31 Gennaio 2021

“Non c’è una sola riga seria lì dentro…”. James Joyce & “Ulisse”, il libro impossibile

Edmund Wilson (1895-1972) fu il critico letterario più autorevole degli States: prodigioso pubblicista pensava – non a torto – che la letteratura forgia l’identità e la ‘missione’ di una nazione, di un popolo. Ammirava la ‘Bibliothèque de la Pléiade’ e fu l’autentico fondatore della mitica LOA, la Library of America (che cominciò le pubblicazioni, tuttavia, dopo la sua morte, nel 1979). La sua storia critica si fonda, di fatto, su tre libri: “Axel’s Castle” (1931), uno studio sul simbolismo e la “letteratura d’immaginazione”; “To the Finland Station” (1940) che racconta, invece, sotto lo spettro del socialismo, di come la scrittura “agisca nella Storia”; “Patriotic Gore” (1962), che si ferma sulla “letteratura della Guerra civile americana”. Si sposò quattro volte – una di queste con Mary McCarthy –, fece una corte clamorosa ad Anaïs Nin, malsopportava Tolkien. Nell’estate del 1922, su “The New Republic”, scrisse un vasto saggio intorno all’“Ulisse” di Joyce. Di fatto, fu il primo a lanciare JJ, pur con riserve, nell’empireo dei grandi di ogni tempo: nel suo romanzo scorge il crisma della ‘tradizione’ e la possibilità di sviluppi estetici fino ad allora inauditi. Il saggio è proposto nella traduzione di Andrea Bianchi.

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Il 16 giugno del 1904, Stephen Dedalus e Leopold Bloom vivevano entrambi a Dublino. Entrambi erano diversi dalla gente intorno a loro e camminavano isolati tra quelli perché ognuno di loro era, d’accordo con la sua capacità, un avventuriero intellettuale – Dedalus, il poeta e filosofo, con una mente piena di immagini meravigliose e speculazioni astruse e Bloom, il suadente pubblicitario, in un modo un po’ più rudimentale. La sera, Mr. Bloom e Dedalus furono coinvolti nello stesso party alcolico e Dedalus fu messo a terra dopo un litigio con un soldato inglese. Poi la loro rassomiglianza si fece evidente. Bloom sentiva come per vago rimpianto che Stephen era tutto quel che lui avrebbe voluto avere in suo figlio e Stephen, che disprezzava suo padre – un amabile buonannulla – trovò una sorta di padre spirituale in questo simpatico ebreo che, mediocre com’era, aveva per lo meno la dignità dell’intelligenza. Non erano entrambi fuorilegge nel loro ambiente a ragione del fatto che pensavano e immaginavano?

Esposto nei termini più piani possibile, questa è la storia di Ulisse – un aneddoto ironico e divertente senza morale filosofica. Nel descrivere il romanzo così quindi ho l’autorità dell’autore stesso che disse a Djuna Barnes, in un’intervista pubblicata su Vanity Fair: “Peccato per il pubblico se si attende di trovare una morale nel mio libro – o peggio, potrebbero prenderlo ancora più sul serio e, onore di gentiluomo, non vi è una sola riga seria lì dentro”. Quel che rende Ulisse imponente non è, infatti, il tema ma la scala su cui viene sviluppato. Sono serviti sette anni a Mr. Joyce per scriverlo e l’ha fatto in settecentotrenta pagine, che sono probabilmente le pagine più assolutamente “scritte” da Flaubert in poi. Non solo l’aneddoto è espanso fino alla sua forma più piena possibile – c’è un resoconto elaborato di quasi tutto vien fatto o pensato da Mr. Bloom dal mattino alla notte nel giorno in questione – ma avete sia il metodo “psicologico” che quello flaubertiano di rendere lo stile in linea con la cosa descritta, metodo portato diversi passi avanti più di quanto non sia stato fatto sinora, così che mentre in Flaubert avete banalmente le parole e le cadenze adattate con cura a suggerire uno specifico stato d’animo o un personaggio senza alcun tentativo di identificare la storia con il flusso di coscienza della persona descritta, e in Henry James la semplice esplorazione del flusso di coscienza con vocabolario e cadenza unici per tutto l’insieme di stati d’animo e personaggi, in Joyce non avete soltanto la vita descritta dall’esterno con virtuosità flaubertiana ma pure la consapevolezza che ogni personaggio e ogni suo stato d’animo sono messi a parlare in un idioma loro proprio, il linguaggio usato in riferimento al linguaggio. Se Flaubert insegnava a Maupassant come trovare l’aggettivo che avrebbe distinto una certa carrozza da tutte le altre carrozze al mondo, James Joyce ha stabilito che si deve trovare il dialetto che potrebbe distinguere i pensieri di un certo Dublinese da quelli di ogni altro Dublinese. Così abbiamo i pensieri di Mr. Bloom presentati in una rapida annotazione, come uno staccato che continuamente si dilegui verso tutte le direzioni in piccole idee dentro le idee con la flessibilità e la complessità di una mente allerta, rapida e leggera; quelli di Mrs. Bloom presentati come una lunga scarpa irlandese, con una prosa ritmica come il gonfiarsi dell’onda su qualche mare profondo; quelli di Padre Conmee in una prosa precisa, perfettamente incolore e ordinata; quelli di Stephen Dedalus in un caleidoscopio di immagini brillanti e frammenti di cose ricordate dalle letture; e quelli di Gerty-Nausicaa a metà tra i colloquialismi di ragazza e il linguaggio dei romanzi economici che hanno dato un colore alla sua mente. E queste voci sono adoperate per registrare tutti i vortici e i luoghi stagnanti di pensiero; nonostante eserciti una rigorosa selezione che fa del libro un trionfo tecnico, Mr. Joyce riesce a dare l’effetto di menti umane inedite, scorrendo senza sosta da una trivialità all’altra, confuso, cambiando il corso per effetto della memoria, della sensazione e dell’inibizione. È, in breve, forse la più credibile radiografia mai fatta della comune coscienza umana.

