06 Marzo 2020

“Nessuno sa dove sei, nessuno ha la più vaga idea neppure di chi tu sia”. Leggere Katherine Mansfield è come guardare Lucio Fontana: i suoi racconti sono ferite inesorabili, sull’orlo dell’abisso

Un’esistenza breve e vissuta intensamente; una produzione letteraria concentrata in poco più di dieci anni che ci ha lasciato una serie di racconti straordinari. Tutto questo è Katherine Mansfield (1888-1923), neozelandese di nascita, ma inglese per scelta di vita. Un’autentica virtuosa della short story. Cresciuta in una famiglia benestante di Wellington, a vent’anni si trasferì a Londra dove visse al di fuori delle convenzioni borghesi tra passioni travolgenti e amori sbagliati.

Conobbe e incrociò Virginia Woolf, ma il loro rapporto fu di amore-odio. Quando si incontrarono si squadrarono con diffidenza, trincerate dietro la barriera delle loro esperienze così diverse. Soprattutto la Mansfield, ribelle e bohémien che viveva tra pensioncine di quart’ordine e amicizie disordinate, mal sopportava l’ambiente snob e sofisticato del circolo di Bloomsbury. Tuttavia, per quanto lontane sul piano umano, le due scrittrici erano unite dal talento letterario, e Preludio, uno dei racconti più belli della Mansfield, fu pubblicato per la prima volta proprio dalla Hogarth Press, la piccola casa editrice fondata dalla Woolf con il marito.

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La Mansfield era una donna che amava la vita, la natura, gli oggetti, ma diffidava delle persone ed ebbe sempre un rapporto conflittuale con il prossimo. In molte sue storie accanto a una visione gioiosa e serena delle bellezze della natura troviamo uno sguardo spietato verso il mondo degli esseri umani, pieni di piccole ridicole vanità, grettezze e assurde meschinità. Convinta che nessuno potesse comprenderla veramente, amava dire: “Nessuno sa dove sei, nessuno ha la più vaga idea neppure di chi tu sia”.

E molto probabilmente aveva ragione. Infatti proprio chi avrebbe dovuto conoscerla meglio, il critico letterario John Middleton Murry che fu suo marito, dopo la sua precoce morte a causa della tisi costruì di lei un’immagine edulcorata, sentimentale e rassicurante che ne tradiva la vera natura di donna e di scrittrice. Basta leggere i suoi racconti per rendersene conto.

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Già la prima raccolta, In una pensione tedesca pubblicata nel 1911, presenta piccole storie in apparenza semplici, ma in cui viene messo a nudo con pochi tratti di graffiante ironia tutto il vuoto e la superficialità di certe convenzioni borghesi. E in molti racconti successivi ritroviamo situazioni apparentemente serene che però la Mansfield riesce a mandare in frantumi attraverso un semplice gesto di un personaggio, una frase rimasta a metà, un piccolo episodio apparentemente insignificante. Sta qui la sua vera grandezza. In questa straordinaria capacità di svelare le ambiguità della vita e dell’animo umano, di gettare una luce improvvisa sulle incrinature invisibili che covano sotto la banale superficie. Non ha bisogno di raccontarci i dettagli, le basta rivelare le crepe. La sua è un’arte sottile.

Leggere i suoi racconti è un po’ come guardare i quadri di Lucio Fontana con i famosi tagli. Anche la Mansfield incide delle ferite nella tela superficiale di una storia e apre così nuovi spazi che gettano luce su un destino, sul senso di un’esistenza, su qualcosa che forse non ci fa piacere conoscere ma che certo è più autentico. Ci porta sull’orlo dell’abisso e ce lo spalanca davanti senza dire quello che contiene. Il resto è affare nostro.

Silvano Calzini

Gruppo MAGOG