05 Novembre 2019

“Che ci faccio qui? Vengo a essere terribile”: Joker lo ha inventato Victor Hugo

Le immagini di Conrad Veidt che interpreta Gwynplaine, con il viso deformato dal riso, pittato di bianco, come un clown, sono impressionanti per forza profetica. Veidt è stato attore fenomenale: ha recitato ne Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene, in Satana di Murnau, pure in Casablanca. Nel 1928 è il protagonista de L’uomo che ride, il film muto di Paul Leni, ed è lui il prototipo di Joker.

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L’uomo che ride è un romanzo di Victor Hugo: pubblicato da Albert Lacroix nel 1869, 150 anni fa, negli anni dell’esilio, a Guernesey, politicamente infelici ma artisticamente decisivi (I miserabili escono nel 1862, I lavoratori del mare nel 1866). Il romanzo ha una velocità cinematografica inesorabile (in effetti, sono svariate le rese filmiche del libro, l’ultima nel 2012, con Gérard Depardieu ed Emmanuelle Seigner), ed è straordinario, fatte sparire le mastodontiche parentesi moraleggianti di Hugo. “Rimbaud parlava dei Miserabili come di un ‘vero poema’. Amava anche L’uomo che rideL’uomo che ride è il più nero dei romanzi neri, e ciò in un senso che supera ampiamente il significato ‘gotico’ del termine”, scrive Jean Gaudon nell’edizione Mondadori del libro, per la traduzione di Donata Feroldi. Certamente, questo è un romanzo eccessivo scritto per dire l’eccedenza, il mostro.

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Gwynplaine, “l’uomo che ride”, il mostro, è equivalente a Joker nell’aspetto, opposto nel sentimento. “La natura era stata prodiga di favori con Gwynplaine. Gli aveva dato una bocca che gli arrivava alle orecchie, due orecchie che si piegavano fin sopra gli occhi, un naso deforme… Gwynplaine era un saltimbanco… Era ridendo che Gwynplaine faceva ridere… il riso di Gwynplaine era eterno… I suoi capelli erano stati tinti di ocra” (all’ocra va sostituito il verde e ci siamo, la maschera è la stessa). Per certi versi, il personaggio di Victor Hugo è simile al Joker interpretato da Joaquin Phoenix: entrambi sono degli scarti della società, degli umiliati. Gwynplaine è un bimbo abbandonato a rapito dai comprachicos, “compra-creature”, che “facevano commercio di bambini. Li compravano e li vendevano… e che ne facevano di questi bambini? Dei mostri. Perché? per ridere. Il popolo ha bisogno di ridere, i re anche. Ai crocicchi ci vuole il guitto; nelle regge ci vuole il buffone”. Questo è l’obbiettivo ‘sociale’ di Hugo: mettere gli occhi nella tratta dei bambini. Bambini deformati. Usati come clown. Venduti per rabbonire le voglie dei ricchi. A Gwynplaine, fin da infante, hanno forzato il sorriso, perché sorridesse per sempre, pur trapiantato nel soffrire.

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C’è un’altra affinità nella trama legittima. Nel film di Todd Phillips si suggerisce che – pur per delirio onirico – Joker/Arthur Fleck sia il figlio di Thomas Wayne, il plurimiliardario, il re della città, scaricato alla periferia del vivere. Allo stesso modo, Gwynplaine, cacciato a dieci anni dai rubabambini (“Il bambino rimase immobile sullo scoglio, con lo sguardo fisso. Non chiamò. Non implorò… Si sarebbe detto che capiva. Come? Cosa capiva? L’ombra”), si scopre essere il figlio di un pari d’Inghilterra.

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Hugo, con sottile avvenenza stilistica, spinge sulla perversione. L’azione del romanzo mostra il ‘mostro’ a 25 anni. Una ricca, seducente nobildonna vuole copulare con l’orrore. Il capitolo Eva è un esercizio barocco nell’ambito del conturbante. “Una donna nuda è una donna armata… Era una prostituta? Era una vergine? Tutt’e due. Da quella bellezza sprigionava il bagliore dell’inaccessibile”. L’amore per l’efferatezza, l’eros degli inferi, è filosofeggiato da Hugo, che così fa dire alla bella: “Vicino a te mi sento degradata, che gioia!… Decadere è riposante. Sono così satura di rispetto che ho bisogno di disprezzo… Ti amo non solo perché sei deforme, ma perché sei abietto. Amo il mostro e amo l’istrione. Un amante umiliato, schernito, grottesco, orribile, esposto alle risa su quella gogna chiamata teatro, tutto questo ha un gusto straordinario. È come addentare il frutto dell’abisso. Un amante infamante, che cosa squisita”.

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Conrad Veidt nel film di Paul Leni, “L’uomo che ride” (1928)

Tuttavia, “l’uomo che ride” – e di cui tutti ridono, ridendo, in realtà, della propria abitudine alla crudeltà, della propria intima mostruosità – non rivolge in rabbia l’ansia. Condotto dall’amore per Dea, una ragazza cieca che ha raccolta, neonata, da una madre morta di stenti, Gwynplaine, il Joker di Victor Hugo, non diventa criminale. Non uccide – si uccide, semmai. Quando accede alla Camera dei Lord, però, Gwynplaine s’accende al verbo, dice tutto ciò che intende il Joker di Joaquin: “Che ci faccio qui? Vengo a essere terribile. Sono un mostro, voi dite. No, sono il popolo. Sono un’eccezione? No, sono come chiunque. L’eccezione siete voi. Voi siete la chimera, io sono la realtà. Io sono l’Uomo. Sono lo spaventoso Uomo che Ride. Ride di cosa? Di voi. Di se stesso. Di tutto. Cos’è il suo riso? Il vostro delitto e il suo supplizio. Io rido, che vuol dire: io piango… Questo riso esprime la desolazione universale. Questo riso significa odio, silenzio forzato, rabbia, disperazione. Questo riso è il frutto delle torture… Io rappresento l’umanità così come l’hanno fatta i suoi padroni. L’uomo è mutilato. Quello che hanno fatto a me, l’hanno fatto al genere umano”. Nonostante la retorica titanica (“Tremate. Si avvicinano soluzioni incorruttibili, le unghie tagliate ricrescono, le lingue strappate prendono il volo e diventano lingue di fuoco sparse al vento nelle tenebre e urlano nell’infinito; gli affamati mostrano i loro denti inattivi, i paradisi costruiti sugli inferi vacillano, si soffre, si soffre, si soffre, e ciò che è in alto tentenna e ciò che è in basso si schiude…”), Gwynplaine è sommerso dalle risa dei Lord, dall’infamia – e si perde, perdendo tutto, in una cupezza totale. Le sue parole, raccolte 150 anni dopo da Joker, però, danno avvio alla rivalsa. (d.b.)

*In copertina: Joaquin Phoenix nel “Joker” di Todd Phillips

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