E come risultato di questa enorme scala e di questa microscopica fedeltà i personaggi principali di Ulisse acquistano proporzioni eroiche. Ognuno è una stanza, una casa, una città dove il lettore può muoversi. L’interno di ciascuno di loro è un romanzo di suo. Voi rimanete dentro un mondo infinitamente popolato da vita aggregata dall’esperienza. Stephen Dedalus, nel suo orgoglio fatto di disprezzo e derisione, solleva il sopracciglio come una sorta di Lucifero; il povero Bloom, coi suoi generosi impulsi e i suoi tentativi di comprendere e padroneggiare la vita, è il simbolo epico dell’uomo raziocinante, umiliato e ridicolo, pure in grado di districarsi con l’astuzia dagli spiriti che tentano di distruggerlo; e Mrs. Bloom, con la sua forza terrificante frammista di affetti amorosi e materni, con le sue radici nello sporco della terra e il suo gioioso fiorire in bellezza, è l’immagine gigantesca della terra stessa da cui sia Dedalus che Bloom sono sorti e che sembra essere il fondamento profondo dell’intero dramma come il tono base all’inizio dell’Oro del Reno. Non riesco a trovarmi d’accordo con Mr. Arnold Bennett quando dice che James Joyce “ha una pessima opinione dell’umanità”. Avverto che Mr. Bennett è stato scioccato per davvero perché Mr. Joyce ha detto tutta la verità. Fondamentalmente Ulisse non è per niente come Bouvard e Pecuchet (come certi hanno tentato di stabilire). Flaubert dice in effetti che tenterà di dimostrarvi che l’umanità è grama enumerando tutte le cose ignobili di cui questa sia capace. Ma Joyce, includendo tutte le cose ignobili, fa sì che le figure borghesi acquistino il comando della nostra simpatia e del nostro rispetto facendoci vedere in esse gli spasmi della mente umana che tende sempre a perpetuarsi e perfezionarsi e quelle del corpo che si affatica sempre e pulsa per scagliare una qualche bellezza fuori dalle sue tenebre.

Nondimeno, ci sono dei validi criticismi da avanzare contro Ulisse. Mi sembra grande più per le cose che contiene che non per com’è nel suo insieme. È quasi come se nell’estendere la storia dieci volte più lunga rispetto alla sua forma naturale lo scrittore fosse riuscito finalmente a farla schiantare lasciandola parzialmente sgonfiata. Ci dev’essere qualcosa di sbagliato in un design che coinvolge tanto di opaco – e dubito che ci sia qualcuno che voglia difendere parti di Ulisse dall’imputazione di estrema opacità. In primo luogo, evidentemente non è abbastanza aver inventato tre personaggi tremendi (con tanto di altri minori); per produrre un libro sostanzioso gli si deve far compiere qualcosa di interessante. Ora precisamente in cosa si suppone che consista l’interesse di Ulisse? Nella relazione spirituale tra Dedalus e Bloom? Ma ne vien fuori poco. Quando infine ci si rende conto che c’è un momento eminente, segue un ampio tratto di anticlimax. Questa sola situazione in se stessa potrebbe difficilmente giustificare la presentazione precedente di tutto quel che è successo a Bloom prima, lo stesso giorno. No, il tema principale del libro va cercato nel suo parallelo con l’Odissea: Bloom è una specie di moderno Ulisse – con Dedalo come Telemaco – e lo schema e le proporzioni del romanzo vanno fatti corrispondere a quelli dell’epica. Sono questi e non le necessità interne dell’argomento ad aver dettato le dimensioni e la forma di Ulisse. Trovate, per esempio, gli eventi della giornata di Mr. Bloom narrati per una lunghezza così incosciente e il resoconto delle avventure sincrone di Stephen confinati pressoché interamente nei primi tre capitoli perché solo i primi libri dell’Odissea trattano di Telemaco e quindi la prima metà del poema è dedicato ai vagabondaggi di Ulisse.

