25 Ottobre 2019

“Spesso vedevo sorgere dalle tombe e venirmi incontro i miei cari morti”: il diario di Kierkegaard, catabasi in un’anima tormentata

Un altro dal noto in certi casi appare esattamente come un doppio, ma che dona un varco di luce importante anche per rileggere il noto. Kierkegaard nel suo diario mostra il suo profilo umano, tormentato, dalla personalità dicotomica, spesso oscura, oltre l’immagine nota del grande pensatore.

Opera secondaria rispetto al corpus più noto, dal timbro più intimista, mostra un luogo in cui per un attimo adagiare la maschera del multiforme e lasciare una scia di riflessione a nudo e sguardo interiore.

Sicuramente un moto disvelatore e insieme occultante è presente in tutto il testo, ma è proprio della personalità del filosofo che ama chiarificare, illuminare e insieme condurre all’oscuro, al doppio o opposto. Alcuni dati certi li abbiamo: una parte dell’anima di Kierkegaard resta celata con lui, un’altra traspare dai suoi scritti e ci lascia un ritratto a toppe.

“E quando io mi trovavo lì in una sera tranquilla, quando il mare con una gravità calma ma profonda intonava il suo canto, quando l’occhio non s’imbatteva più nel più tenue velo sull’immensa superficie ed il mare non aveva per limite che il cielo ed il cielo il mare, quando nel retroterra l’attività incessante della vita s’andava spegnendo e gli uccelli cantavano nel vespero la loro preghiera… spesso vedevo sorgere dalle tombe e venirmi incontro i miei cari morti, o meglio mi sembrava che morti più non fossero. In mezzo a loro mi trovavo così bene: un vero riposo fra le loro braccia, come se mi sentissi anch’io senza corpo e mi librassi con essi in un etere superiore. (…) Qui, da questo sito, io ho visto, per così dire, la nascita e la fine del mondo, spettacolo che veramente impone silenzio”.  (29 Luglio 1845, Su me stesso)

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Il filosofo apre il suo diario con un ritratto paesaggistico descritto da poeta, con occhi che possono sembrare quelli di Leopardi, che lasciano intravedere un amore per la vita, una contemplazione della natura, una presenza significativa nel mondo che non esclude la riflessione metafisica, ma che l’abbraccia con lo stesso amore con cui contempla la realtà. Significativo, infatti, che alla riflessione di un paesaggio al tramonto in cui i riflessi del cielo si confondono con quelli della terra, la preghiera si fonde con la contemplazione e il volo degli uccelli, il pensiero del vivente si rivolge al ricordo dei morti, non come una riflessione sulla caducità dell’esistenza, ma come un punto d’incontro, visione di un senso, di un’unione in cui la perdita non è più perdita, la lacerazione della vita si è ricongiunta. Colpisce come questa visione trascendentale sia possibile al di fuori del corpo, quasi che liberarsi dal corpo equivalga ad aprirsi ad una realtà superiore e, in questo, si manifesti la possibilità di vedere l’inizio e la fine del mondo, ovvero un senso universale al cospetto di cui non resta che il silenzio.

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“Granello di sabbia come costitutivo del mondo: frase che rasenta la pazzia”. (29 Luglio 1845, Su me stesso)

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Se l’elemento della fisicità è limite alla visione dell’Oltre, l’elemento della piccolezza infinitesimale diventa metafora chiave. Il granello di sabbia regge e costituisce il mondo, ovvero un punto regge tutto e tutto deriva da lì. Non è soltanto una riflessione di stampo neoplatonico sull’Uno, ma è una riflessione sull’importanza della piccolezza e dell’insignificante. Da ciò che non consideriamo si origina tutto e tutto deriva, come una legge imprescindibile: l’essenziale resta celato, impercettibile. Tale riflessione è sempre in relazione non solo con la sfera metafisica, ma soprattutto con quella conoscitiva: per quanto noi possiamo sforzarci di costruire delle strutture di pensiero che aiutino a comprendere un senso del tutto, il vero senso di tutto rimarrà racchiuso sempre al di fuori, in ciò che non abbiamo preso in considerazione perché è sembrato troppo insignificante.  Non esiste un modo per uscire da questa legge non scritta, eppure così reale, che ci impone di essere sempre spettatori ignari della trama dell’esistenza, protagonisti impreparati alla tragedia dell’esistere? Per il filosofo ciò non è possibile perché l’inquietudine che si genera dalla condizione dell’esistente è necessaria alla vita stessa, al raggiungimento dell’Oltre.

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Ecco perché sta scritto che noi dobbiamo «lavorare alla nostra salute con timore e tremore» [Philip. 2, 12]: perché non si tratta di un affare fatto o concluso ma di una cosa sempre precaria. Ed è certamente questa inquietudine che spinge tanti a cercare con tanto zelo il martirio: per abbreviare la durata della prova e concentrarla nel momento più intenso possibile, che è sempre più facilmente sopportabile di una lunga prova”. (Su me stesso, 95)

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L’inquietudine è data dalla precarietà dell’esistere, della conoscenza e dalla coscienza di questa precarietà. Timore e tremore sono i criteri emotivi su cui basarsi per camminare nel percorso dell’esistenza in quanto nulla è controllabile, calcolabile, prevedibile da noi. L’inquietudine è anche il motivo per cui molti, secondo il filosofo, scelgono la strada del martirio: un modo per concentrare la sofferenza tutta in un momento scelto dall’uomo in persona perché nella brevità la sofferenza è più sopportabile. Forse come tentativo di scelta: in un quadro in cui l’incontrollabile ha il sopravvento, scegliere di gettarsi al male di cui più si ha timore dona un senso di possesso e controllo sulla propria vita.

