28 Gennaio 2020

“Sì, perché un giorno, Kobe, ti sfiderò uno contro uno. Ti faccio un paio di crossover da lasciarti inchiodato lì. Vedrai. Anche se è impossibile, come sfidare un dio a dadi”. In memoria di Bryant, che ha fatto la Monna Lisa sul campo da basket

“Pare sia morto Kobe Bryant…” dice Davide al telefono. “Che stronzata” rispondo. Intanto apro Facebook. Poi Google. E tutto diventa vero.

Mi viene in mente una persona: Marco Simoncelli. Lo strazio è identico.

E se con Marco ho ricevuto, per caso, l’occasione di condividere qualche momento, con Kobe ne ho trascorsi un’infinità. Come se tra noi non ci fosse alcuna distanza. Ho iniziato a giocare a pallacanestro tra gli undici e i dodici anni, e se nel giro di tre anni sono diventato uno degli innumerevoli a cui è stato detto “chissà, se ti impegni, magari potrai farlo di lavoro” (certo, ho fallito miseramente), il merito è stato dei pomeriggi di lavoro al campetto pensando a Kobe Bryant. E di tutte le sere trascorse incollato ai suoi video. Mi addormentavo studiando le sue finte, il piede perno, le interviste in cui raccontava come fosse riuscito a diventare Kobe Bryant.

Nicolò Locatelli che imita Kobe Bryant

Perché se hai quattordici anni e quel giorno non c’è allenamento, quante cose puoi fare? Soltanto una ovviamente. La stessa che farai per molti anni. Anche a gennaio quando ci sono tre gradi e il cielo ogni tanto ti sputa un po’ d’acqua. Vai al campetto in bicicletta con i pantaloncini da basket sotto i pantaloni della tuta. E il pallone dentro uno zaino. E quando arrivi ti ritrovi a litigare con tutti, perché gli altri ragazzini – una decina –, stanno utilizzando quella piastra di cemento che è il campo da campo da basket per giocare a calcetto. Allora ti metti a palleggiare nel parcheggio finché non smettono, provando e riprovando crossover e palleggi sotto le gambe, dietro la schiena, o passaggi improbabili al muro. Avevi guardato i video di Kobe tutta la notte, e al mattino avevi collezionato l’ennesima insufficienza in matematica. Finalmente sembrava arrivato il momento di giocare a basket. La quiete prima della tempesta. E se gli altri smettono di giocare a calcio soltanto quando si fa buio, a te cosa importa. Chissenefrega della nebbia, chissenefrega se spioviccica. Siete tu e gli alberi. E anche chi non c’è, in questo caso. Quando nella tua testa mancano cinque secondi al fischio finale e il pallone dell’ultimo tiro si trova tra le tue mani, è tutto molto semplice: in quel momento ci sono tutti. Anche Kobe. Sì, perché un giorno, Kobe, ti sfiderò uno contro uno. Ti faccio un paio di crossover da lasciarti inchiodato lì. Vedrai.

Poi cresci. Ti rendi conto che è impossibile come sfidare un dio a dadi. Che se la pallacanestro è madre, il padre non può essere che Kobe. E il tuo rapporto con lui un complesso di Edipo. E i principi e le regole della matematica non li hai mai imparati. Hai imparato Kobe. Conosci il suono della sua voce italiana e di quella americana. La sua faccia strana, con quel naso a punta da bianco. Conosci ogni singolo highlight e tutte le leggende e gli aneddoti che lo riguardano. Perché Kobe Bryant era talmente devoto a se stesso da trascinarti in un vortice di adorazione. Può non avere amato Kobe soltanto chi inconsciamente ne ha avuto troppa paura. Perché Kobe Bryant, se giochi a basket, ha la stessa importanza dell’alfabeto per te che stai leggendo. Quanto ai paragoni con il tuo predecessore: dev’essere stato più facile ritrovarsi ad essere Micheal Jordan, un ideale di perfezione. Il difficile è stato raggiungere quella perfezione nei panni di un uomo: di Kobe, quel minuscolo spazio tra le dita di Adamo e Dio nella Creazione di Adamo. La vetta più alta mai sfiorata.

E poi hai perso, Kobe. E ti amerò per sempre anche per questo. Ci hai insegnato la grazia suprema del talento coltivato dall’etica, e al tempo stesso ricordato l’inevitabile caducità di ciascuno di noi. Siamo destinati a morire ed è questo che ci rende umani. La nostra coscienza. Sei stato capace di segnare 81 punti e al tempo stesso di avere fine. Hai inventato il Colosseo e le piramidi, sul campo da basket, hai dipinto la Monna Lisa ed eretto il Partenone. Hai fatto vivere a un bambino di sei anni il sogno di essere uno dei Lakers. Sei rimasto un bambino di sei anni diventando il migliore Lakers di sempre. E poi mi hai fatto piangere. Ci stai facendo piangere tutti. Da due giorni di fila. Ma un giorno Kobe, te lo dico, verrò a cercarti per sfidarti uno contro uno. Ti faccio un paio di crossover da lasciarti inchiodato lì. O più probabilmente me li farai tu. Per ora ti abbraccio – abbraccio anche Gianna.

Nicolò Locatelli

***

La lettera di Kobe Bryant nel giorno in cui diede addio al basket giocato

Caro basket,
dal momento in cui ho cominciato ad arrotolare i calzini di mio padre
e a lanciare immaginari tiri della vittoria nel Great Western Forum
ho saputo che una cosa era reale:
mi ero innamorato di te
Un amore così profondo che ti ho dato tutto
dalla mia mente al mio corpo
dal mio spirito alla mia anima.
Da bambino di 6 anni
profondamente innamorato di te
non ho mai visto la fine del tunnel.
Vedevo solo me stesso
correre fuori da uno.
E quindi ho corso.
Ho corso su e giù per ogni parquet
dietro ad ogni palla persa per te.
Hai chiesto il mio impegno
ti ho dato il mio cuore
perché c’era tanto altro dietro.
Ho giocato nonostante il sudore e il dolore
non per vincere una sfida
ma perché TU mi avevi chiamato.
Ho fatto tutto per TE
perché è quello che fai
quando qualcuno ti fa sentire vivo
come tu mi hai fatto sentire.

Hai fatto vivere a un bambino di 6 anni il suo sogno di essere uno dei Lakers
e per questo ti amerò per sempre.
Ma non posso amarti più con la stessa ossessione.
Questa stagione è tutto quello che mi resta.
Il mio cuore può sopportare la battaglia
la mia mente può gestire la fatica
ma il mio corpo sa che è ora di dire addio.
E va bene.
Sono pronto a lasciarti andare.
E voglio che tu lo sappia
così entrambi possiamo assaporare ogni momento che ci rimane insieme.
I momenti buoni e quelli meno buoni.
Ci siamo dati entrambi tutto quello che avevamo.
E sappiamo entrambi, indipendentemente da cosa farò,
che rimarrò per sempre quel bambino
con i calzini arrotolati
bidone della spazzatura nell’angolo
5 secondi da giocare.
Palla tra le mie mani.
5… 4… 3… 2… 1…
Ti amerò per sempre,
Kobe

 

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