Dovete trovare un Ciclope, una Nausicaa, un Eolo, un Nestore e delle Sirene e la vostra giustificazione per una Penelope tutta d’un pezzo sta nel fatto che anche lei compare nell’Odissea. Chiaramente c’è un senso in tutto ciò perché le avventure di Ulisse erano francamente riconoscibili; rappresentano l’uomo ordinario in quasi tutte le sue relazioni comuni. Eppure non riesco a non sentire che Mr. Joyce ha commesso un errore nel far dipendere l’intero programma della sua storia dalla struttura dell’Odissea piuttosto che dalle esigenze naturali della situazione. Sento che nonostante il suo gusto per il simbolismo sia strettamente alleato con la sua straordinaria facoltà poetica nel caricare gli incidenti particolari di significato universale, nondimeno – siccome è il simbolismo senza casa di un Cattolico che ha rinunciato alla fede – a volte valica i confini dell’arte in direzione di un’arida ingenuità che servirebbe da corrispondenza mistica del dovere per ragione d’arte. Il risultato è che a volte si sente come se la brillante successione di episodi stessero svolgendosi alla periferia della ruota senza il suo mozzo. Il monologo di Mrs. Bloom, ad esempio, tremendo com’è, e benché nel suo rifiuto mentale di Blazes Boylan in favore di Stephen Dedalus contenga il più gran climax morale della storia, mi sembra perdere in forza drammatica per il fatto di rimanere appeso in modo stabile alla fine del libro. Quel che resta è niente di meno che lo spettacolo della terra che naturalmente fa nascere più alte forme di vita, la vendetta suprema di Bloom e Dedalus contro la brutalità e l’ignoranza che li circondano, ma dopo le sterilità e i motteggi dei capitoli precedenti e il generale cambio di direzione dell’interesse provocato dalla struttura odisseica, l’episodio manca della forza definitiva che gli avrebbe fornito una più stretta integrazione nel romanzo.

Queste sterilità e questi motteggi costituiscono il secondo tema della mia lamentela. Non contento di aver inventato nuovi idiomi per riprodurre le menti dei suoi personaggi, Mr. Joyce ha battuto sull’idea di comprimere la parodia letteraria nelle dimensioni di uno strumento per creare certi tipi di impressioni. Non è così male quando per rendere l’atmosfera dell’ufficio di un giornale semplicemente inframmezza il suo capitolo di titoli di giornale, ma quando insiste a descrivere la bevuta alcolica come una serie interminabile di imitazioni che si svolgono tramite prosa inglese dallo stile delle cronache anglosassoni sino a quello di Carlyle ci si sente sempre più a disagio. C’è qualcosa di sbagliato nel fatto che Mr. Joyce abbia tentato un genere impossibile. Non potete essere un romanziere realista nella vena particolare di Mr. Joyce e scrivere allo stesso tempo in modo burlesco. La Corona di Natale di Max Beerbohm è di successo perché Mr. Beerbohm racconta la storia dell’altro uomo nelle parole dell’altro uomo ma le parodie di Joyce sono elaborate e irritanti perché sta tentando di dire la sua propria storia nelle parole dell’altro uomo. Non ci interessa la sua abilità nell’imitare ma scoprire quel che succede ai suoi personaggi e la parodia interpone una pesante cortina tra noi e quelle. Ammesso che questa cosa sia fattibile con successo, Mr. Joyce sarebbe l’ultimo uomo in grado di farlo.

