17 Settembre 2019

“Joyce era un genio. Come Mussolini”. La verità sul caso Pound

I fatti sono semplici. Nel 1913 Ezra Pound diventa il segretario particolare di William Butler Yeats. In quel cottage immerso nel Sussex ‘Ez’ ispira l’ultima fase della lirica di Yeats: lo inoltra ai misteri del teatro giapponese Nō, gli spiega il ‘modernismo’, ne galvanizza la poesia austera, classica. Parlando di poesia – nel 1908, in una tipografia veneziana, Antonini, Pound si paga cento copie del suo primo libro di liriche, A Lume Spento, l’anno prima, nel 1912, pubblica Ripostes – “Yeats si ricordò di un giovane scrittore irlandese di nome James Joyce autore di alcune raffinate poesie liriche. A Yeats, una di queste era rimasta impressa. Joyce viveva a Trieste. Perché non scrivergli? Pound gli scrisse subito” (Forrest Read). Buon Natale James! Il 15 dicembre 1913 Pound scrive la prima di parecchie lettere a Joyce: “Gentile signore, Yeats mi ha parlato dei suoi scritti. Collaboro in maniera informale con un paio di riviste giovani e squattrinate…”. Due settimane dopo, il giorno di Santo Stefano, Pound si fa più esplicito: “Gentile Mr Joyce, Yeats ha appena trovato la sua «Odo un esercito» e siamo rimasti entrambi molto colpiti. Questa è una lettera d’affari da parte mia e di complimenti da parte sua. Le chiedo di autorizzarmi a usare la poesia nella mia antologia di imagisti…”. Da allora Pound diviene “l’infaticabile sostenitore” dell’opera di Joyce.

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Sostenitore nella visione letteraria di Pound – che si fa carico dell’intero ‘modernismo’, dell’intera letteratura anglofona del suo tempo – significa: trovare editori, scrivere saggi, difendere dai detrattori, procacciare denaro ai suoi. Nel 1916 a Harriet Monroe, fondatrice di “Poetry”, a cui ha spedito alcune poesie di Joyce: “Riesce a pagarlo subito?… Si tratta di uno scrittore da sostenere. E per via della guerra ha già perso il lavoro a Trieste (quest’ultima NON è una motivazione di carattere estetico)… È una vergogna che non abbia guadagnato nulla dai suoi libri fino ad ora”.

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Nel maggio 1918 su “The Future”: “A Portrait di Joyce è acquisito alla letteratura; per alcune persone è diventato quasi una Bibbia della prosa… Se per artisti come James Joyce il prezzo è troppo grave, è l’artista stesso che paga, e se veramente Armageddon ci ha insegnato qualcosa, dovrebbe averci insegnato a detestare le mezze verità, e coloro che le dicono in letteratura”. Proprio quell’anno, su ispirazione di Pound, “The Little Review” comincia a pubblicare, a puntate, l’Ulisse di Joyce. Si tratta di un evento. Il numero di marzo, vol. V, No. 11, firmato da Margaret Anderson e da Ezra Pound come Foreign Editor dedica l’apertura all’Episode I di Ulysses (“Stately, plump Buck Mulligan came from the stairhead, bearing a bowl of lather on wich a mirror and a razor lay crossed…”). In quel numero leggendario figurano anche le Imagery Letters di Wyndham Lewis, un saggio di Pound (The Classics “Escape”), un articolo di Ford Madox Ford. Si ha la percezione di ammirare l’antro vulcanico della letteratura ‘del futuro’.

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Nel 1920 la rivista, come si sa, è costretta a bloccare le pubblicazioni dell’Ulisse, sotto processo per oscenità. L’episodio ‘incriminato’ è il tredicesimo, “Nausicaa”. Pound restò letteralmente stordito da “Ciclopi”. Così ne scrive a John Quinn: “L’ultimo capitolo ms. di Joyce forse la cosa migliore che ha fatto… Parodia degli stili, un espediente preso in prestito da Rabelais, ma mai fatto meglio… Il nostro James è un grrrand’uomo”. Nel giugno del 1922 Pound ‘lancia’ l’Ulisse con un lungo saggio su “The Dial”, dall’incipit roboante, “Tutti gli uomini dovrebbero ‘unirsi a lodare Ulysses’; coloro che non lo faranno, potranno accontentarsi di un posto negli ordini intellettuali inferiori”.

