21 Ottobre 2019

Anche la fiducia è una colpa. “Trilogia della città di K”, il libro inesorabile di Agota Kristof

Quando si apre Trilogia della città di K di Agota Kristof si crede a tutto. La scrittura è talmente scarna ed esatta che presenta soltanto l’accadere delle cose. La Kristof ci porta in una narrazione che resta aderente ai fatti che scorrono come piccoli sassi dopo un grande terremoto: due bambini gemelli subiscono l’abbandono della madre, costretta a portarli dalla nonna, perché senza più cibo per la guerra in corso. L’abbandono come prima scossa delle fondamenta, da qui i fatti seguono la velocità di sassi che rotolano.

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Ai bambini si deve credere, i bambini dicono sempre la verità, giusto? Agota Kristof sceglie di far narrare i fatti ai due gemelli. Ecco perché crediamo a tutto. Seguiamo la storia di due gemelli che sembrano avere soltanto i corpi non condivisi, e a volte pare neanche quelli, sono due parti di una stessa persona. Simbiotici e intelligenti quasi fino al fastidio, quasi fino alla nausea. Ne Il grande quaderno assistiamo alla crescita inusuale di due bambini che sono sprovvisti di qualsiasi guida, esterna o interna alla famiglia. Ogni adulto è visto come un animale da studiare nel suo comportamento, l’adulto va osservato non tanto per capire i motivi che stanno dietro alle azioni quanto per superare i limiti, rendersi immuni a tutte le forme di dolore. Questi bambini sono pratici, pensano alla sopravvivenza, a come rendersi resistenti, non si fanno distrarre dalle poltiglie emozionali. Allora si inventano degli esercizi di resistenza, esemplare è “Esercizio di irrobustimento dello spirito”: le parole hanno un peso, si depositano dentro di noi, risvegliano mostri di dolore e amore, le parole semplicemente non ci lasciano indifferenti. Allora loro imparano che le parole però possono anche diventare suono se ripetute all’infinito, perdere il loro significato, smettono di portare il ricordo: “A forza di ripeterle, le parole a poco a poco perdono il loro significato e il dolore che portano si attenua”.

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Agota usa una lingua essenziale in questa trilogia, senza nessuna impronta morale o emotiva. Le cose vanno dette per come accadono, dargli il nome giusto, se si può perfino un solo singolo suono. Quello che succede durante la lettura però è colpa del lettore, ci rigiriamo per bene nel nostro bozzolo di emotività, siamo bambini anche noi, cediamo, siamo deboli e mollicci. Gli episodi narrati sono atroci, terribili, violenza e sopravvivenza si alternano senza sosta. Tutto è una corsa dell’uomo a evitare di ridursi in bestia, o meglio ancora a sfruttare la bestia che sta dentro l’uomo. Rientriamo nel linguaggio dando fiducia al narratore, i bambini sono buoni e dicono la verità, noi abbiamo detto la verità, noi siamo buoni.

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In La prova e La terza menzogna le cose cambiano. Non siamo più così sicuri che i gemelli abbiano detto la verità. La narrazione procede sempre in modo lineare, apparentemente, con l’uso di una lingua discreta e priva di sentimentalismi. Man mano che andiamo avanti con la lettura però ci rendiamo conto che qualcosa non torna, eppure ci pareva che i bambini avessero detto la verità. Non siamo più sicuri di niente, chi ha mentito e perché, quanti erano, davvero erano gemelli?

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Agota Kristof con questa trilogia ci dimostra che la fiducia è una colpa, che la fiducia è un dono e un fardello per pochi: chi si fida tenta un suicidio, apre la carne all’altro e non sa se ne uscirà ricucito o smembrato. La Kristof ci dimostra quanto la scrittura sia pericolosa, fin dove possiamo portare il lettore alla confusione, a perdere ogni riferimento, a mettersi in discussione. Il tradimento che prova il lettore è soltanto l’apertura di un punto di vista differente, non è la rottura di una promessa, uno scrittore non può promettere mai niente, si piega semplicemente alla forza delle parole, si mette a carponi sotto al peso dei suoni.

Clery Celeste

*In copertina: Agota Kristof (1935-2011)

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