È stato elogiato per essere rabelaisiano ma sta dall’altra parte del mondo rispetto a Rabelais. In primo luogo non ha lo stile per farlo – non riesce mai a essere abbastanza sconsiderato e impetuoso con le parole. Il suo stile è sottile – con ciò non intendo dire che non sia forte ma che è come un sottile tubo metallico entro cui scorra la narrazione – un tubo di cui ogni giunto sia stato sistemato da un abile idraulico. Non potete gonfiare uno stile simile né sguazzarci dentro. Il temperamento nativo di Mr. Joyce e il metodo che naturalmente ha scelto non hanno spazio per la sovrabbondanza o per la fantasia stravagante, è il metodo di Flaubert – e di Turgenev e di Maupassant: stabilite con la più attenta accuratezza e con la più scrupolosa economia di dettaglio quel che è successo ai vostri personaggi, e dal modo in cui le cose sono raccontate – non dai commenti del narratore – il lettore trae semplicemente la sua inferenza ironica. In questo genere – che probabilmente ha portato la scrittura di romanzi alla più alta dignità artistica – Mr. Joyce ha da lungo tempo dimostrato di essere un maestro. E in Ulisse la maggior parte delle sue scene migliori aderiscono strettamente a questa formula. Nulla, per esempio, potrebbe esserci di meglio in questo genere che il modo in cui il lettore riesce a scoprire, senza un’aperta constatazione del fatto, che Bloom è diverso dai suoi vicini, o la scena dove ci vien fatto sentire che questa differenza è diventata un profondo antagonismo prima di culminare nell’aperto scoppio d’ira contro Bloom dei Ciclopi del Sinn Feiner. Il problema è che quest’ultimo episodio è continuamente sostenuto da lunghe parodie che interrompono il testo come una specie di commentario ironico. È come se Bolle di sapone fosse inzeppato da sezioni scritte da J.C. Squire – o piuttosto da un parodista le cui parodie fossero ancora più noiose di quelle di Mr. Squire. No: certamente Mr. Joyce ha fatto male a tentare di frapporre il burlesco sul realismo; ha scritto alcuni dei capitoli più illeggibili in tutta la storia del genere d’invenzione. (Se si facesse notare che il dono di Joyce per la fantasia è attestato dalla superba scena alcolica, rispondo che questa scena è di successo non perché sia un nonsense impetuoso ma perché è una registrazione accurata di stati mentali in preda all’alcol. Le visioni che rallegrano Bloom e Dedalus non sono come quelle di Alice nel paese delle meraviglie ma semplicemente le paure e i desideri repressi di queste due coscienze particolari esternate e rese visibili. Quel che il lettore vede non è un nuovo mondo fantastico con esseri nuovi e ancor più meravigliosi ma due uomini ubriachi perfettamente riconoscibili in uno squallido e tetro hotel nessuno spiacevole dettaglio del quale riesce a sfuggire al gran realista che lo descrive.)

Eppure, con tutte le sue scioccanti lungaggini, Ulisse è opera di alto genio. La sua importanza mi sembra consistere non tanto nelle porte nuove che apre alla conoscenza – fatta eccezione per l’esempio dato agli scrittori anglosassoni di scrivere tutto senza punteggiatura – o nell’inventare nuove forme letterarie – la formula di Joyce è realmente, come ho indicato, vecchia quasi di settantacinque anni – ché nello stabilire ancora una volta lo standard del romanzo così in alto questi non deve vergognarsi di prendere posto accanto alla poesia e al dramma. Ulisse ha l’effetto, tutto in una volta, di far sembrare senza gusto tutto il resto. Da quando l’ho letto, la tessitura di altri romanzieri mi sembra intollerabilmente instabile, sconnessa e sbadata; quando senza rendermene conto mi trovo davanti a una pagina che ho scritto io stesso, tremo come avessi sorpreso qualcosa di vergognoso. L’unica domanda è se ora Joyce scriverà un capolavoro tragico da affiancare a questo comico. Corre voce che non scriverà più – che sostenga di non aver più altro da dire – ed è vero che c’è un pallore in certe parti del suo lavoro a suggerire un’esperienza emotiva piuttosto limitata. La sua immaginazione è tutta nell’intensità; non ha che poca vitalità da trasmettere. I suoi personaggi minori, benché differenziati con cura, sono a volte differenziati in modo troppo asciutto, non animati a sufficienza dalla vita, e a volte ci dà l’impressione di puntellare la sua immagine con le annotazioni di un taccuino troppo zelante. Nei suoi punti peggiori richiama Flaubert al suo peggio, nell’Educazione sentimentale. Ma se ripete i vizi di Flaubert – come non pochi hanno fatto – ripete pure i suoi trionfi – e praticamente nessuno vi è riuscito. Chi altri ha dimostrato la suprema devozione e ottenuto la bellezza definitiva? Se ha per davvero riposto la sua penna per non riprenderla più in mano, deve sapere che la mano che l’ha poggiata sul finale di Mrs. Bloom, anche se non dovesse più scrivere altra parola, è già la mano del maestro.

Edmund Wilson

Gruppo MAGOG