11 Novembre 2018

“La musica è spietata, ma quando suono Mozart o Chopin è come se fossi in dialogo con un fratello maggiore”: Francesco Consiglio intervista Andrea Padova, pianista di fama internazionale

Intervistare un musicista classico è come rifugiarsi in un giardino segreto dello spirito, silenzioso, quieto, lontano dai rumori e dalla folla, dagli insulti e dalle liti politiche, lontano dai demoni della contemporaneità. Oggi più che mai, la musica colta vive in una dimensione elitaria che la fa essere slegata dalle questioni politico-sociali del nostro tempo. Ciò potrebbe apparire un limite, e invece credo sia la ragione del perpetuarsi di un primato culturale e morale. A un esecutore di musica immortale non si chiede di cambiare il mondo, e questo, paradossalmente, rende il suo lavoro un dono politico universale, poiché inculca nell’ascoltatore il desiderio di emanciparsi dal brutto e non da un’ideologia di parte.

Andrea Padova è una delle figure più interessanti del panorama pianistico contemporaneo. Ha tenuto concerti in tutto il mondo, suonando in sale e istituzioni come il Teatro alla Scala di Milano, l’Accademia di S. Cecilia a Roma, la Carnegie Hall di New York, l’Opera City Concert Hall a Tokyo, il Gasteig di Monaco di Baviera, il Granada Festival. Il Washington Post lo ha definito “un artista che trasforma il suono in poesia. Il suo virtuosismo, gestito con sensibilità, risuona attraverso ogni misura”.

Nell’Italia contemporanea, dove il pubblico dell’arte è costituito per lo più dagli Uomini-Divano, esseri mutanti che trascorrono la loro vita davanti alla tv, è opinione diffusa che la musica colta sia difficile, complessa, poco commerciale e persino noiosa. Eppure, a dispetto dell’idea che i grandi compositori non possano essere apprezzati dalle masse, assistiamo all’uso indiscriminato di musica classica negli spot televisivi commerciali. Il Rondò alla turca di Mozart è stato usato per la pubblicità di una carta igienica, la Romanza n.2 per violino di Beethoven ha indotto molti telespettatori a bere un brandy, il Mattino di Grieg è servito per vendere un olio da tavola. Gli esempi sono così tanti che il compositore e musicologo Luigi Maiello ha scritto, indignatissimo, sul Fatto Quotidiano: “Per quale ragione è consentito usare liberamente Wagner, Verdi o Stravinskij per pubblicizzare dei pannolini, una pomata per le verruche, piuttosto che uno shampoo antiforfora? […] Quando una banca storpia e sfigura Va’ pensiero per promuoversi, assistiamo ad una violenza, ad uno sfregio osceno”.

La domanda è stimolante e le risponderò in modo apparentemente provocatorio, dando completamente torto all’opinione dei più. La musica colta non è poco commerciale, ma il suo successo si misura su un arco di tempo lunghissimo. Non è noiosa, infatti i giovani che in grande numero e al di là di ogni ipotetico interesse professionale decidono di studiare uno strumento musicale si confrontano, nel processo di apprendimento, principalmente con la musica colta e non con altri generi. È però complessa, come lo è, per intenderci la Divina Commedia di Dante e, in altro modo, il teatro di Shakespeare. Pensi al numero esorbitante di volumi venduti dalla genesi di questi capolavori a oggi e all’interesse appassionato di tanti! Esistono anche dei canali televisivi dedicati esclusivamente alla musica classica. Se però ci riferiamo alle tv commerciali, comprendendo, ahimè, anche la Rai che poco si differenzia dalle sue concorrenti, tutto viene massificato e portato al livello minimo di qualità in nome dei grandi numeri, della facilità e delle mode, creando realtà alternative tra le quali un orrido uso della lingua che purtroppo emigra anche nel mondo del giornalismo, come l’uso del ‘piuttosto che’ con valore disgiuntivo anziché avversativo, al quale Luigi Maiello non si sottrae. A me non pare uno sfregio meno osceno della Romanza beethoveniana come sottofondo alla pubblicità del Brandy.

Molti adolescenti non sanno chi è Schubert e conoscono per sentito dire il nome di Mozart. Eppure trascorrono la maggior parte del loro tempo con le cuffie alle orecchie, ascoltando prevalentemente i vari sottogeneri dell’hip hop, come il rap e la trap, i cui artisti sono stati in grado di creare una propria narrazione che parla, il più delle volte, della loro vita di periferia e delle dure esperienze che hanno affrontato prima di emergere. Senza mito, verrebbe da dire, non c’è attrattiva, e il successo di musicisti d’ispirazione classica come Allevi, lui sì in grado di cucirsi addosso un bislacco e romantico personaggio, lo testimoniano.

Sono completamente d’accordo. Il bisogno di narrazione ha invaso anche il mercato della musica colta, a volte con risultati positivi, nel senso di una rinnovata capacità di attrarre e interessare, a volte con risultati dubbi, laddove la capacità di promozione supera di gran lunga il valore delle musiche o dell’artista promosso. È quello che si dice di Allevi, la cui produzione è però da inserirsi nel mondo della popular music e non della musica colta, con buona pace delle sue strategie di mercato.

