23 Gennaio 2020

“Il musicista indipendente è uno ganzo, lo scrittore che si autopubblica è uno sfigato”. Francesco Consiglio dialoga di musica con Franz Krauspenhaar (ovvero: Nerolux)

Ho conosciuto Franz Krauspenhaar su Facebook, un paio di anni fa. È uno scrittore e un musicista vero, ma soprattutto un uomo che ci mette la faccia, non come certi debosciati che si nascondono dietro profili falsi e sparano supercazzole prematurate con doppio scappellamento a destra (e quel che è grave, malattia del simulmondo, trovano folle di adoranti seguaci). Franz non ha bisogno di nascondersi: ti dice stronzo guardandoti negli occhi, e se dichiara guerra è guerra vera, sincera, senza elmetto e senza scudo. Forse è per questo che gli editori non hanno mai pubblicizzato abbastanza i suoi romanzi, tutte storie in cui si resta intrappolati. Chi è sincero, per non dire eretico, è temuto. Poiché non ho più voglia di tuffarmi nel mare acido del dibattito editoriale, ho incontrato Franz per parlare di musica e del suo ultimo progetto, un doppio concept album di 27 tracce intitolato Il viaggio immenso.

Franz Krauspenhaar è nato a Milano nel 1960. Ha pubblicato i romanzi Avanzi di balera (Addictions, 2000), Le cose come stanno (Baldini & Castoldi, 2003), Cattivo sangue (Baldini Castoldi Dalai, 2005), Era mio padre (2008), Grandi momenti (2016), Brasilia (2018). Ha pubblicato le raccolte poetiche Effekappa (2011), Biscotti selvaggi (2013) e Capelli struggenti (2016). Come Nerolux ha pubblicato i CD Light Obsession (2017), Un viaggiatore (2018), Nerolux 3 (2018), Il viaggio immenso (2019).

Bruno Lauzi diceva che anche le canzoni d’amore nascono dalla tristezza, da un’immotivata malinconia, non nascono mai dall’allegria: “Ecco perché io scrivo canzoni tristi: perché quando sono allegro esco”. Mi chiedo se anche tu hai l’impressione che comporre musica sia come andare a vedere un film per scappare dalla realtà.

Vedi, ti sembrerà magari folle o soltanto strano, ma io ormai non faccio più tanta differenza tra scrivere, comporre e vivere la vita di tutti i giorni. Non voglio dire di essere un travet dell’arte, anzi sono piuttosto bohémien e discontinuo, ma ormai vedo solo questo come davvero interessante e alla fine reale, che mi appartiene, mi spoglia e mi riveste. Il resto della vita sta intorno, a volte facendo schiamazzi, o girotondi, mostrando la lingua, dandomi una carezza se si tratta di una persona. La letteratura e la musica sono il prolungamento della mia vita con mezzi leciti, cerco di sopravvivere alle noie e alle delusioni anche così. Ma proprio non faccio una vera distinzione, scrivere per me è quasi come mangiare, anche in quello ci metto un certo impegno, cioè voglio gustare il piatto che ho davanti.  C’è insomma la fatica di essere al mondo ma anche il piacere estremo di accettare questa fatica per superare gli steccati, e allora credo che se uno è un artista, o perlomeno si sente tale, indipendentemente dal successo che ha, è un soggetto fortunato perché vive davvero della propria vita, basta sul serio a sé stesso, in pienezza, fregandosene pure del successo.

Per me sei un grande autore tragicomico, anche quando parli di disperazione e furore, odio, rimpianto, dolore. Nella scrittura sei un clown rosso che si ubriaca, si rotola per terra, ride sguaiatamente, mostra senza reticenze il suo dolore. Come musicista sei un clown bianco, elegante, distaccato, lucido. Due anime per una stessa finzione, magistralmente interpretata. Nel quotidiano, chi sei veramente? Un aristocratico pagliaccio, con la sua aria di superiorità triste e decaduta che hanno tutti i veri scrittori, o un buffone irriverente, un bambino capriccioso che fa le boccacce alla vita?

