05 Febbraio 2019

La meravigliosa storia di Gyalmo, principessa tibetana, monaca, imprenditrice: la femminista d’Oriente che continua a reincarnarsi

Le bandiere di preghiera tibetane ondeggiano, sono tantissime, colorate, sospese a fili bianchi. Sembrano danzare, come in festa. Tradizionalmente, vengono appese a capodanno, ma non il nostro, quello tibetano, che si festeggia oggi, il 5 febbraio. Uno strano vento caldo sbuffa da est, quando arrivo alla casa varesina di Maria Antonia Sironi, allieva di Ardito Desio, geologa, scrittrice, traduttrice e presidente della associazione EcoHimal Italia Onlus per la salvaguardia delle popolazioni che vivono nelle aree himalayane. Una specie di moderna esploratrice e una pioniera dell’alpinismo femminile. Una catasta di legna da ardere, il pendio di un prato, i rami degli alberi sono ormai spogli, è inverno ed è anche buio. Si indovinano le stelle tra l’intrico dei rami. La casa rossa di mattoni, è in alto, come un eremo, richiede una breve salita. Una manciata di gradini e sono nell’ingresso della casa. Un tempo era un fienile, ora sembra un rifugio di montagna, con le finestre a mezzaluna che sbirciano sulla strada. Un piccolo soppalco di legno a sinistra sembra fatto apposta per la meditazione. Mensole zeppe di libri, le foto appese del Dalai Lama che Maria Antonia, Tona per gli amici, ha incontrato. Ma dove sono capitata? Insieme a Tona, di passaggio, c’è sua figlia Hildegard Diemberger – figlia del celebre Kurt, l’unico alpinista vivente ad aver scalato, in prima ascensione, due ottomila – antropologa e oggi ricercatrice presso l’Università di Cambridge. Lei non chiama mamma sua madre, ma Tona, semplicemente. Del resto Tona è una donna avventurosa, non soltanto una madre: ha preso parte a spedizioni esplorative in varie parti del mondo, ha raggiunto, avventurosamente, l’Himalaya, ai margini della mitica terra di Oddyiana, rimanendo definitivamente sedotta da quei luoghi. Ha vissuto per alcuni anni in Tibet, in Nepal, a Katmandu, con la figlia e la piccola nipote, dedicandosi alla salvaguardia della loro cultura, del loro territorio, restaurando monasteri, costruendo scuole elementari, affinché tutti i bambini potessero avere un’istruzione, anche quelli che vivevano nei luoghi più impervi.

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Maria Antonia ‘Tona’ Sironi ha scritto il libro “La principessa di Gungtang”

Una bambina dal volto di bambola canticchia e danza vicino alle fiamme lievi del camino, mentre una ragazza bionda, esile, dagli occhi vivissimi, abbraccia una coperta ma, nonostante l’innocenza del volto, è molto più grande, è sua madre. Lei, Jana, questo è il nome della ragazza, è nata nove mesi dopo che sua madre Hildegard – che, in quel periodo, viveva a Tashigang, un villaggio alle pendici dell’Himalaya – aveva compiuto un pellegrinaggio all’Ama Pujun, la Montagna della Madre incinta e vi aveva deposto il fiore di rito. Al tavolo di legno, mi offrono una tazza fumante di ginger-lemon, sembra quasi un liquore, ma è soltanto un infuso di zenzero grattugiato, limone e miele, squisito. Mentre stringo la tazza tra le mani, in questo rifugio femminile, ascolto, per la prima volta, l’affascinante storia della principessa di Gungtang. Anzitutto è una storia familiare: Hildegard che dedica la sua vita al Tibet – si era appassionata alle montagne grazie a suo padre, ma a differenza di lui prediligeva “la gente che ci vive intorno” – e alle sue popolazioni, un giorno, al ritorno da un viaggio, racconta alla madre Tona di aver ritrovato, per vie misteriose, il manoscritto andato perduto della biografia di una principessa monaca, nata nel 1422 e vissuta fino al 1455, fondatrice di una delle rarissime linee di reincarnazione femminili. Dopo soltanto cinquecento anni, Hildegard ne trae, nel 2007, un libro accademico per la Columbia University Press: When a Woman becomes a Religious Dynasty, in cui, accanto alla traduzione realizzata insieme a Pasang Wangdu, ne presenta una profonda analisi e la confronta con altre opere e altri personaggi dell’epoca. La madre Tona, al suo fianco, trasforma il manoscritto biografico in un romanzo e così nasce La Principessa di Gungtang Dall’antico Tibet, la storia di una vita senza fine, edito da Alpine Studio, con la prefazione di Kurt Diemberger, il padre di Hildegard.

