01 Agosto 2020

Il giorno in cui John Lennon fu ucciso dal Giovane Holden. Mark David Chapman, la “famiglia” Manson, gli Ufo, l’FBI, il destino beffardo e una discografia immortale

Mark David Chapman

Mettetevi comodi. Questa è una storia di destino e mistero. Un romanzo nel romanzo. Una trama intessuta nelle sincronie. Questo è un plot che parte presentandovi subito il cattivo. Un ragazzo introverso, sovrappeso, occhialuto, depresso, un ragazzo che aiutava i rifugiati vietnamiti o i bambini scout o i libanesi (in Libano). Che prende droghe a chili. Che ci finisce pure in prigione. Che perde il lavoro, che improvvisamente sprofonda negli abissi della depressione, lascia la ragazza, va alle Hawaii. Che tenta il suicidio. Che suonava la chitarra, componeva canzoni. Che era innamorato dei Beatles. Che però da quei Beatles rimane deluso, lui fervente cattolico, quando il leader, John Lennon, nel marzo del 1966 disse che ormai il gruppo di Liverpool era più famoso di Gesù. Gesù mio! Come ha osato? Soprattutto, un giovane non più giovane che rimane folgorato dalla lettura del romanzo di JD Salinger “The Catcher in The Rye” (Il Giovane Holden). Perché, lì sopra, c’è tutto quello che non va nel mondo degli umani; il regno degli ipocriti. Che lo fa sentire così disilluso, così arrabbiato, così insoddisfatto.

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From Holden Caulfield to Holden Caulfield

Chapman aspetta tutto il giorno, l’8 dicembre 1980, di fronte al Dakota Building. John e Yoko erano tornati sulla scena musicale con un nuovo album. “Double Fantasy”, una perla variopinta di generi, aveva fatto storcere il naso à la crème del gusto musicale: oh my God tutte queste smancerie per Yoko. Il tema del disco era John che amava Yoko, Yoko che amava John e il figlio Sean, John che amava il figlio Sean e Yoko. Il singolo, “Starting Over”, un pop/bebop anni ’50, sembrava sfornato dall’ultima fatica di John del 1975, “Rock’ N’ Roll”, con le sue cover dei mostri sacri del rock iniziatico di quegli anni. Chapman passeggia, guarda il portiere del building con occhio forse indifferente; lo sa che è un esule cubano anti-castrista? Chapman ha con sé una copia di “Catcher in The Rye”, Chapman l’ha vergato con questa frase: This is my statement, firmato Holden Caulfield. Durante il processo per l’assassinio di John, agli inquirenti avrebbe detto: “Vedete, tutto questa cosa fra me, il libro, Lennon, va molto al di là dell’essere colpevole o non colpevole, e se leggeste il libro e mi conosceste, allora capireste davvero”. Come dargli torto?

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Watching The Wheels

Nel romanzo di Salinger, Holden Caulfield, vissuto in provincia fino allora, va a passare un week end a New York. È disgustato dall’ipocrisia del mondo, adora soltanto l’innocenza dei bambini. Nella grande Mela, Holden passa da un luogo all’altro in preda alla disperazione. Infastidisce un tassista chiedendogli dove se ne vanno le papere di Central Park in inverno. Alloggia in una stanzetta di un hotel da quattro soldi, dove viene disturbato dai rumori della strada, del pianerottolo.   Va a prostitute, due, senza farci sesso e, prima di rimandarle via, le paga il doppio della tariffa concordata. Chapman, nel suo week-end dell’assassinio di Lennon, fa esattamente le stesse cose. Il destino all’opera, avrebbe detto. Chapman se ne va anche a Central Park, come Caulfield, a guardare la giostra girare; ma, a differenza del protagonista immaginario, non trova nessun sollievo in quel vortice colorato e caotico. Il destino, che è un mago, il suo gioco lo fa a tre. Leggete i versi di “Watching The Wheels” che Lennon compose per “Double Fantasy”: I’m just sitting here watching the wheels go round and round/I really love to watch them roll/No longer riding on the Merry Go Round/I just had to lei it go. (Seduto qui senz’altro da fare che guardare la ruota che gira e gira/ mi piace davvero farlo/ Sulla giostra non ci salgo più/ ho semplicemente dovuto mollare) “Non so cos’è successo – dice Chapman agli inquirenti – ho lasciato il lavoro, comprato una pistola, preso un aereo per andare ad ammazzare qualcuno… Ecco che è successo. Col paradiso e l’inferno nella mia testa”. Charles Mc Gowan, pastore della chiesa di Chapman a Decatur, Georgia, non ha dubbi: “Credo ci sia stata una forza demoniaca in azione”.