Intanto ti ringrazio per i complimenti così generosi che non so se meritare appieno, sospetto di sì ma preferisco non gonfiare il petto, e nemmeno però mantenere quel profilo basso che alla fine credo che, dai e dai, ti abbassa davvero. Penso di essere uno scrittore, prima di tutto, e un poeta che ha un grosso debito con la prosa. Poeta per raccontare spesso impressionisticamente le stesse cose che racconto nei libri. Però l’incedere è diverso, si diventa spesso allusivi o, d’altra parte, a volte, fin troppo diretti, come uno sparo. Sono uno scrittore che è stato profondamente toccato da ragazzino da autori come Beckett, e però anche Bukowski. Dal realismo e dal surrealismo. Non sono un letterato classico, sono un curioso, un azzannatore, un trituratore di parole e immagini, e ovviamente di suoni. Non so che tipo di clown sono, in verità, o se sono un clown. In alcuni momenti mi riconosco con la biacca in faccia, forse proprio quando racconto l’estensione del dominio del dolore, parafrasando. Non faccio molta distinzione tra le mie attività, certo tecnicamente i libri li scrivo su un computer, ma anche la musica, avendo molto spesso una base elettronica, la compongo al computer, a volte facendo entrare per mia mano e più spesso di altri strumenti non a tastiera, come il sax o la chitarra o il flauto o il clarinetto basso o il piano, ma suonato magistralmente da un jazzista come in questo caso fa in due brani Manuel Magrini. Ho fatto dischi completamente da solo e invece questo, che è una maratona, un doppio, l’ho affrontato facendomi aiutare da bravi strumentisti e anche da una cantante, la mia “Edda dell’Orso”. Come nei libri, che sono uno diverso dall’altro, qui ho fatto questo viaggio un po’ felliniano dentro me stesso attraverso molti pezzi strumentali ma anche con alcune canzoni piuttosto particolari, dove canto a modo molto mio, cioè non come farebbe un vero cantante, e soprattutto facendo, dove voglio dare un messaggio, che sia una specie di grido, della poesia sonora. Quindi in questo disco, più che nei tre precedenti, Nerolux si mischia fragorosamente a Franz Krauspenhaar, perché la letteratura qui va in prima fila. Basti pensare che una delle canzoni free form cantate in collaborazione con Francesca Tuscano, poetessa, librettista per opere di musica contemporanea e ottima voce, si chiama “Yourcenar”, ed è una specie di inno alla grandezza della scrittrice di Memorie di Adriano.

Haruki Murakami sostiene che per scrivere bene bisogna avere un orecchio musicale. Uno scrittore che ascolta musica diventa più bravo, e più diventa bravo, meglio capisce la musica. Nella tua scrittura il ritmo è fondamentale, me ne accorgo dal fatto che i tuoi romanzi sono belli da leggere oralmente, con le frasi che corrono, si inseguono, assomigliano alle note di un piano jazz, e si potrebbe pensare che siano state incise durante un’improvvisazione, senza avere nulla di preordinato. Ascoltando la tua cover di “Odio l’estate”, l’indimenticabile successo di Bruno Martino, mi vien quasi da dire che non canti ma porgi le parole, masticate, sussurrate, sofferte, come se sgorgassero all’improvviso.