Nella riflessione sulla vita e sulla morte, sulla precarietà e sull’inquietudine, sul martirio, entra in gioco potentemente il senso dell’essere poeta. Perché Kierkegaard non si è mai definito nel suo diario “filosofo”, al massimo “pensatore”, ma per lo più amava definirsi “poeta”.

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“In generale prima viene l’eroe, ovvero il carattere etico, poi il poeta: io volevo essere tutti e due. Mentre avevo bisogno della quiete del «poeta» e del distacco dalla vita e della calma propria del pensatore, volevo al tempo stesso essere nel mezzo della realtà, e la creazione poetica e la riflessione metafisica insieme. Martire di me stesso come sono sempre stato, nella mia malinconia avevo, non senza fierezza, escogitato questi compiti per tormentarmi”.  (Su me stesso, 1797)

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Mistificare, moltiplicare gli pseudonimi per le sue opere, creare multipli di sé è proprio un tentativo del filosofo di venir fuori al paradosso del suo essere sdoppiato, come si sente, tra la natura terrena e quella ultraterrena, e in cui egli racchiude la sofferenza da donare a Dio per l’ascesi: “Un po’ alla volta mi sono sempre più accorto che tutti coloro che son stati realmente amati da Dio, i modelli ecc.: tutti hanno dovuto soffrire in questo mondo. Inoltre, ho compreso che la dottrina del Cristianesimo è che l’essere amati da Dio e amare Dio è soffrire”. (Su me stesso, 2766)

Essere amati da Dio è soffrire: questo il paradosso a cui giunge il filosofo. Punto di una vera e propria aporia, chiave della sua stessa esistenza. Dio come padre fa soffrire perché ti ama: non è solamente una riflessione di matrice cristiana, ma è proprio la presa di coscienza che per giungere ad un insegnamento, ad un senso, alla profondità della vera identità, bisogna attraversare la sofferenza. Sofferenza, quindi, come motore trainante non solo verso l’interiorità, ma soprattutto verso un’affermazione del proprio posto all’interno del mondo. Forse sofferenza quale chiave di identità.

Questa dualità prodotta e forzata, sempre in relazione con la domanda centrale: “Quando bisogna svezzare il bambino, la madre cosparge il seno di amaro, ma lo sguardo materno riposa sempre con tenerezza sul pargolo. Questi crede che il seno, non la madre, sia mutato. E perché amareggiarsi il seno? Perché la madre pensa che il seno dilettevole sarebbe di danno una volta che il bambino non deve più poppare”.

L’autore si domanda perché non è possibile rimanere nello stato della stretta vicinanza a Dio, il tempo in cui tutto era perfetto. Perché Dio conduce ad una strada piena di prove al fine di ricondurre l’uomo a se stesso? Questa è la domanda senza risposta che risolverebbe la vita di Kierkegaard.

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“Una bambina gioca tanto con la bambola, che questa alla fine si trasforma in amante: tutta la vita della donna non è che amore. Una continuità simile ebbe anche la vita di Giovanni: tutta la sua vita non era che pensiero”. (Il rapporto al padre, 765)

Ecco passo di un racconto di Kierkegaard in cui è possibile rintracciare il ritratto del filosofo: un uomo amante del pensiero che col pensiero gioca e del gioco costruisce tutta la vita. Si gioca per diventare amanti, si pensa per gioco, il gioco del pensiero costruisce il mondo. Ma c’è anche una nota, come sempre, in relazione al paradosso: il filosofo vive solo di questo gioco, ovvero del doppio di sé, dimenticando se stesso. Il diario di Kierkegaard è un ritratto della sua natura “doppia”.

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“L’unica cosa che mi consolerebbe sarebbe di poter mettermi a morire e poi nell’ora della morte confessare quest’amore, che non oserò mai confessare finché vivo e che mi rende ad un tempo felice e infelice”. (Il rapporto con Regina, 552)

Kierkegaard compie le scelte più significative della sua vita a seguito di paradossi: supera l’esame di teologia dopo la morte del padre; ritrova se stesso dopo aver rotto il fidanzamento con Regina. Questo panorama descritto dallo stesso autore sulla sua vita è una presa di coscienza della paradossalità della sua esistenza, ma anche un’esaltazione.

Kierkegaard appare quasi godere nel tormento del paradosso, essere felice di perdersi o di privarsi, o ancora di andare contro se stesso, ma non come un tentativo autolesionista o masochista, bensì come consapevolezza che la via dell’alterità, ovvero dell’altro da sé in cui è racchiuso il paradosso, è l’unica via per l’ascesi.

Paola Tricomi

*In copertina: Kierkegaard in un disegno di Kund Gamborg (1828-1900)

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