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Ufo in the sky with diamonds

Nel 1974, sul magazine Andy Warhol’s Interview, John dice: “Stavo nudo sdraiato sul letto quando ho avvertito questa urgenza… quindi sono andato alla finestra, con la mia mente nel solito stato onirico poetico, e lì, appena ho guardato in alto, c’era questa cosa, che stazionava sul palazzo accanto a non più di 100 metri di distanza, le sue luci come lampadine intermittenti che ruotavano attorno alla base e una luce rossa fissa in cima”. John era in una fase di separazione con Yoko, e si sentiva molto lucido. Allora chiamò May Pang, la sua frequentazione del momento, che accorse in terrazzo accanto a lui: “Appena uscita in terrazzo ho scorto questo oggetto grande e circolare – dice May – che si avvicinava. Aveva la forma di cono appiattito, e in cima aveva questa luce enorme rossa e brillante, non pulsava come quelle degli aerei che si vedono in direzione dell’aeroporto di Newark. Quando si avvicinò ancora, distinguemmo una striscia continua e circolare di luci bianche che avvolgeva l’intero bordo dell’astronave. E queste erano intermittenti. Ce n’erano così tante di queste luci che ti davano alla testa”. Allora presero la macchina fotografica e scattarono una serie di foto che, però, in fase di sviluppo uscirono tutte nere. La polizia disse loro che avevano ricevuto altre chiamate con la stessa segnalazione. Sul singolo “Nobody Told Me” inserito su “Milk and Honey” del 1984 (e su “Working Class Hero. The Definitive Collection”). John canta: There’s Ufo’s over New York, and I ain’t too surprised (Ci sono Ufo su New York e non sono così sorpreso). Nemmeno noi.

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La maledizione del Dakota

Central Park West. 1968. Roman Polanski inizia le riprese del suo film più ‘maledetto’: Rosemary’s Baby. L’attrice protagonista è una giovanissima Mia Farrow che insieme a suo marito John Cassavetes va ad abitare proprio nel Dakota Building. Peccato che il marito faccia parte di una setta satanica segreta che cospirerà contro di lei per farle partorire, riuscendoci, il figlio del demonio. La costruzione si presta ad atmosfere mefitiche. Fra arcate a guglie neogotiche sembra di entrare in una dimensione spirituale tardo settecentesca. Si dice… si dice sia costruito su un cimitero indiano (da qui il nome). C’è un comitato di inquilini donor che stabilisce chi possa o meno abitarci. Nel tempo sono state rifiutate le candidature di gente come Madonna, Antonio Banderas, Billy Joel, Melanie Griffith. Ha accolto invece Paul Simon, Bono, Lauren Bacall e, of course, Bela Lugosi, il Dracula di Todd Browning e Carl Freud del 1931, il vampiro per antonomasia. Oggi nessuno può più girarci film. Yoko disse che dopo la morte di John lo vide apparire seduto a gambe incrociate; le portava un messaggio: lui era ancora lì con lei. Anche John, in vita, testimoniò la presenza di una donna fantasma che si aggirava per i corridoi del suo appartamento. Chissà se Mark David Chapman le sapeva queste cose mentre passeggiava avanti e indietro davanti al portone, quando incrociò la domestica di casa Lennon con Sean di cinque anni per mano. Stavano rientrando a casa e lui si avvicinò e scapigliò la testa del piccolo futuro autore di album trascurabilissimi, marchiato dal segno della bestia di indegno figlio d’arte che era e sarebbe stato. (Da non confondere con Julian, figlio di John e della sua prima moglie Cynthia e splendido autore di quel piccolo capolavoro che fu “Too Late For Goodbyes”)

