17 Maggio 2019

“Non credevo che fosse possibile amare come io amo lui”. Katherine Mansfield e la morte del fratello Leslie. Che accese la sua nostalgia e il suo genio

C’è una frattura nella vita di Katherine Mansfield, uno spartiacque inciso con l’esattezza acuminata del dolore che cambia il corso della sua vita e del suo destino umano e artistico. Si tratta della morte improvvisa dell’amato fratello Leslie.

Alcuni critici (Jeffrey Meyers e Stephen Arkin, per citarne un paio) parlano di “ossessione”, perché Katherine non riesce a pensare ad altro, sembra quasi che non voglia; perché non riesce per molto tempo a vivere l’intimità coniugale e la scrittura diventa l’alveo che contiene il dolore, trasformandolo in corrente creativa. La scrittura è il suo modo di tenersi viva e di continuare il dialogo e il legame con Leslie, è l’espressione tangibile del senso di vicinanza simbiotica a lui e di distanza dal mondo che il trauma del lutto scatena in lei. Più che un’ossessione, sembra il tentativo di far posto, nella vita, ad un amore grandissimo che dalla vita è scivolato fuori. È un desiderio di continuare a vivere nonostante tutto, di sopportare lo sgomento del vuoto e il continuo scontarsi con il vuoto, che lei colma e attraversa con la scrittura.

Qualcosa dentro di lei cede, perde la presa sulla vita, al punto che la sua salute inizia a declinare e l’anno successivo le viene diagnosticato il male che la ucciderà, la tubercolosi. Sopravviverà al fratello poco più di sette anni, durante i quali la sua opera diventa un tentativo di rivivere e ricreare il tempo magico della Nuova Zelanda, i luoghi madidi di luce e le piante per cui il vocabolario inglese non possiede nomi, pahutukawas, toi-toi, piante esotiche, altre, esattamente come è Katherine in qualunque luogo viva.

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Soltanto poche settimane prima della tragedia, Leslie era stato a Londra ospite di Katherine, nella tranquilla zona di St. John’s Wood. Vicino al fratello Katherine non era altra, era come lui, era inviolabile. Custodivano un passato condiviso, gli odori e le atmosfere della Nuova Zelanda, i ricordi di famiglia, il calore dell’amore fraterno che non ha bisogno di parole per spiegersi ma che toglie la parola quando viene a mancare. Cosa rimane? Un vuoto, un’angoscia, un essere nudi e violabili e altri, spaiati. Katherine non si riprenderà mai da questo dolore, non perché ne sia ossessionata, ma perché la ferita ha violato un punto troppo profondo. Scrive Pietro Citati: “…c’era in lei qualcosa di così fragile, di così feribile – che una parola, un gesto o un minimo soffio di vento o soltanto la luce bastavano a offendere. Nei momenti più acuti di terrore e di angoscia, quando si sentiva sola o i rumori estranei o gli incubi della tenebra l’assalivano, scrisse di essere soltanto una bambina timida, stanca, smarrita, spaventata, bisognosa di protezione”. La bambina timida viene ferita irreparabilmente dalla perdita di Leslie, e la donna, la scrittrice, prova con tutte le forze a reagire, a sopravvivere. Per sua stessa esplicita volontà, scrive per lui: “Ora – ora voglio scrivere ricordi del mio paese natale. Sì, voglio scrivere del mio paese natale semplicemente fino ad esaurire le mie risorse. Non soltanto perché è un “debito sacro” verso il mio paese perché è lì che mio fratello ed io siamo nati, ma anche perché nei miei pensieri percorro con lui tutti i luoghi che ricordo. Non sono mai lontana da lì. Desidero ardentemente rinnovarli attraverso la scrittura… ma tutto deve essere raccontato con un senso di mistero, uno splendore, un bagliore ultimo, perché tu, mio piccolo sole di quei luoghi, sei tramontato. Sei caduto oltre il bordo splendente del mondo. Ora devo fare la mia parte”.

Scrive racconti bellissimi, angosce illuminate da sollievi improvvisi, giornate infinite cariche di magia. Negli stessi anni cerca tra Francia e Svizzera una cura al suo male, trabocca di vita anche quando il corpo non tiene il passo. Si spegne per un’emorragia polmonare scatenata da una corsa su per le scale, nel gennaio del 1923.