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Anche quando i grandi facevano fatica a scorgere la grandezza di Ulisse – a Virginia Woolf quelle sconcezze shakespeariane non garbavano, per fortuna T.S. Eliot, che s’apprestava a diventare il gran chierico della letteratura anglofona, benediva il ‘metodo mitico’ di JJ – Pound lavorava osannando Joyce. Questi sono i fatti. Nitidi, semplici, banali. Alla luce dei fatti, mi sembra, così, un poco fuorviante l’introduzione di Enrico Terrinoni – straordinario traduttore del Finnegans Wake per Mondadori, insieme a Fabio Pedone – alle Lettere a James Joyce di Pound, libro invero bellissimo, edito da il Saggiatore. Fin da subito, Terrinoni butta il sodalizio tra Pound-Joyce in politica, sbilanciando la natura del loro rapporto intellettuale (“Se un redivivo Joyce avesse fatto una passeggiata, di recente, per le vie di Bologna, avrebbe sorriso come ho sorriso io nel leggere una curiosa scritta su un muro, simile a quella del Libro di Daniele ma assai meno misterica: «+ CASE – POUND»”, proseguendo, “Joyce da tempo era scettico anche riguardo alle posizioni politiche di Pound, come a quelle di Wyndham Lewis d’altro canto, al punto che, sempre nelle lettere private, li accostò entrambi non soltanto a Mussolini, ma anche a Hitler”). Pur sottolineando che “Joyce stimava Pound, gli doveva molto, quasi tutto”, di fatto l’intro di Terrinoni fa l’effetto di una pernacchia a Pound – accusato di essere fascista e di non aver capito Finngans Wake – e di una medaglia a Joyce, più lungimirante in campo politico. Ciò che scrive Terrinoni è vero, buono, giusto: ma… perché tirare sempre in ballo i fervori politici di Pound? Perché l’ansia costante di stare dalla parte dei buoni, per non essere appestati dal virus poundiano?

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Agli esagitati non va giù il discorso di Pound In memoria di James Joyce pronunciato nel 1941 alla radio italiana. “Con Gente di Dublino e il Ritratto e Ulisse, la posizione di Joyce è sicura. E Ulisse primeggia tra i «grandi romanzi». Dall’Asino d’oro fino a Gargantua, Don Chisciotte, Bouvard e Pécuchet”, dice Pound. Poi, accennando al ‘genio’ di Joyce fa una sterzata micidiale: “Come scrittore mi sono dato a tutti e a nessuno. In quanto critico ho osservato per 30 anni uomini dotati d’insolito genio, senza limitare il mio campo d’osservazione solo agli scrittori. Il genio può esistere in ogni tipo di attività. Quanto al genio di Mussolini e di Hitler non sono io il solo a osservarlo”. Joyce un genio quanto Hitler e Mussolini: come è possibile? Cerchiamo di moderare l’estro ideologico. S’intende genio per carattere naturale, energia primigenia. Indubbiamente Mussolini e Hitler sono geniali (a differenza di Stalin, che si colloca all’interno di una sequela dell’idea). Allo stesso tempo, siamo certi che siano geni malvagi, ma cosa importa in questo contesto? Le stramberie di Pound sono usate per lapidarlo 47 anni dopo la sua morte. Piuttosto, immagino quelli che ascoltavano la radio, la voce terrosa del poeta che si dilunga in una disanima letteraria intorno a Joyce e all’Ulisse, con quell’augurio, memorabile, “In breve, questo romanzo non venne scritto per privare la gente della voglia di vivere. E Joyce non aveva tale abitudine nemmeno in privato, quando non aveva la chiesa tra i piedi. Possa il suo spirito incontrarsi con quello di Rabelais a Chinon e possano i bicchieri non essere mai vuoti. Era un grande scrittore, e aveva anche una bella voce da tenore, fatta per cantare Blarney Castle me darlint, o la Frau in Amsterdam, e fino a una certa età riusciva a far vibrare il lampadario come una ragazzina”.