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I file di Hoover

Ancora più indietro. 1972. John e Yoko vanno in tour a promuovere l’album “Imagine” e sfornano il singolo “Give Peace a Chance”. Il brano diventa immediatamente un inno generazionale. Di quelli che si cantano durante le manifestazioni contro la guerra in Vietnam. Ma c’è di più. John è attenzionato da J Edgar Hoover, il temibilissimo capo dell’FBI. Motivo? Avrebbe finanziato un gruppo estremista di sinistra (A New Radical Left Group) con 75mila dollari. Il gruppo avrebbe avuto intenzione di interrompere il Congresso del Partito Repubblicano così come avevano tentato di interrompere, in parte riuscendoci, quello del partito Democratico del 1968 a Chicago. Hoover era chiarissimo: Lennon è contro la guerra. Lennon vuole impedire la rielezione di Nixon. Lennon vuole portare i giovani dalla sua parte. Sarebbe stata la prima elezione nella storia americana in cui votavano pure i 18enni. Lennon ha le possibilità e il consenso per poterlo fare. Lennon è finanziato da qualche potenza straniera? Nixon decide: togliamogli la cittadinanza americana, rispediamo questo inglesino in Inghilterra dove ha già una condanna per possesso di “droghe pericolose”. Lennon è un trotskista, un comunista, un pacifista. Lennon è seguito, pedinato, scrutato, Hoover gli fa sentire il fiato sul collo: io ti stano brutto figlio di puttana. Tu canta le tue canzoncine nenie Peace & love e io ti sbatto fuori a calci in culo a te e la tua mogliettina gialla. La miccia che accese l’incendio diplomatico? Il concerto di Ann Arbor, Michigan, del dicembre 1971.

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Give Peace a Chance

John è amico di Jerry Rubin. Per l’establishment, Jerry Rubin è l’incarnazione del male pacifista che appesta la gioventù americana di quegli anni. Jerry sale sui palchi dove predica vestito da mago, la barba lunga e i capelli ricci voluminosi, la mantella. Fa il pugno chiuso, distribuisce il suo giornaletto propagandistico. Il suo gruppo politico si chiama Yippie ma non c’entra un cavolo con gli Hippie. Era un acronimo per Youth International Party. Ce l’aveva col capitalismo, col cristianesimo, con il consumismo, con le guerre per mantenere the Economy, con la E pronunciata aperta, sguaiata, oziosa. Jerry era la versione minimal intellectual di Charles Manson. Jerry chiese i soldi a John? Al concerto di Ann Arbor messo su da lui e Bob Seale partecipano 15 mila persone. Era stato organizzato per chiedere la scarcerazione di John Sinclair, poeta e scrittore, attivista radicale, accusato di possesso di Marijuana e condannato a dieci anni. Il parterre era da inchino. John & Yoko, Stevie Wonder, Phil Ocs, Bob Seger fra i musicisti; Allen Ginsberg fra i poeti, Ed Sanders (autore di quel gran libro sulla famiglia di Manson chiamato “The Family” e ripubblicato da poco da Feltrinelli). Il successo fu tale, soprattutto per John & Yoko, che lì Hoover drizzò le orecchie. Fermarli, fermarli subito prima che sia troppo tardi. “Give Peace a Chance” cantavano, sì, date una possibilità alla pace, e intanto Nixon fiutava il pericolo per la sua rielezione. E preparò l’atto di espulsione del baronetto rosso dei suoi stivali. Il Watergate giunse come una manna dal cielo. Le dimissioni di Nixon e l’ascesa alla Casa Bianca di Gerald Ford bloccarono il processo di espulsione e a John venne data la carta verde nel 1974. Qualcuno si è chiesto se negli alti ranghi (nel Deep State come si dice oggi) questa sconfitta non abbia bruciato, e se non gridasse vendetta, lenta (e tremenda) vendetta.

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Sei album per ribadire: i Beatles ero io. John Lennon Plastic/Ono Band  (1970)

