05 Dicembre 2017

La vera Rivoluzione è lei: Monica Guerritore fa rivivere le poesie di Pasternak, Achmatova, Majakovskij

Cosa è stata la Rivoluzione russa lo dicono i poeti. Questo è Boris Pasternak, dalla distanza siderale di qualche decennio dopo, nello scritto autobiografico Uomini e posizioni. “In quella famosa estate del 1917, nell’intervallo tra due scadenze rivoluzionarie, sembrava che insieme alle persone facessero assemblee e comizi anche le strade, gli alberi e le stelle. L’aria da un capo all’altro era preda di un’ispirazione ardente lunga migliaia di verste e sembrava una persona dotata di nome, sembrava un essere animato e chiaroveggente”. Più di altri, più di tutti, i poeti, da Aleksandr Puskin a Fëdor Tjutcev a Vladimir Majakovskij, il Frank Sinatra dei Soviet, the Voice, hanno creduto nella ‘rivoluzione’. O meglio, nella forza rivoluzionaria del verbo poetico, dentro cui coabitano tibie e stelle. Poi. I poeti sono stati sarchiati, maciullati, martirizzati dall’esito politico della Rivoluzione.

pasternak
Lui è il grande Boris Pasternak (1890-1960)

Questo è ancora Pasternak, il più grande poeta di una generazione di poeti grandissimi, che solo numerarli fa tremare di meraviglia (Anna Achmatova, Marina Cvetaeva, Osip Mandel’stam, Sergej Esenin, Aleksandr Blok, Velemir Chlebnikov…), nel 1920, quando ormai l’utopia rivoluzionare è rottame e frattaglie liriche: “Il potere dei Soviet si è gradualmente trasformato in una specie di sudicio ospizio ateo. Pensioni, razioni, sussidi… tengono la gente a digiuno e la obbligano a professare la propria miscredenza – pregando per la propria salvezza dai pidocchi – a togliersi il berretto al canto dell’Internazionale ecc. Ritratti dei membri del Comitato Esecutivo Centrale di Tutte le Russie, corrieri, giorni feriali e giorni festivi… Tutto qui è morto, morto, e bisogna andarsene via al più presto”. Eppure. Eppure c’è stato un istante, tra gli anni Dieci e il ’17, in cui una compagine di poeti, di compagni e di amici, scompaginò la letteratura occidentale. Erano tanti. Erano sodali nella loro insindacabile e insidiosa diversità. Pensavano che si potesse vivere di poesia. Finirono, ciascuno, per redigere l’epitaffio dell’altro (sul corpo di Majakovskij, che aveva scritto una bellissima poesia In morte di Esenin, scrissero versi indimenticati Achmatova, Cvetaeva, Pasternak). Poesia, però, anche quando intima, ‘da camera’, fatta per essere ‘suonata’, detta nei bar, contraddetta nelle strade, strimpellata nei circoli. Un carisma ‘sonoro’ e ‘pubblico’ che la poesia, oggi, nel deliquio dell’indifferenza, pare aver smarrito. Per capire che significa, andate su YouTube, cliccate “Carmelo Bene Pasternak” oppure “Carmelo Bene Majakovskij” e andate in delirio teatrale. Parola che va detta, annuncio in alternativa alla Storia, quella dei poeti; quella dei russi, poi, parola civica decuplicata dal momento che la Storia rodeva i loro apollinei calcagni. Giovedì prossimo, presso la fiera Più Libri Più Liberi di Roma, i poeti russi riprenderanno voce. Sarà Monica Guerritore, tra le grandi attrici italiane di sempre, da oggi in scena proprio a Roma, al Quirino, fino al 17 dicembre, insieme a Francesca Reggiani, con Mariti e mogli (testo di Woody Allen adattato e diretto dalla Guerritore), a interpretare un florilegio di poesie tratte dall’antologia 1917. I poeti che fecero la rivoluzione (Interno4 Edizioni, 2017). La Guerritore non è nuova alla poesia: da tempo è interprete delle poesie cantate di Alda Merini, per un progetto scenico costruito insieme a Giovanni Nuti. L’appuntamento è giovedì 7 dicembre, ore 15, Sala Sirio del Roma Convention Center. Per entrare nel ‘ritmo’, un paio di poesie.

 

Boris Pasternak

 

Amata, che raccapriccio!

 

Amata, che raccapriccio! Quando ama un poeta

è un Dio smanioso che si innamora.

E il caos di nuovo sbuca alla luce

come nei tempi dei fossili.

 

Tonnellate di nebbie fan lacrimare i suoi occhi.

Egli è offuscato. Ha l’aria d’un mammut.

Egli è fuori di moda. Sa che ciò non è lecito :

i tempi son trascorsi, e in maniera insipiente.

 

Egli vede che attorno festeggiano sponsali,

spingono al bere, si disubriacano nel sonno.

E, acconciandole, chiamano caviale

queste volgari uova di ranocchia.

 

Che sanno chiudere in una tabaccheria

la vita come un perlaceo scherzo di Watteau.

E si vendicano di lui forse soltanto

perché dove gli altri torcono e storpiano,

 

dove l’agio mentisce e incensa ghignando,

dove armeggiano e strisciano da fannulloni,

egli alzerà dal suolo per usarla

vostra sorella come baccante di un’anfora.

 

E verserà in un bacio il disgelo delle Ande

e l’alba della steppa sotto il dominio

di stelle polverose, quando la notte al villaggio

picchia con un biancheggiante belato.

 

E con tutto ciò che respirano i burroni nei secoli,

con tutto il buio della sagrestia botanica

soffierà sulla tifica angoscia del materasso,

spruzzando il caos delle boscaglie.

1917

 

 

Anna Achmatova

 

Non sappiamo separarci,

vagabondiamo sempre uniti,

inizia già a imbrunire

tu sei pensoso, io taccio.

 

Entriamo in chiesa, vediamo

esequie, battesimi, nozze,

usciamo senza guardarci…

perché per noi non è così?

 

O sediamo sulla neve sfatta

del cimitero, sospiriamo appena,

e col bastone tu tracci sale

dove per sempre staremo insieme.

1917

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