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La storia della principessa mi piace anzitutto perché è la storia di una femminista ante litteram, una protofemminista tibetana, una donna dinamica che scelse di farsi suora e di aiutare il Tibet. Una donna che si è incarnata dodici volte. Come si presentava il prezioso manoscritto? “Erano 144 fogli di strisce lunghe, scritte nel XV secolo, che raccontavano la storia di una donna che aveva avuto la piena consacrazione e ordinazione. Si trattava di un manoscritto un po’ eretico, che era finito in una libreria di Lhasa e poi preso e portato dai cinesi a Pechino. Insomma, ho potuto leggere il manoscritto grazie ad un collega olandese di studi tibetani, Leonard van der Kuijp, professore alla Harvard University, che me lo aveva fatto avere, in modo un po’ rocambolesco. Avevo incontrato questa misteriosa principessa in altri manoscritti tibetani. Eppure nel manoscritto della biografia mancava il finale”, mi spiega Hildegard Diemberger. Capelli lunghi, colta, intraprendente, la principessa Gyalmo era nata nel quindicesimo secolo a Gungtang, nel Tibet centro-occidentale, discendente degli antichi imperatori. Una donna che riesce a sfuggire a un matrimonio non voluto – o forse può permettersi di farlo –, si fa monaca ed entra in un monastero buddhista a oltre quattromila metri. Diventa una yogini, accetta la povertà e la disciplina monastica, ma, da vera principessa, promuove la costruzione di ponti tibetani con anelli di ferro, ponti che hanno attraversato i secoli, l’ultimo dei quali è stato distrutto, perché pericoloso, negli anni ’90.  Erano novantotto i ponti che permettevano di attraversare il Brahmaputra, in tibetano Yarlung Tsangpo, costruiti dal maestro Tangtong Gyalbo, vissuto pare 140 anni, il creatore dell’Opera Tibetana, ispirata alla stessa principessa Gyalmo di cui lui fu maestro per un paio di anni.  Fondatrice e badessa di un monastero femminile, ma anche monaca buddhista che chiede l’elemosina, imprenditrice e costruttrice di canali di irrigazione, pare che la principessa tibetana abbia utilizzato, una delle prime volte nella storia del Tibet, la stampa da matrice, per diffondere la parola del suo maestro spirituale. Un’autentica femminista nel mondo orientale, in anticipo sui tempi: “Socialmente innovatrice, questa monaca, figlia del Re di Gungtang, si oppose alle vecchie convenzioni e si attivò perché le donne imparassero a leggere e a scrivere… e questo cinquecento anni fa, nell’aspra solitudine del deserto d’alta quota, che chi non vi è stato stenta ad immaginare”. Lei, una discendente degli antichi imperatori tibetani, tra cui Songtsen Gampo e Trison Detsen, vissuti tra il settimo e l’ottavo secolo, che contribuirono allo splendore del Tibet. Ma da dove proveniva la stirpe reale? “Un’antica leggenda racconta che il primo re tibetano scese dal cielo lungo una corda di luce. Il primo re Tibetano, secondo il mito, è chiamato Nyatri Tsenpo. Lui è sceso dal cielo usando una corda di luce ed è stato portato a spalle dai sudditi che lo hanno ricevuto (da ciò viene il nome: Nya=collo, Thri=trono, Tsenpo=re). Anche i suoi discendenti scendevano e poi risalivano al cielo attraverso la corda di luce. Arrivato sullo Yarlha Shampo, la montagna ancestrale dei tibetani, venne portato a spalla nella vallata dello Yarlung, nel mondo degli uomini, che governò con saggezza. Al termine del suo mandato terreno, risalì lungo la corda di luce e tornò al cielo. Così fecero i suoi successori. Tutto continuò bene fino al momento in cui uno dei re si adirò, con un ministro, estrasse la spada, ma invece di colpire l’avversario, tagliò la corda di luce. Da quel momento non fu più possibile tornare in cielo, e i re cominciarono a morire e furono deposti nelle tombe. E dalla leggenda si passò alla storia”.