In realtà quella fu anche un’operazione un po’ folle. Siccome non ricordavo tutto il testo, scelsi di cantarlo senza pezze d’appoggio. Se ricordi a un certo punto il testo è come se si spezzasse, perché io mi metto brevemente a farfugliare senza senso, perché proprio in realtà non ricordavo nient’altro. L’effetto volevo che fosse straniante e un po’ ridicolo, non so se ci sono riuscito. Come amo la commistione di alto e basso, amo mischiare il dolore con lo scherzo, il cinismo difensivo, gli inciampi e le indecisioni. Non mi interessano i meccanismi perfetti, amo sempre quel grano di bruttezza e imprecisione che rendono l’opera più umana e quindi, spero, più vera, anche se si parte sempre mentendo. Ritornando alla tua interessante notazione di prima, in effetti avere orecchio musicale aiuta molto nella scrittura. Sempre di più le due discipline si mischiano. Sono un autodidatta su entrambi i fronti, suono un po’ di pianoforte e delle percussioni per mio solitario divertimento, poi sei o sette anni fa ho fondato con l’amico tastierista elettronico torinese Gabriel Lecter un duo, gli Atelier Vidocq, e abbiamo prodotto due dischi, uno più suo e uno più mio. Nel primo io scrissi i testi e cantai queste suites apocalittiche e fantascientifiche, più alcune canzoni. Contribuii musicalmente in modo molto marginale. Nel secondo ci sono pezzi composti insieme in sala di registrazione, cose fatte da lui da solo e cose fatte da me, anche da solo. Risultato buono, ma forse, per colpa dei troppi impegni personali, si poteva fare di più, rendere il progetto più coeso. Il tutto con l’apporto tecnico e il missaggio dei Cuochi Music e della distribuzione Believe Music. E così abbiamo deciso di scioglierci pur rimanendo in ottimi rapporti. A quel punto ho creato Nerolux, e il nome di questo mio pseudonimo volevo risultasse fosco, nero, perché il Dark è il mio mondo, ma anche l’ironia e lo sberleffo, un certo modo satanico autocompiaciuto che uso e che mi diverte molto. E sono partito nel 2017 con un primo disco con molte sonorità electro jazz, poi con uno praticamente ambient e solo strumentale, e con un terzo che metteva insieme queste componenti con maggiori spunti calati nell’ambient e nell’industrial. Il viaggio immenso è un po’ un ripasso però nuovo di tali spunti ma con l’aggiunta di altro ancora; per compiere questo viaggio immenso che in realtà è un viaggio da fermo, dentro di me, ho cercato di raccontare la disperazione, il clown e il mostriciattolo che sono in me, l’orrore, la mancanza, e poi anche la speranza, la tenerezza erotica per una donna e il racconto di una carneficina, il cinismo di un uomo che trova un cadavere in un parco e ammette che questo non lo tocca, e il terrore di un uomo che vaga nella nebbia e crede che da un disco volante un alieno gli accenda una sigaretta, le rovine ancora fumanti del conflitto jugoslavo, e altro…

I fruitori della musica sono sempre ben disposti ad ascoltare un artista che si autoproduce. Se resti fuori dalle produzioni industriali, non sei considerato un dilettante ma un artista puro che ha fatto una scelta nobile di totale autonomia, e alla fine risulti anche simpatico. In letteratura, invece, se ti stampi un libro da solo sei un coglione. Il lettore è troppo pigro per cercare la chicca: preferisce andare nei negozi delle grandi catene librarie e compra solo i libri delle pile in cui inciampa. In Italia il self publishing è considerato la riserva dei mediocri che si autoproducono e sono destinati ad autoleggersi. Come ti spieghi questa diversità di approccio alla fruizione dei due contenuti?

Perché se vuoi fare la musica che vuoi veramente fare non hai altra strada che l’autoproduzione, che però come nel mio caso deve essere sostenuta da un canale distributivo serio come, appunto nel mio caso, Believe. Ciò non ti procura vendite, devi essere tu a fare il promoter di te stesso. L’unico modo di guadagnare qualcosa è fare concerti, non l’ho ancora fatto come Nerolux ma solo in qualche occasione come Atelier Vidocq, ma ovviamente devi andare in spazi piccoli, di nicchia, e vendere i tuoi CD. Si fa per divorante passione. In Italia l’autopubblicazione editoriale non ha quello spazio distributivo che ha la musica. Certo Believe manda a I Tunes, Google ecc. ma è tutto lì, in un mare magnum. Sta a te far conoscere. Come la metti devi farti il mazzo da solo. Si, nel mio caso ho i “Cuochi Music” con l’etichetta Symposion Records che mi aiutano nel lavoro dell’ufficio stampa, ho un supporto di persone fidate. Musica e letteratura sono percepiti come campi opposti. Il musicista indipendente è uno ganzo, lo scrittore che si autopubblica o ha un piccolo editore è uno sfigato. Eppure, e io ne so qualcosa, la qualità oggi si trova soprattutto presso gli editori indipendenti; con alcuni ho pubblicato, è gente che lotta anche per farti vendere una copia in più, ci sono delle belle realtà, di editori tosti, che ci credono. Io non ho agenti, ne ho avuti in passato ma per vari motivi tutti gli editori che ho avuto, e non sono pochi dopo venti anni di attività, me li sono trovati da solo, ma non ne faccio una colpa a nessuno, erano persone con le quali avevo un ottimo rapporto e che non avevano il cinismo dell’agente tipo, alcuni di loro erano anche editor e scrittori.

