13 Aprile 2018

“La poesia non ha sostegni né fedi, è un’illuminazione, è spaventosa”. Dialogo con Mercedes Álvarez, super talento della poesia latinoamericana di oggi

C’è una cosa da dire. Anzi, due. E poi bisogna specificarne una terza. La prima è che il mio ‘pusher’ di poesia, in Argentina, è Jorge Fondebrider, uno che i lettori di Pangea conoscono bene. Sapendo la mia ansia da ‘cacciatore di poeti’ – purché siano trofei veri, giaguari lirici, mica fake poet – Jorge mi fa, “un poeta magnifico è Mercedes Álvarez, è fuori dal comune per la serietà e la profondità di quello che scrive”. Gli credo sulla parola. Però incrocio qualche dato. Sfoglio Buenos Aires Poetry. Ci sono alcune poesie di Mercedes. Mi colpiscono per la nitidezza formale. Sembrano tormenti di marmo, stalattiti di luce. Una nota narra qualcosa di Mercedes. Classe 1979, vive a Mar del Plata, sull’Atlantico. La città è chiamata la feliz, la felice, ed è gemellata con un mucchio di città italiane, tra cui Agrigento, Acireale, Bari, Sorrento. Mercedes ha studiato in Spagna, è stata in Inghilterra, è un po’ eccentrica nel ‘panorama della poesia argentina contemporanea’, e questo mi piace. Mercedes, a dire degli esperti, è tra i talenti della ‘nuova’ poesia latinoamericana – posto che la poesia è un assurdo assoluto, che rimbambisce le cronologie. Seconda cosa. Il viso di Mercedes Álvarez. Spigoloso. Fa male solo a vederlo. Dice di disciplina e determinazione. La contatto. Lei risponde, dall’altro lato dell’oceano. Rapidissima. Tra apolidi si parla in inglese. La terza cosa è che Mercedes Álvarez è una tosta. Sta lavorando a un libro che in italiano suona ‘Del deterioramento’, è una che è stata segnata leggendo Lucrezio, che non ha paura di dire che “penso molto alla morte” e sa che la poesia ci fa capire “qualcosa sulla vita, sulla morte”. In un cortocircuito che mi schiavizza dall’Argentina alla Russia, nell’altro tempo, ricordo Boris Pasternak al telefono con Iosif Stalin. “Vorrei incontrarmi con voi”, dice il poeta. “Per parlare di che cosa?”, tuona il tiranno. “Della vita e della morte”. Il poeta non sa parlare di altro. Gli altri parlano di tutto il resto.

Quando è nata la poesia in te, la certezza di essere un poeta? Chi sono stati i tuoi maestri?

Ho iniziato a scrivere racconti all’età di diciassette anni, proseguendo poi nel tempo. Non ho mai pensato di poter essere in grado di comporre poesia, fin quando non ebbi un blocco mentale. Dai diciassette ai trent’anni, ho scritto racconti e racconti e un breve romanzo. Ad un certo punto, non ne fui più in grado. Non mi piaceva più ciò che scrivevo. Smisi per un lungo tempo. All’improvviso però… pum… apparve la poesia. Mi piaceva leggere poesie, soprattutto quelle di Fernando Pessoa, che immagino conoscerai. Solo dopo la lettura De rerum natura di Lucrezio, cominciai però, a sentire la necessità di scrivere poemi. Grazie a quell’opera, ho imparato la differenza tra poesia e filosofia. Devo tutto alla poesia. Mi ha resa più intelligente, se così si può dire.

Quali sono i temi dominanti della tua ricerca poetica? Ti senti in sintonia con la poesia argentina contemporanea o la tua è una ricerca autonoma e autosufficiente?

Non mi sento particolarmente in sintonia con la poesia argentina contemporanea. Ho un amico, Nicolás Pinkus, un eccezionale poeta di Buenos Aires che, proprio l’altro giorno, mi accennò qualcosa riguardo Chantal Maillard. Mi ha detto: ‘Lei può toccarti nel profondo, ma lo fa attraverso la ragione, non l’emozione’. Questa è esattamente l’operazione che intendo fare. La mia poesia è tanto passionale, quanto impassibile.

Ho letto che hai studiato in Spagna e in Inghilterra. Che tipo di relazione hai con la poesia europea? Hai mai letto la poesia italiana? Ti piace?

