13 Novembre 2018

“La verità? Ero maturo per un libro di successo, e mi sono messo a scrivere come se componessi le Variazioni Goldberg”: il mitico Cochi porta a teatro il “Magellano” di Gianluca Barbera. Dialogo in tazza sull’Atlantico

C’è qualcosa di famelico e di simbolico. Voglio dire, la vicenda di Magellano è speculare a quella dello scrittore: sfidare l’ignoto, essere in grado di relazionarsi con i re e con i mozzi, con aristocratici e barbari, vedere oltre l’hic sunt leones, sfidare i limiti. La stessa traiettoria del veliero sul crudo oceano è una scrittura, scia verbale incisa sul corpo mobile delle acque – consapevoli che tutto si può vincere, che la vittoria è il morire. Mi piglio il merito – facile, per altro – di essere stato tra i primi ad aver capito che Magellano (Castelvecchi, 2018) è un libro che è una anomalia nel territorio letterario italico, affiliato alla sociologia e affratellato al tedio. Lì Gianluca Barbera fonda le moine del ‘genere’ – diciamo: romanzo storico, che è poi quello su cui si fonda la letteratura italiana, manzoniana – a una scrittura – nella finzione il narratore è Juan Sebastián del Cano – potente, immaginifica, con muscolo morale. Insomma, il libro ha avuto il successo che sappiamo e che ho, in parte, seguito. La maturità di Gianluca Barbera, semmai, mi è apparsa cristallina leggendo – ho anche queste fortune – il suo prossimo romanzo, dedicato a Marco Polo. Lì il viaggio, che pure c’è – reale in Magellano, narrato nel Marco Polo – ha una natura scenica diversa e dunque una scrittura diversa. Se la scrittura di Magellano mima, in parte, il tango secentesco, ha tinte shakespeariane, nel Marco Polo la narrazione è briosa, brillante, in fuga; se il primo libro è fuoco che corruga l’elsa della spada, l’altro è acqua, una fonte di diletto. La stringo. Che Magellano faccia incetta di premi mi cale poco: più interessante, piuttosto, che nel 1519 sono i 500 anni dalla prima circumnavigazione del globo, ragione per cui Barbera andrà in Portogallo – la patria di Ferdinando – a promuovere il libro e la sua traduzione in quei mondi lì. Soprattutto, Magellano, a conferma della sua bontà narrativa, è diventato uno spettacolo teatrale, con trio di musicisti – Luca Garlaschelli, Giuseppe Milici, Roberto Gervasi – produttore doc – Reggio Iniziative Culturali: che promuove, tra gli altri, spettacoli di Monica Guerritore, Elio, Fabio Testi, Peppe Servillo, Barbara De Rossi – e la presenza ‘magellanica’ di Cochi Ponzoni, il grande attore – mitico il duo con Pozzetto e l’amicizia con Jannacci e Gaber. Il testo, va da sé, è stato furiosamente adattato da Barbera, per cui la scrittura, probabilmente, è un Atlantico nella tazza del tè. (d.b.)

magellanoMagellano diventa un testo teatrale: come hai lavorato, cosa hai tagliato? Non è facile ridurre un testo pienamente letterario in ‘oggetto’ da pronunciare…

Ho iniziato tagliando pesantemente. Ma ben presto mi sono accorto che andava riscritto. L’ho molto semplificato, anche linguisticamente, in modo da renderlo ancora più evocativo. Ho proceduto immaginando di recitare ciò che scrivevo e poi leggendo a voce alta quanto avevo scritto. Alla fine ho tirato fuori un testo di dieci pagine, per uno spettacolo che durerà un’ora e un quarto. Credo di avere una certa predisposizione per copioni e sceneggiature. Se mi arrivassero proposte in tal senso non mi tirerei indietro. Il prossimo anno sarà il cinquecentenario della spedizione di Magellano: una fiction cadrebbe a fagiolo. Ma ormai temo sia tardi.

Perché il mitico Cochi? È amico tuo? Come è nato il contatto, il rapporto?

L’idea di coinvolgere Cochi è stata di Luca Garlaschelli, che sta scrivendo le musiche di accompagnamento al testo; o meglio la colonna sonora. Testo e musiche devono duettare. Luca è un musicista di formazione jazz. Ha lavorato con artisti di rilievo, l’ultimo dei quali è Moni Ovadia. L’idea stessa di portare Magellano in teatro è sua. Ci siamo conosciuti a Piacenza, nell’ambito della manifestazione “Musiche e giardini”. È stato un colpo di fulmine artistico. A breve inizieremo le prove. Lo spettacolo è prodotto e distribuito da Iniziative Culturali di Reggio Emilia, società che rappresenta artisti di primissimo piano.