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Ma andiamo con ordine. Se è vero che, come sottolinea Citati, la vita di Katherine Mansfield è “breve”, è ancora più vero che è tumultuosa, ricca, intensa. Katherine nasce a Wellington, in Nuova Zelanda, nel 1888. Il padre, Harold Beachamp, è un banchiere di successo e la madre Annie si dedica alla famiglia, sopportando però a fatica il carico emotivo della maternità. È significativo in questo senso il fatto che Annie Beauchamp – che avrà un rapporto conflittuale con la figlia – abbia fatto parte delle suffragette, rivendicando per le donne la possibilità di votare, e la Nuova Zelanda sarà proprio il primo stato al mondo a concedere questo diritto, nel 1893. Annie era uno spirito libero e aveva un grande desiderio di indipendenza che le convenzioni sociali del tempo non le hanno permesso di esprimere, ma che ha certamente influenzato la figlia. I coniugi Beachamp si recano spesso in Europa, lasciando i sei bambini alle cure dell’amata nonna materna, Grannie Dyer. Leslie sarà il sesto e ultimo figlio, e nonostante i sei anni che li separano, lui e Katherine saranno sempre uniti da un legame di speciale intimità. In una lettera a Sylvia Payne scritta nel 1908, prima della partenza per l’Inghilterra, Katherine parla addirittura dell’idea sua e di Leslie di vivere insieme: “Io e lui abbiamo intenzione di vivere insieme – più avanti. Non credevo che fosse possibile amare un bambino come io amo lui. Non ridere quando ti dico che mi sento così materna nei suoi confronti.”

Già nel 1898 Katherine pubblica i primi racconti sul giornale della scuola, e dal 1903 al 1906 frequenta il Queen’s College di Londra. Al ritorno in Nuova Zelanda sente l’immediato desiderio di ripartire, di tornare in Europa, dove si sente più libera e circondata da maggiori promesse e opportunità. Avrà il permesso di farlo due anni dopo, nel 1908, con una modesta rendita garantitale dalla famiglia. Saranno anni turbolenti, in cui si sposerà, resterà incinta ma perderà il bambino probabilmente spostando un mobile troppo pesante nella pensione in Bavaria dove si trovava. Il matrimonio durerà un paio d’anni, fino al suo incontro con il critico John Middleton Murry, che sposerà nel 1918 e sarà il suo compagno fino alla fine… amore sofferto (per Katherine) e assente, mai accanto a lei nei momenti più duri. La coppia si stabilisce a Londra, nella zona di St. John’s Wood. Nel febbraio del 1915 anche Leslie si trasferisce a Londra con l’Esercito Inglese, e in ottobre farà visita a Katherine per l’ultima volta. Katherine è sempre felice in compagnia del fratello, una felicità luminosa, un sollievo che arriva a scaldare i fondali delle radici. Una felicità che non prova con nessun altro. Leslie ritorna in Belgio e solo due settimane dopo questo ultimo incontro, perde la vita per un incidente durante una dimostrazione dell’uso di granate appreso nel suo soggiorno londinese. Per Katherine l’impatto del trauma ( e ricordo che la parola trauma significa etimologicamente ferita) sarà devastante, irreparabile, al punto che non si può leggere Katherine Mansfield senza conoscere il seme di dolore che sta alla base dei suoi racconti principali, il suo amore per Leslie e la lacerazione della sua scomparsa. A Londra Katherine conosce David e Frida Lawrence, e Virginia e Leonard Woolf, che pubblicheranno il suo Preludio nel 1918. Si tratta proprio di uno di quei racconti neozelandesi in cui Katherine rivive i luoghi dell’infanzia che lei stessa ha deciso di lasciarsi alle spalle, ma che lasciano in lei impressioni indelebili e che riverberano di una luce preziosa e carica di dolore dopo la morte di Leslie, quel “bagliore ultimo” che è la guida e il senso della sua ricerca letteraria.

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C’è un racconto breve del 1920, The Wind Blows, che in una prosa impetuosa come la tempesta che agita il mare, esprime la bellezza dell’amore fraterno, il suo siginificato per Katherine Mansfield. Mathilda è svegliata dal vento “suddenly – dreadfully”. L’atmosfera in casa è caotica, Mathilda è infastidita, vuole scappare e corre alla lezione di musica, nonostante la contrarietà della madre per via della tempesta. La lezione di musica sarebbe una parentesi piacevole se non fosse così breve, fugace, interrotta dall’allieva successiva che, sempre “suddenly”, arriva in anticipo. Allora Mathilda fugge di nuovo, torna a casa. Sola nella sua stanza, il vento le fa paura, ma ecco che arriva Bogey, il fratello, e insieme escono nella tempesta verso il mare. La bellezza di questo racconto sta proprio qui, nel passaggio dall’angoscia al sollievo, dal fastidio al piacere, dalla solitudine/frammentarietà alla vicinanza/unione, la simbiosi fra Mathilda e il fratello. A faccia china per ripararsi dal vento, camminano rapidi “like one eager person”, come una persona sola. La tempesta non fa più paura, quel senso di tensione e disagio è completamente scomparso, fratello e sorella attraversano il vento e sono felici, sono insieme, la tempesta è forte ma loro di più, sono inviolabili. Ecco, quel senso di gioia e di riparo dal mondo va irrimediabilmente perduto, resta un vuoto, un dolore che accompagnerà Katherine per il resto della vita e di cui troviamo l’eco lucente nei suoi racconti, il suo tesoro.

Rubina Valli

*In copertina: Katherine Mansfield e John Middleton Murry nel 1920

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