lunghi anni, prima del ’93, nell’ambiente culturale non sempre amico dei letterati della sua città: è tutto scritto, del resto; Alberto Bertoni, che ha curato l’opera negli Oscar di Mondadori [P.L. B. Poesie 1954-2013, Milano, Mondadori, Collana Oscar Poesia 2013, a cura di A. Bertoni], lo spiega chiaramente, senza mezzi termini. Ha conosciuto uomini di lettere che hanno avuto stima della sua poesia in tempi non sospetti, quando la carriera non era ancora veramente decollata. Flora, Quasimodo, in giovinezza. Barberi Squarotti. I suoi versi convinsero Garboli, il quale andava pubblicando suoi lavori con costanza su “Paragone” negli anni 80 e 90. Ebbe amici veri, come Giorgio Cusatelli, come Vincenzo Pardini. Con Pardini faceva lunghe telefonate, che lo confortavano. Pardini aveva la proprietà di far tornare a sorridere mio padre. Andava di là, al telefono, e tornava rasserenato. Un’amicizia vera, leale, disinteressata. Non si sono mai visti. Incredibile, a dirsi. Qualcuno, forse, dovrebbe scriverne. Conobbe, tra gli altri, anche Giacomo Devoto; strinse con Betocchi; poi, in un certo periodo, con Giudici; conobbe Luzi. Frequentò a lungo Bertolucci. Nell’ambiente artistico, conobbe il critico di “Repubblica” Roberto Tassi, dalla prosa sopraffina, e due grandi pittori: Carlo Mattioli, che ritrasse sua madre, mia nonna, e, negli ultimi anni, Gastone Biggi. Tra i critici letterari e gli studiosi – oltre a Cusatelli (alla morte del quale lo vidi piangere per la prima volta: poi andò di là, stette via cinque minuti soltanto, per tornarsene con una poesia in morte) – fu affezionato personalmente a Paolo Briganti e a Daniela Marcheschi, che hanno contribuito e contribuiscono tuttora in modo determinante all’edificio critico edificato attorno alla sua opera. L’editore che lo lanciò veramente fu Garzanti, quello che lo coltivò indefesso, Mondadori. Per quanto riguarda il romanzo [P. L. B. L’ultima passeggiata nel parco, Parma, Monte Università Parma Editore 2003], l’unico da lui scritto e che lo impegnò tantissimo negli anni (un lavoro tormentato, fatto di riscritture e ripensamenti frequentissimi), rifiutato peraltro più volte e da molti editori blasonati, trovò un estimatore nello scrittore parmigiano Guido Conti, che allora dirigeva una piccola casa editrice parmigiana, ma di qualità, e che lo pubblicò in una collana di scrittori parmensi del Novecento, che vanno da Guareschi a Zavattini, da Bevilacqua a Malerba. Fu parco di prose critiche, di solito affidate alle belle pagine culturali della “Gazzetta di Parma”, sotto forma di recensione. Ma anche per “Nuovi Argomenti” o “Paragone”, sotto forma di saggio. Ne scrisse per Pardini, per Garboli, che in un biglietto (conservato all’Archivio di Stato di Parma) lo definisce “Grande ritrattista”; per Bertolucci, per Cucchi, per Riccardi, per Davide Barilli. Per Mattioli. Pochi pezzi, insomma, preziosi, forse, anche per questo. Scrisse anche tre fiabe, di cui una autobiografica, dai risvolti psicologici tormentati, rappresentata da Lenz teatro nel 2005 e pubblicata l’anno dopo. Ma ciò che mi è più caro, è una filastrocca che scrisse per me, in un Natale perduto.

Un giorno, sei entrato nella mia stanza, come un mattino dai vetri spalancati. Non sapevo che di là, nella tua, era già sera.

Camillo Bacchini

*Il ricordo di Camillo Bacchini si pubblica per gentile concessione delle Edizioni Ares. Nella sua forma originale, l’articolo, con una poesia di Pier Luigi Bacchini è pubblico nell’ultimo numero di “Studi Cattolici”, Febbraio 2019, n.696

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