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La principessa monaca, con così nobile, luminosa ascendenza, indossava orecchini d’oro e turchese, simbolo della sua regalità, come nel dipinto del XVII secolo, custodito presso il monastero di Nyemo. E non è scomparsa. Il principio delle reincarnazioni in Tibet si manifesta con frequenza, ma rarissime sono le linee di reincarnazione femminili. La principessa era, per il primo maestro Chole Namgyal e poi per il secondo Tangtong Gyalbo, l’incarnazione della dea Dorje Phagmo, una famosa divinità indiana venerata soprattutto dalle donne. Ma alla sua morte, i discepoli cercarono e trovarono la bambina in cui si era reincarnata e la ricerca venne ripetuta per secoli dodici volte, fino ad oggi.

L’incontro con la principessa reincarnata viene descritto da Tona Sironi, nella parte finale del romanzo: “La dodicesima Dorje Phagmo non ha preso parte alla cerimonia. L’ha seguita dall’alto, lontana da tutti, riparata da una grande finestra. Sarà possibile accostarla solo l’indomani, nel momento in cui impartirà la benedizione a ciascuno, singolarmente. Il mattino seguente, quando scendono in cortile i quattro trovano la fila dei fedeli già composta. Dai volti assorti si intuisce che questo è il momento più atteso. Le labbra mormorano mantra, le dita sgranano i chicchi dei rosari. Anche i due stranieri hanno riposto le macchine fotografiche e il gruppetto dei cinesi si scambia brevi occhiate di trepida intesa. Finalmente la fila comincia a muoversi e, passo dopo passo, si avvicina alla porta del tempio dove lei, la Dorje Phagmo, poserà per un attimo sul capo di ciascuno il libro sacro che tiene nelle mani”. Eppure, eppure. “Ricevuta la benedizione, lentamente solleva il capo e sta per allontanarsi, ma si ferma per un attimo: da vicino il volto della sacra donna appare intenso, ispirato, ricco di suggestioni… ma lui l’ha già visto, non solo nelle immagini del tempio e della sala del trono. No! Quel volto lo ha conosciuto altrove. Con un crescente senso di turbamento fruga nella memoria. Ecco… la televisione! L’ha vista in televisione. Era là, nel palazzo del governo durante un incontro ufficiale. Era attorniata dai membri del partito e sorrideva davanti alla telecamera… Un senso di smarrimento lo assale. Come può questa donna essere tante cose diverse e contrastanti, nello stesso tempo?”.

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Corro a cercare la fotografia della principessa reincarnata, in appendice al romanzo. Mi immaginavo una bellissima monaca aristocratica, dai lunghi capelli. Mi trovo, invece, a scrutare il volto di una amabile vecchietta, mora, con gli occhiali, vestita di rosso scuro, immersa nel rituale di benedizione. Sarebbe la sceneggiatura di film stupendo, alla Bertolucci, se non fosse così reale. Ma, nonostante tutto, non è una finzione. Nel romanzo La principessa di Gungtang, Tona ammette di aver solo sfrondato alcune parti decisamente agiografiche, ma di aver rispettato il manoscritto. Rifletto, ancora turbata dall’incontro con questa famiglia, il vento continua a sbuffare, ora è freddo, quando lascio l’eremo italiano di Tona Sironi. Penso a tutte le vite che ha vissuto nei suoi viaggi e alle reincarnazioni che racconta nel romanzo. Mi dico: in fondo basta solo prendere un volo aereo (d’accordo, il biglietto non è alla portata di tutti), per incontrare la reincarnazione della principessa Gyalmo, la monaca Chodron e la divinità Dorje Phagmo, nel monastero di Samding, non lontano da Lhasa. Il nome della città significa, del resto, “luogo degli dei”.

Linda Terziroli

 

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