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Secondo me, nessuno ha onorato il genio di Joyce con tale ardore e tale lungimiranza (per altro, salvando dall’incomprensione pure “Finnegans”, benché non lo capisse: “Un uomo che ha scritto tre capolavori ha diritto alla sperimentazione”). E poi, non bisogna dimenticare che per Pound l’opera è Storia e il poeta è uno che opera nella Storia – per questo genio può essere un poeta come un dittatore, conta l’individualità, cocktail tra Emerson e Carlyle. Cambierà opinione – o quasi – dopo i lustri in carcere, che lo raffinano nel silenzio.

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Va detta una cosa, visto che la buttiamo sempre in politica parlando di Pound. Nel 1941 “Pound si prepara a tornare in America. Il suo paese non è ancora in guerra, tuttavia al consolato americano a Roma gli viene limitata la validità del passaporto ed egli viene definito ‘uno pseudoamericano’. Interrompe i discorsi alla radio italiana quando l’America entra ufficialmente in guerra (Pearl Harbor, 7 dicembre 1941). Essendo stato ostacolato, a lui e alla sua famiglia, il rimpatrio sull’ultimo convoglio diplomatico, resta in Italia e riprende i suoi discorsi alla radio, stabilendo il principio che ‘libertà di parola, senza libertà di parola alla radio, equivale a zero’” (così la Cronologia nel ‘Meridiano’ Mondadori poundiano a cura di Mary de Rachewiltz). Nel 1941 Pound, che potrà essere un idiota politico, un lirico cretino, vuole tornare in patria – e la patria glielo impedisce. Il resto è noto. Se la testimonianza della figlia di Pound vi pare partigiana, ecco quanto scrive Piero Sanavio (quello che ha studiato i Cantos prima di tutti, che ha fatto visita a Pound al manicomio criminale di Washington e capì che il poeta “di politica non capiva nulla”) nell’introduzione ai Radiodiscorsi editi dalle Edizioni del Girasole (Ravenna, 1998). “La collaborazione di Pound con la radio fascista iniziò prima che gli Stati Uniti entrassero in guerra. Continuò dopo l’attacco di Pearl Harbour, a conseguenza del rifiuto, da parte di un’autorità consolare americana a Roma di concedergli il visto per ritornare in patria. Pound aveva già in tasca i biglietti per un passaggio nell’ultimo convoglio diplomatico che il governo americano aveva messo a disposizione dei cittadini che intendessero rimpatriare. Messo in condizioni, da un rappresentante del suo paese, di restare in territorio nemico per la durata della guerra, Pound dopo qualche esitazione riprese le trasmissioni da Radio Roma”.

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Il tassello centrale di questa storia bastarda è l’articolo, che fa storia, di Richard H. Rovere, The Question of Ezra Pound, pubblicato il primo settembre del 1957 su “Esquire”. “Il governo, se lo desiderasse, potrebbe agire non solo per ragioni di giustizia, ma di generosità. Invece, è restato a guardare mentre personaggi piuttosto laidi, inviati in Germania, Italia e Giappone, veri criminali di guerra, ora godono di grande rispetto. L’identità criminale di Pound è tanto irrisoria per la storia quanto è grande la sua poesia”. Lo zenit toccato da Rovere – “ancora nel 1942 il poeta tentò di imbarcarsi sull’ultimo treno diplomatico che avrebbe portato i cittadini americani da Roma verso Lisbona. Gli fu impedito. Non gli restò che restare a Rapallo” – porta alla fatale domande, che da Rovere passa a Sanavio, “Se Pound fu messo nelle condizioni di non poter rimpatriare dalle autorità del suo paese, l’arresto e l’accusa di tradimento erano costituzionali?”. Come si sa, il governo, di fronte all’inchiesta di Rovere, tirò fuori l’abito buono e rilasciò Pound, nell’aprile del 1958.

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Che palle, anche quando si parla di letteratura, con Pound, si finisce sempre a sprecarsi in vaniloqui politici. (d.b.)

*In copertina: James Joyce con il nipote, Stephen James, nel 1934

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