Con tutto il rispetto per gli altri stimati tre di Liverpool. Scorriamo un attimo la discografia di John solista. (Tutta rigidamente per la Apple record; domanda: ma la Apple non potrebbe riaprire la sua etichetta?) Togliamo i tre esperimenti del 1968/69 e 1970, cioè i due “Unfinished” e il “Wedding Album”. Partiamo dal primo vero studio album; “John Lennon Plastic/Ono Band” (1970). Si comincia con le campane a morto di “Mother” che strugge come una musica delle sfere al contrario e si finisce con “My Mummy’s Dead”, una viaggio nella mater (Father You Left Me/ But I Never Left You), nella terra che ci feconda e nel figlio che soffre per la venuta al mondo involontaria (“Love”, “Isolation”, “God”…) L’urlo che risuona nelle mie orecchie per tutto il disco: Mama don’t go/ Daddy come home. Ricordo il primo giorno di scuola elementare, piansi sulle scale perché non volevo staccarmi da mia madre. Nelle mie lacrime c’era già tutto il non senso di questo struggimento fisico mentale dell’essere. John lo canta in questo sontuoso album, inno allo strazio. Ci sono già i cinguettii per Yoko (“Hold On”), le dichiarazioni d’amore proletario (“Working Class hero”, lui poteva farlo, veniva dalla piccola borghesia, da una città operaia, sì lui poteva farlo, i fighettini di oggi che supportano Black Lives Matter non possono farlo, no). Si passa per un jazzaccio come “Remember” e si approda a un rockblues rugginoso, “Well Well Well”, si sdolcineggia con la sublime “Look At me”. Si finisce pensando, questi sono i Beatles senza l’assillo del successo per forza. Ma in “God” lui dice: I don’t Believe in Beatles/ I Believe in me and Yoko/ The Dream is Over. Ma no, il sogno non è finito, John, è appena ricominciato.

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Mother (interludio per comprendere questo primo grandioso album, o almeno provarci)

Tutta colpa di zia Mimi. Una delle quattro sorella di Julia, la mamma di John. Erano altri tempi si dirà, l’Inghilterra era più puritana, si era in guerra, la seconda mondiale. Le bombe di Hitler su Londra. I ragazzi mandati a morire al fronte. I nazi-fascisti che volevano far diventare nera l’Europa intera. E però… Julia, ragazza istintiva, sensibile, di grande talento artistico, incontrò Alf Lennon; Alf faceva il marinaio e non era ben visto da papà Pop ma lei, come tutte le ragazze testarde e innamorate, ci si continuò a vedere fino a ché lo sposò in gran segreto e ne rimase incinta. E nacque John. John nacque il 9 ottobre del 1940. Ma Alf che teneva al suo lavoro si rimbarcò e lasciò sola Julia, e papà Pop s’incazzò e lo maledì e lo bandì dalla famiglia. E a quel punto entra gioco Mimì. Una stronza, diremmo oggi. Una che, supportata dal padre, si arrogò il diritto di decidere se la sorella più piccola avesse le capacità di crescere il piccolo John da sola. Decise di no. E glielo tolse. Letteralmente, come farebbe un’assistente sociale infame e cinica. Poi Alf tornò e non trovò più John e allora se lo andò a riprendere da Mimì con uno stratagemma. E lo portò da suo fratello a Blackburn ma a quel punto Julia e il nuovo compagno se lo andarono a riprendere (orrore, disse Mimì; incapace di tenere il figlio e pure adultera e peccatrice!). Erano passati intanto 4 anni, John, sballottato a destra e a manca, si trovò di fronte alla decisione peggiore: vuoi stare con papà o con mamma? Con papà, disse. Julia, sbigottita e incredula, si avviò verso la porta ma John a quel punto scese dalle ginocchia del padre e richiamò la madre e disse no, voglio stare con te. Ma non era finita. Tornata a Liverpool, Mimì tornò alla carica, spalleggiata dal padre. La sorella non solo non era in grado di crescere il figlio ma il figlio non poteva vivere in una casa con una coppia adultera, (Julia e il nuovo compagno, Bobby) e, di nuovo, le sottrasse il bambino. E questa volta in via definitiva. Tanto è vero che solo dall’età di 13 anni John poté rivedere la madre con assiduità perché ormai era grande e aveva trovato il modo per svignarsela dalla casa di Mimì e andare da Julia che da Penny Lane si era trasferita in una nuova abitazione più grande. Penny Lane, vi ricorda qualcosa? Julia morì quattro anni dopo messa sotto da un’automobile. John aveva 17 anni.