Nella sua biografia ho letto dei vari prestigiosi riconoscimenti ottenuti: la vittoria allo ‘J. S. Bach Internationaler Klavierwettbewerb’, i premi ricevuti in molti concorsi internazionali, gli apprezzamenti della critica e le tante volte nelle quali è stato chiamato a presiedere giurie di importanti premi. Ma non sono riuscito a sapere nulla della genesi del suo percorso artistico. Com’è stato il suo incontro con la musica e come è nata la decisione di diventare un professionista?

Nel campo della musica colta si decide di diventare dei professionisti, o meglio si decide di provare a diventare dei professionisti, davvero da giovanissimi. In questo la musica è spietata: si può diventare cardiochirurgo o astronauta decidendolo attorno alle soglie della maggiore età, ma se non si è iniziato a studiare uno strumento negli anni delle scuole elementari, per intenderci, o al massimo all’inizio delle medie, ogni velleità di fare della passione della musica un mestiere invece che un fantastico hobby è destinata a una delusione. Per questo motivo è raro che in una biografia si legga qualcosa sugli inizi che non siano gli studi compiuti, e dopo una certa età, dalle biografie spariscono anche quelli! Non è mancanza di riconoscenza verso i propri maestri ma la lenta trasformazione da studente (in cui il percorso di studio è la parte più importante) in artista autonomo, responsabile in pieno delle proprie scelte e della propria produzione. Nel mio caso la fortuna è stata quella di avere un padre che per lavoro faceva il pilota militare ma per passione suonava il pianoforte. Poi la seconda fortuna è stata incontrare grandi maestri: Vincenzo Vitale e Aldo Ciccolini per il pianoforte, Gino Marinuzzi jr. e Franco Donatoni per la composizione. La terza, aver lavorato da giovane con grandissimi musicisti come Goffredo Petrassi, Leonard Bernstein, Pierre Boulez e tanti altri, e aver voracemente imparato e rubato qualcosa ad ognuno di loro.

Il suo repertorio è estremamente vario e spazia dai concerti di Bach, di cui è indiscusso maestro, a Mozart, Schumann, fino al Novecento. Mi chiedevo se, al di là della scrittura musicale, esiste un compositore a cui si sente umanamente vicino, oserei dire dal punto di vista biografico.

Più passa il tempo più mi sento umanamente vicino a Mozart, Beethoven e Chopin. Non in senso strettamente biografico, ma sicuramente nel senso di quella biografia del pensiero e delle emozioni che è la loro produzione pianistica. Quando studio e suono questi autori, è come se fossi in un dialogo continuo con un fratello maggiore, un maestro o un buon amico. Quello, per intenderci, che ha sempre la parola o il silenzio giusto per noi.

Giacomo Leopardi, scrivendo all’amico Pietro Giordani, si doleva di avere troppo studiato e poco vissuto: “Io mi sono rovinato con sette anni di studio matto e disperatissimo in quel tempo che mi s’andava formando e mi si doveva assodare la complessione. E mi sono rovinato infelicemente e senza rimedio per tutta la vita, e rendutomi l’aspetto miserabile, e dispregevolissima tutta quella gran parte dell’uomo, che è la sola a cui guardino i più”. Queste dolorose riflessioni mi fanno pensare che, forse più di un letterato, un giovane studente di Conservatorio deve sacrificare la propria impetuosa giovinezza a uno studio arduo e faticoso, all’immenso sapere della Musica. È possibile conciliare l’impegno severo e costante richiesto dagli studi musicali con le attrattive della vita adolescenziale?

Vorrei darle una risposta allegra ma non è facilissimo! Arturo Benedetti Michelangeli diceva che quello del pianista non è una professione, è un sacerdozio. Senza arrivare a tanto diciamo che alle attrattive della vita adolescenziale non si deve rinunciare per forza, ma sicuramente bisogna avere una grande capacità di impegno, di dedizione e saper condividere le abitudini dei coetanei non musicisti più come eccezione che come regola.

Infine, la più classica e inevitabile delle domande: progetti per il futuro?

Potrei approfittarne per fare un po’ di pubblicità ai miei impegni ma noi musicisti siamo banali e tutto sommato un po’ idealisti. Non si aspetti quindi una risposta interessante. I progetti per il futuro sono di continuare a dedicarmi allo studio, all’attività concertistica, compositiva e didattica con la passione di sempre. Citando Bill Evans: “Tra le ore più belle della mia vita ci sono quelle passate al pianoforte, a casa, da solo”. In realtà Evans, dicendo la sua verità, sapeva bene di mentire, poiché non si è mai soli con la musica: la riceviamo e la trasmettiamo, e trovarci nel mezzo è la nostra fortuna.

Francesco Consiglio

Gruppo MAGOG