Con l’autopubblicazione al momento sei abbastanza tagliato fuori secondo me, bisogna aspettare che la situazione crolli completamente, e ci siamo quasi. A dirti la verità vorrei che fosse rasato tutto al suolo, che la sicumera di certa gente diventasse terrore puro, che certe caste politicizzate e non facessero un bel tonfo verso il basso come nel terribile collasso del World Trade Center. Non ho nessuna pietà per questa gente, per me sono alieni distruttori, quelli immaginati da Stephen Hawkins e che io ho immaginato in una mia canzone del mio terzo disco. Ormai il marketing ha ucciso tutto, ma io me lo sento, perché sono un po’ sensitivo, questa Sodoma e Gomorra crollerà, come ha fatto il comunismo qualche decennio fa, dall’interno. E allora, anche se sarò vecchio e malato e starò a leggere soltanto fumetti scemi in una casa di cura, io riderò, riderò davvero musicalmente. Tornando all’autopubblicazione, comunque, non si può mai dire. Dall’autopubblicazione si può anche passare a un buon editore che ristampa quel libro, nulla lo vieta. Comunque molta colpa è dei lettori che vanno in libreria comprando pile di libri solo dei grandi editori, credendo a torto che la qualità sia solo li. O quelli che pensano che i veri scrittori siano in America, perché si sono sublimemente annoiati con l’ultimo DeLillo. McCarthy è Dio, ma non sanno nemmeno chi era Faulkner. E nemmeno Steinbeck. Il noir è spazzatura, mentre il noir, quello d’autore, non da aeroporto, è come “L’infernale Quinlan”. Solo che quello è un capolavoro perché è un film, mentre un romanzo… Viviamo in un mondo dove si gioca tutti alle tre carte. Oddio, io no.

All’inizio degli anni Ottanta – ero poco meno che ventenne – ascoltai un disco dei Kraftwerk e ne rimasi affascinato. Quei ritmi robotici erano veramente un salto nel futuro, verso un mondo che sarebbe stato scoperto e amato da tutti un decennio dopo, quello dei nuovi media: i computer, i videogiochi, internet. In quegli anni, la musica elettronica ha rappresentato qualcosa di speciale, una sorta di discontinuità rispetto ai dogmi del cantautorato: quattro accordi e fiumi di parole. Ma oggi, che senso ha? Scava nel passato o cerca nuovi mondi?

I Kraftwerk cominciarono facendo krautrock, fecero due dischi nei quali Florian Schneider, il nasone, suonava il flauto. Di elettronico avevano una tastiera che sembrava un Farfisa. Poi hanno trovato il bandolo e hanno creato dei suoni nuovi, inediti, soprattutto. E ci hanno costruito una vera mitologia germanica, con concept album dedicati alla radio o alle autostrade o al treno TEE, mischiando modernariato e suoni futuristici. La musica elettronica in realtà è nata negli anni 30 e si è propagata, ma non al grande pubblico, verso gli anni 50 con la scuola di Darmstadt. Esponente principale, Stockhausen.

Poi in Francia con Pierre Henry, e con uno stuolo di donne pioniere che dagli anni Quaranta agli anni Settanta hanno sperimentato con grande ingegno. La mia preferita è la musicista del settore sperimentale della BBC Delia Derbyshire, famosa solo per aver collaborato alla produzione della sigla della prima serie del telefilm fantascientifico Doctor Who. In realtà Delia lasciò alla BBC un patrimonio di suoni sperimentali che spesso diventavano sigle di programmi televisivi anche famosi all’epoca, ma soprattutto una serie di pezzi suonati spesso per solo nastro magnetico e sintetizzatore da far accapponare la pelle. Vedi, i Kraftwerk ci hanno saputo fare, hanno costruito i loro strumenti, e inventato un genere di musica elettronica molto popolare, ma dobbiamo pensare che certe invenzioni erano nate molto prima. Vennero fuori altri gruppi, specialmente in Germania, come i Tangerine Dream degli inizi, o in Francia Jean Michel Jarre che presto diventò la caricatura di sé stesso.