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Imagine (1971)

Piccola lezione per i giornalisti di sinistra che hanno attaccato Susanna Ceccardi, candidata della Lega Nord alla presidenza della regione Toscana: ha ragione lei, “Imagine” è una canzone marxista, lo svela proprio John in una intervista. “È un testo anti-religioso, anti-nazionalista, anti-convenzionale e anti-capitalista, e viene accettato solo perché è coperto di zucchero”. E ancora: “Imagine… è virtualmente il Manifesto comunista, anche se non sono particolarmente comunista e non appartengo a nessun movimento… Non esiste un vero stato comunista al mondo; devi rendertene conto. Il socialismo di cui parlo… (non è) il modo in cui qualche scemo russo potrebbe farlo, o potrebbero farlo i cinesi. Questo potrebbe adattarsi a loro. Noi, dovremmo avere un bel… socialismo britannico”. Ecco, nel 1971, quando uscì, certe cose si potevano dire solo camuffandole. Il pacifismo era una copertura del marxismo (che pacifista non è mai stato). Così come oggi l’antirazzismo cela il marxismo (che in realtà è una ideologia profondamente razzista). Proprio su “Imagine” e sulla svolta politica di Lennon, in quegli anni avvennero le frizioni con Paul Mc Cartney. Ma “Imagine”, canzone simbolo di un secolo forse, è il bell’anatroccolo di questo straordinario album: “Crippled Inside”, il quasi country rock d’apertura ci introduce a tutto un percorso di generi variegati che sarà la cifra stilistica di ogni album di John. Che dire di “Jealous Guy”? E di “Oh My Love”? (Dio che struggimento celestiale!), che dire di “Gimme Some Truth”? Il Lennon al piano ha forgiato il pop del XX secolo come le opere di Bach hanno reindirizzato la classica. “How Do You Sleep?”, “How?”, “Oh Yoko”… camminate fra le sonorità cosmiche degli anni ’70 piene di anfetamine, LSD, eroina e puzza di sudore e fango e umori corporali e testa appoggiata sul petto di lui che fuma dopo una scopata, il cielo insensato sopra di noi. E L’estate dell’amore che due anni prima, nel 1969, si era fatta strage e morte per satanismo con la banda di Manson (ma ne parleremo, perché non si può slegare Manson dai Beatles e John e, a ben vedere, da Roman Polanski e la Maledizione del Dakota).

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Mind Games (1973)

Sì dai, giochiamo con la mente. È lì che si annida la verità che non sapremo mai. Ed è lì che John si diverte. L’avete visto il videoclip della title track? Un giocoso John a zonzo per New York, Central Park, balletti in strada, acquisti da Tiffany (per Yoko, ça va sans dire) come farebbe ogni buon socialista britannico, bambini, animali; la semplicità della vita nello sfumato pastello ocra dell’autunno newyorkese anni ’70. L’album regala meraviglie da snocciolare a poco a poco, un rosario della nonna fra le mani di una bambina di campagna distratta. “Aisumasen (I’m Sorry)” brilla nel firmamento delle rock ballad di sempre, con quell’assolo finale di chitarra… “One day (At a Time)”, “Tight A§”, “Nutopian International Anthem”, il John rock’n’roll che ti aspetti solo in parte e che furoreggia come i giganti dei 50s, che sa fare Chet Baker ed Elvis con la sobrietà della nobiltà acquisita per concessione di Sua Maestà. No, The Queen is Not Dead, not Yet, la regina grazie a Dio non è morta e la sua Inghilterra produce ancora baronetti: “Intuition” è quel pizzico di pepe che sta bene un po’ su tutto. “Out The Blue”… un sonetto in musica, voce e chitarra, un crescendo, i Beatles oltre i Beatles. Un John che si avvia al romanticismo elegiaco di “Double Fantasy” stando ben attento a non scontentare la vecchia guardia. “Only People” fa comune e battimani e falò e protestiamo seduti a gambe incrociate. “I Know (I Know)” ti spara a razzo nel decennio precedente, sulle spiagge della California dalle parti di Danny Wilson e qualche surfista che sparisce sotto il tramonto. John sembra dire datemi un piano, una chitarra e vi racconterò un mondo, un mondo che nessuno mai conoscerà se non in sogno. “You Are here”, “Meat City”, chiosa rock’n’roll quasi hard, perché il divertissement assuma sempre nuove forme. Birichine come la sua mise simil Zorro in Central Park.