Vero. In Inghilterra mi sono concentrata sull’apprendimento della lingua; non riuscivo a capire nemmeno una parola e avevo vent’anni. Mi ci volle un po’ di tempo. Mi piacciono molto poeti spagnoli. I giovani, come Erika Martinez, Carlos Pardo, Elena Medel… e quelli più anziani, come Jaime Siles, per esempio, o altri, già morti. Don de la ebriedad, il primo libro di Claudio Rodríguez è ricco di poesie straordinarie. Tendo sempre a leggere nella mia lingua, non sono molto brava nelle altre. Mi piace molto José Watanabe, per esempio. Quanto alla poesia italiana invece, ho letto poeti tradotti in spagnolo come Montale, Ungaretti, Pavese. I classici, in sostanza.

Ho letto alcune delle tue poesie pubblicate sul ‘Buenos Aires Poetry’. Il tuo linguaggio mi sembra lucido e livido. Un linguaggio ‘anatomico’ e spietato. Magari mi sbaglio. In base a cosa scegli le parole quando scrivi?

Dal momento che ho cominciato a scrivere poesia quando avevo più di trent’anni sono arrivata ai versi con una differente maturità. È rigorosamente vietato svelare il segreto del poema, questo è quello che la poesia afferma. Ma mi ci è voluto un po’ per capire come funziona una poesia. Riformulavo le frasi e le parole. Le cancellavo e spostavo continuamente. Ho scritto centinaia di orribili poesie. Quanto alle parole, sono fortunata: semplicemente mi vengono in mente. Ieri guardavo il video di un’intervista a Marguerite Yourcenar, dove lei cita una frase tratta da un libro tantrico del Kashmir: “È utile, quando scrivi, pensare a te stesso come privo di supporto”. Tendiamo sempre a pensare di essere sorretti da molte cose. Non è così. Niente ci stabilizza. Tutto è libero di muoversi. Dobbiamo continuamente ristabilire la fermezza. Questo è ciò che provo quando scrivo poesie. La poesia è la sospensione di credenze e sostegni. La verità appare improvvisamente. È spaventoso, a volte.

Che rapporto hai con la notorietà, con la ‘fama’, con chi ti legge?

Non saprei. D’altronde, ho pubblicato solo due libri. Per dire, per me va bene scrivere poesie su facebook. È giusto toccare le anime e le menti delle persone attraverso ogni piattaforma. La poesia è come musica. Ha questa capacità di trasformare, almeno per un attimo, la nostra visione della cosa, proiettando una luce diversa sulla realtà. È come un’illuminazione.

E ora? A quale progetto poetico stai lavorando? Che cosa stai studiando?

Ho questo libro, inedito, chiamato Del deterioro. Mi piace osservare il lavoro del Tempo sui corpi e le menti delle persone, ma anche sulle cose, le case, il pianeta. Sto riscrivendo le pagine di questo libro in continuazione. Penso molto alla morte. Cosa significa stare qui, quando sappiamo che la vita non ha significato? Beh, forse è per questo che leggiamo e scriviamo poesie. Ci aiuta a capire qualcosa sulla vita, sulla morte.

*

Dormivi
sul lato sinistro del letto cercando
di accordare il tuo cuore e il peso morto
del tuo corpo sul materasso.
Dormivi tendendo muscolo e palpebra
labbro e voce
e una mano socchiusa sul cuscino:
unica concessione all’abbandono.
Ti guardavo
come ti ho guardato sempre sin dal primo giorno
labbro su labbro, occhio su occhio,
chi eri in realtà?
chi ero io, che guardavo?
Nessuna anima può
esaurire il momento presente
nessuno specchio cancella
la sorgente imperitura di un’altra immagine.
La tua mano ha smesso di rispondere,
come quando la tazza scivola dalla mano
e rovescia il caffè?
Non ti preoccupare per questo.
La muffa si deposita sul pane
l’umidità spiega
la sua traccia sul muro.
Non ti preoccupare per questo.

*

Sei restato fermo
e hai letto quel racconto di James Salter
molte volte di notte
cercando di decifrare
qualcosa sulla tua vita.
Era lì
la volontà di disfare tutto
ripetuta giorni e giorni
pretesa libertà di spirito che rimbomba
nel tuo inconscio
era vero?
E la frase
rimbomba nella tua mente
pallina da tennis che colpisce dolcemente le pareti:
“Non sapevo che la felicità
era possedere la stessa cosa
tutto il tempo”.

*

Una donna dedica
a un uccello una poesia d’amore
e suo marito segue la traccia
l’uccello
o io
dalla bruma del lamento nasce la burla
ma l’uccello
non si arrende.

Mercedes Álvarez

 

(il servizio è di Davide Brullo, le poesie sono state tradotte dalla professoressa Mercedes Ariza, l’intervista è tradotta da Matilde Casagrande)

 

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