Dai Kraftwerk nacquero i Neu!, il batterista dell’epoca e il chitarrista, che fecero un salto più interessante. Mischiare un protopunk molto più musicale della poltiglia punk successiva con il suono di un sintetizzatore e di una batteria molto rock. Una commistione straordinaria, ma non ebbero un grande seguito. Per rispondere alla tua domanda, non credo sia passato né futuro. I Kraftwerk sono un bel reperto del passato, ma la musica elettronica come si pensava allora non esiste più. Io a dirti la verità non credo di fare musica propriamente elettronica, ma una musica in massima parte elettronica con inserti di altri strumenti. L’elettronica non è il mio distintivo, è il mezzo per me più congeniale per creare dei mondi sonori, per avvicinarmi a me stesso, molto spesso alle mie paure, a volte ai miei incubi. Mi serve per sfogare le mie tensioni, in questo più che alla scrittura potrebbe somigliare alla pittura, o al disegno, o forse alla recitazione. Ormai, per dire, Trent Reznor, un artista che ammiro, è sì un musicista che usa molto i sintetizzatori, ma si avvale anche di altro, e a me non risuona affatto come un figlio dei Kraftwerk, così come mille altri artisti che usano il synth, specialmente jazzisti giovani della nuova leva; anche il sublime Chick Corea, che usa synth dai primi anni Settanta, e il mitico Herbie Hancock. Miles Davis, il maestro di tutti, entrò senza remore nell’elettronica. Poi c’è l’industrial, di cui un po’ faccio parte, ma ho fatto anche pezzi jazz, o di stampo hard rock, un pezzo di musica demenziale ispirato da Drupi, o cose che fanno pensare al Cielo in senso religioso, pezzi praticamente techno e suites quasi da discoteca, e altre da incubo quasi lynchiano. L’elettronica è tremendamente versatile, e sviluppa la tua creatività. È come viaggiare e non fermarsi mai.

Credo che ogni artista sia influenzato da colleghi che ama e che ha amato, ed è difficile scrivere o comporre senza pagare il prezzo di queste dipendenze. Siamo circondati da cloni di Houellebecq e imitatori di Sfera Ebbasta. Tu che rapporto hai con i tuoi padri artistici, sei riuscito a ucciderli?

Beh, dunque, Böll, Dürrenmatt, Bernhard, Henry Miller. Ovviamente ho un’ammirazione smisurata per Houellebecq, per me il più grande dei contemporanei. In musica è un tale casino… Il mio vero eroe, parlo di cantautori, è il vecchio Peter Hammill, dei Van der Graaf Generator. Anche lui ha anticipato il punk, ma viene dal progressive. Un genio, e un esempio di libertà espressiva. Mi piace molto certa musica minimalista dalla quale ho attinto in certi pezzi, amo il jazz di ogni epoca e la musica brasiliana, nel disco c’è un omaggio a Brasilia, con questo titolo, un jazz samba suonato con Magrini, lui splendidamente al piano, io al synth, basso e batteria. Ascolto almeno tre ore di musica varia al giorno, non ho padri, forse spero di avere dei figli (scherzo).

Infine, la più classica e inevitabile delle domande: progetti per il futuro?

In estate o in autunno esco con un disco dal titolo Elektrosymphonies. Delle brevi sinfonie elettroniche e anche un requiem. Un lavoro solo strumentale, spero fresco, che non si prende troppo sul serio anche se ci saranno momenti drammatici e decisamente cupi come mia abitudine, e dove faccio appunto questo esperimento, percorro questa nuova strada. Tutti gli strumenti elettronici sono suonati da me, così come i cosiddetti legni campionati perché si tratta pur sempre di sinfonie, anche se abbastanza autoironiche.

Francesco Consiglio

Gruppo MAGOG