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Walls and Bridges (1974)       

A piccoli passi verso il pop ’n roll che lo ha consacrato unico immortale interprete del XX secolo. Strazio, melodia e graffi di chitarra. “Going Down On Low” è una ballad che apre le danze di un album che pare aver esaurito la sua creatività… perché il pastiche di generi qui raggiunge vette parossistiche; c’è il soul di “What You Got”, il soul rock di “Whatever Gets You Through The Night” (pezzo enorme in realtà con quel sax spiazzante), l’incedere pomposo di “Scared”… la poca ispirazione di “Old Dirt Road” che suona Lennon senza la scintilla divina di Lennon… in realtà poi dall’album escono fuori perle come “#9 Dream”, “Nobody Loves You”, l’elegante e piacione R&B di “Bless You”, il quasi country (di nuovo?) di “Steel and Glass” (pezzo di una bellezza isterica per il suo miscuglio di tonalità e generi). Possiamo dire che “Beef Jerky” e “Ya Ya” siano due pezzi trascurabili? Non proprio, “dentro Beef Jerky” il sax e la chitarra la fanno da padrone, una sorta di strumentale rock jazzato (Prince lo ha fatto dieci anni dopo, James Brown pure). “Ya ya” scimmiotta i Beatles di Sgt Pepper e veleggia verso la chiusura con i suoi urletti nevrastenici ma dura un attimo. E va bene così. Prossima tappa?

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Rock’N’roll (1975)

Il John Lennon che passa in rassegna le sue canzoni preferite degli anni ’50, di quando era un ragazzino che si stava appassionando alla musica e muoveva i primi accordi di chitarra e di piano; un omaggio che, per chi ha visto le sue foto newyorkesi, era dovuto: uno che se ne andava in giro con la spilletta di Elvis sul bavero non poteva che fare un disco così: e tra l’altro riuscito e ammirevole, senza sbagliare una cover. “Be Bop A Lula” riprende vita, “Stand By Me” è come se l’avessero scritta i Beatles. “Sweet Little Sixteen” è tutto fumo e locali old America. “Peggy Sue”, “You Can’t Catch Me”, “Do You Want To Dance”, si viaggia indietro nel tempo e si applaude; i cultori del genere non potranno che apprezzare.

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Double Fantasy (1980)

Eccoci qua. Ricordo ero piccolo, andai a comprarmi l’album molto prima della sua morte, avevo sentito “(It’s Like) Starting Over” in radio ed ero rimasto folgorato. Be Bop, Be Bop, non sapevo nemmeno che fosse un genere, non sapevo niente; sentivo la sua voce e piangevo perché “Woman” era ispirata dal cielo, dalla Vergine della Catedral del Mar di Barcellona, dalla dea Kali che s’è mozzata le braccia per non ammazzare nessuno, dalle madri che fanno figli e poi non li sanno crescere, non li vogliono e poi quando non ce li hanno vicino li desiderano alla follia. Ricordo che piangevo perché “Beautiful Boy” ero io, piccolo, solo al mondo, bello coi miei occhietti azzurri, e la nanna che John mi cantava mi aiutava nella grande opera di autocommiserazione partita con largo anticipo sui tempi esistenziali. Ricordo “Watching The Wheels” e quel piano, quei tasti suonati con mani di velluto e dita sanguinanti. Ricordo “I’m Losing You”, avrebbe potuto cantarla Grace Jones per la sua sensualità adamantina, non sapevo nemmeno chi fosse Grace Jones nel 1980 ma va bene così. Il disco suonava e io viaggiavo. “Clean Up time”, nuova vita, tempo di ripulitura, un nuovo inizio brioso. Poi arrivavano i pezzi di Yoko e li saltavo. Ops! Non dovevo dirlo? O meglio. Io sono ammirato dal fatto che lui amasse Yoko così tanto. Che gli avesse fatto riscoprire l’amore, la pace, il no alla guerra, New York, le foto e l’arte astratta. Però da qui a volerla far passare per una cantante… dai John, per favore. “Kiss Kiss Kiss” è un esperimento riuscito, d’accordo. Un perfetto mix di rock simil orientale. Però il resto; la sua vocetta gattina, geisha, fatemi fare un acuto vi prego… No. “Beautiful Boys” ha un incipit sonoro da struggimento, la sua vocina da Marlene Dietrich stonata la massacra. Poi torna John e canta “Dear Yoko” e tutto risulta grandioso come prima. Vabbè. La critica, appena uscito, stroncò il disco proprio per questo fatto. Che c’entrava Yoko? Perché rovinare tutto? Dopo l’omicidio dell’8 dicembre “Double Fantasy” schizzò al numero uno in tutto il mondo vendendo quasi 5 milioni di dischi e vincendo il Grammy Award per miglior album del 1981. La morte ti fa bello se la critica non ti uccide prima. P.s. “Every Man Has a Woman Who Loves Him” è una splendida ballad, se non fosse cantata da Yoko, ma tant’è.