Insomma, te lo chiedo ogni volta: spiegaci come si fa partendo da un onesto editore di medio livello, Castelvecchi, a diventare il romanzo storico più venduto dell’annata editoriale? Ho sentito, per altro, che comincia a essere tradotto in altre lingue…

Avrei voglia di cavarmela dicendo: tutta fortuna. Ne guadagnerei in simpatia. Noto che oggi va molto di moda l’umiltà (che spesso non è altro che ipocrisia). Ma la verità è che ero maturo, come scrittore, per un libro di successo. E così l’ho progettato ed eseguito dando fondo a tutto me stesso, così come ci si prepara, attraverso il duro lavoro, a eseguire in pubblico una impervia partitura musicale; che so: le Variazioni Goldberg. Parte del merito va anche all’editore, Castelvecchi. Il romanzo ha ottenuto diversi riconoscimenti e premi. Non starò a elencarli. Altri sono in arrivo. A dicembre parte un tour per festeggiare il cinquecentenario magellanico. A marzo sarò a Lisbona, ospite dell’istituto Italiano di Cultura per presentarlo ai lettori portoghesi, in attesa che venga tradotto in quella lingua. Sono pervenute diverse proposte in casa editrice, le stiamo vagliando.

Spiamo il futuro. Hai finito di scrivere Marco Polo? Che libro sarà? Questa volta lo porti direttamente al cinema?

Ho finito “Marco Polo”. Sto lavorando alle rifiniture. Non esito a dire che è il miglior libro che ho scritto. Un libro nel quale la mia lingua raggiunge la sua piena maturità. Se “La truffa come una delle belle arti” era un romanzo storico-picaresco e “Magellano” un romanzo tra storico e d’avventura, “Marco Polo” è un’opera trasognata, quasi di genere fantastico. Scritta in una lingua lieve, scattante, esatta. Oltre a “Il Milione” le mie fonti sono state libri che nulla o poco avevano a che fare con Marco Polo. Volevo che fosse un libro pieno di meraviglie, stupore, mistero. Più simile alle “Mille e una notte” che al “Milione”. Voglio citare un passo che rappresenta il cuore del libro. È Marco Polo che parla, tirando un bilancio della propria esistenza: “Sono giunto talora a dubitare perfino di me, della mia identità; e parecchie notti ho sognato di non essere me stesso, Marco, di averlo incontrato su una pista carovaniera e di essergli stato accanto così a lungo da finire per credermi lui, dopo la sua morte per mano dei predoni. E di prenderne il posto, per tenerlo in vita, e con lui la sua storia, che mai potrà essere dimenticata. Ma chi può dire cosa è vero e cosa è falso. Io meno di tutti; perché ciò che importa è la storia: e quella deve durare in eterno”.

Solita stoccata polemica. Ma a che livello è, oggi, la letteratura e l’editoria italiana? Non cominciare a fare il politicamente corretto solo perché hai successo e vinci premi a manbassa.

Ma chi se ne frega del politicamente corretto. È una dimensione del pensiero che in arte non dovrebbe avere cittadinanza. Nessun vero scrittore può essere politicamente corretto. Chi pensa e scrive secondo quei dettami sacrifica la verità a una presunta divinità morale, abbandonando il campo della verità ai professionisti del politicamente scorretto. Questo è molto spiacevole. Una sorta di abdicazione. Possibile che per dire la verità (ovviamente la propria verità) si debba essere politicamente scorretti o definiti tali? Mi rifiuto di cadere in questa trappola. Le forzature linguistiche dell’epoca in cui viviamo sono atroci. Mi chiedi della letteratura italiana e dell’editoria odierne? Mi verrebbe da risponderti che non so che dire. Mi pare tutto in linea con quanto accade negli altri ambiti. Così va il mondo. Uno vale uno. Abbasso le competenze. Siamo tutti un po’ filosofi. E avanti di questo passo. Eppure, in mezzo a questo marasma, a questo apparente declino, ogni tanto spuntano ancora fiori prodigiosi. Non temo per il futuro. E non mi sento tradito dalla contemporaneità. Ci vuole maturità per accettare il presente.

Gruppo MAGOG