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Milk and Honey (1984)

No. Per me non è un album di John. Sono brani registrati durante le session di “Double Fantasy”, senza arrangiamento, senza produzione, senza filtri, senza un cacchio di post produzione. Roba spuria su cui John avrebbe dovuto lavorare ancora per renderli suoi pezzi, suoi grandiosi pezzi. Yoko lo ha fatto uscire e li ha rovinati, se si eccettua “Nobody Told Me” che era un pezzo già pronto perché sarebbe dovuto uscire sull’album “Stop and Smell The Roses” di George Harrison (1981). Anche qui, i brani cantati da Yoko sono INASCOLTABILI. Ma li amo uguale.

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L’estate dell’amore (1969)

Charles Manson era uscito di prigione nel 1967. Sfruttamento della prostituzione e furto d’auto i capi d’accusa. Era stato rinchiuso a Terminal Island, di fronte a Los Angeles, dalla fine degli anni ’50. In un decennio l’America era cambiata come un pianeta invaso da una razza aliena predona. E lui era euforico. Aveva letto tanto in carcere, si era fatto una cultura. Certo, a modo suo. Aveva incentrato le letture sui testi della PNL, su questa nuova dottrina che stava prendendo piede a Hollywood, Scientology, do you know? C’era questo romanzo in cui il fondatore, Ron Hubbard, diceva che l’uomo era un dio in potenza, “Dianetics”, e poi quell’altro in cui sosteneva che a creare la razza umana fossero stati gli alieni, “Battaglia per la Terra”. Due anni dopo era a zonzo per Los Angeles col suo furgoncino giallo. La rivoluzione era ovunque. La rivoluzione danzava con le chiappe al sole della California. Le poppe al vento. I culetti infilzati da mutandine liiiicenzioseeee. La rivoluzione l’avevano fatta senza di lui. Com’era uscire di prigione, Charlie? Finalmente libero, eh Charlie, certo, però quel finocchio di addetto alla libertà vigilata… Va bene, non conosceva più nessuno, up and down lungo le Highway per bussare alla porta di qualche ex compagno di cella o di istituto o di sfruttamento della prostituzione… un pappone, l’avevano chiamato. Stronzi. Che ne sapevano. Tutti svaniti, svaniti come la sua Rosalie, che aveva trovato un altro e non gli faceva più vedere Charlie Jr. Da quanto, 15 anni? Lui gli aveva scritto a suo figlio Charlie Jr e chissà se quella lettera gliel’avevano fatta leggere. Sua nonna, quell’arpia; scommettiamo gliel’aveva nascosta? Però adesso aveva la sua Family. E facevano progetti in grande. E si facevano di Lsd e suonavano la chitarra e scopavano liberamente e frugavano fra i rifiuti in cerca di cibo o lo rubavano. Avevano occupato lo Spahn Ranch, un postaccio quasi nel deserto dove negli anni passati avevano girato film western e che un vecchio mezzo cieco teneva in custodia e lui gli aveva offerto due delle sue pollastrelle in shorts con le chiappe rosate che ogni tanto gli facevano un pompino e lui li aveva fatti entrare e diovibenedica certo che siete i benvenuti… No, siamo i padroni, aveva messo in chiaro Charlie.

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Helter Skelter (1969, agosto dellamorte)

I negri prenderanno il potere. I negri si ribelleranno all’oppressione dell’uomo bianco. Sarà un momento catartico, un momento di liberazione e poi repressione. Quando succederà noi dovremo essere pronti con il nostro esercito della salvezza, diceva Charlie alla sua platea di ragazze coi fiori nei capelli, i piedi scalzi, le spine delle piante grasse ovunque, le pance pronte a sfornare figli da dare in pasto alla comunità. E quando i bianchi vorranno protezione per riprendersi il potere, sarà da me che verranno, sentenziava Charlie col suo spiritato occhietto nerastro senza pupilla, il capello stoppaccioso e lungo fino alle spalle. Nel frattempo, dovrete darmi prova che mi amate, che fareste qualsiasi cosa per me, che arrivereste a uccidere per me, a sterminare perfino. Lo sentite cosa dice la canzone? Sul giradischi suonava “The White Album”, ultima extra-terreste produzione dei quattro Beatles di Liverpool; pezzi, tutti, del duo Lennon-Mc Cartney. La sentite? Helter Skelter, il grande caos, l’anarchia, il ribaltamento dell’ordine costituito senza un progetto. L’hanno scritta per me, John l’ha scritta per me, non vi pare? Le ragazze sorridevano, gli davano ragione. Sì Charlie, John l’ha scritta per te. Perché Nel Grande Disegno Delle Cose Lui Sapeva Ciò Che Eri Chiamato A Fare. No… ciò che noi siamo chiamati a fare, ribadiva Charlie alle ragazze. Il destino, come dice Mark David Chapman, è sempre all’opera. A Cielo Drive abita la coppia da poco sposata Roman Polanski-Sharon Tate. Sharon è incinta. Roman in quel momento è in Inghilterra per la post produzione di “Rosemary’s Baby”, dove Sharon ebbe una parte piccola ma simbolicamente beffarda; l’invitata alla festa della protagonista, Mia Farrow, inquilina del Dakota Building, rimasta incinta del figlio del demonio. Charlie dice: andiamo da quei figli di puttana, abitano nella villa che un tempo fu abitata da quell’altro figlio di puttana che non ha fatto abbastanza per aiutarmi a produrre il mio disco (Dennis Wilson, Beach Boys, che in realtà si spese pure troppo per Charlie, prendendogli un brano, “Cease To Exist”, trasformandolo in “Never Learn Not To Love”, inserendolo nell’album uscito quell’anno “20/20”). Andarono. Charlie li mandò, e loro, Pat Krenkwinkel, Susan Atkins, Linda Kasabian e Tex Watson ubbidirono. Facciamo vedere ai negri come si massacrano i bianchi. Incitiamoli. Lo facciamo sulle note di Helter Skelter, e lasciate sui muri segnali precisi. Scrissero Pigs, anzi Piggies. In onore di Lennon-Mc Cartney che avevano composto Piggies per “The White Album”, una parodia fiabesco-orwelliana della classe dominante bianca. Porci. E che la mattanza abbia inizio.

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Piggies (1969, agosto dellamorte, aggiunta)

Non credete alla maledizione del Dakota e nel destino che è sempre all’opera? Male, direbbe Charlie, ma pure Mark David. Come fate a non vedere che nel film ambientato nel Dakota building Mia Farrow che interpreta Rosemary è incinta e Sharon Tate, che fa una comparsata, viene invitata alla sua festa dove si celebra la sua unione col demonio e nella realtà, quasi un anno dopo, è Sharon a essere incinta e a 12mila chilometri di distanza sta per festeggiare la nascita del bambino suo e del regista di “Rosemary’s Baby” quando irrompe la Family di Manson che le fa una vera festa del demonio sterminando lei e i suoi amici lì riuniti? E che quella stessa sera a casa Tate ci sarebbero dovuti essere i coniugi McQueen, sì proprio loro, il grande Steve con la moglie Neile ma siccome avevano litigato, come sempre, alla fine lei non era voluta andare e lui sarebbe andato lo stesso anche se da solo ma purtroppo sulla strada aveva cambiato idea e si era incontrato con una delle tante dolci fanciulle che lo adulavano e aveva passato la notte con lei e si era salvato ma Neile non lo sapeva e quando la radio aveva dato la notizia del massacro, la mattina dopo, lei aveva chiamato  in centrale dicendo alla polizia che anche suo marito Steve McQueen, sì proprio lui, doveva trovarsi lì, in quella villa, diomio! Per fortuna il destino, certe volte…

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8 dicembre 1980. Dakota Building. Esterno notte.

Rieccoci sotto il Dakota. Mark David nel pomeriggio passato sotto al portone aveva incrociato anche John, uscito col suo amico fotografo, Paul Goresh; lo aveva fermato e gli aveva porto l’album, “Double Fantasy”, senza dirgli una parola, e John si era girato e gli aveva chiesto: “Vuoi un autografo sul disco?”, lui, continuando a non dire una parola, aveva annuito, soltanto annuito. E Paul gli aveva scattato una foto. John, testa bassa, che firma l’album e Mark David sullo sfondo che lo scruta, sorrisetto maligno. Bip. Breve nuova digressione. Ma voi lo sapevate che durante i 5 anni, dal 1975 al 1980, in cui John era sparito dalle scene, aveva perfino fatto un viaggio in barca a vela fino alle Bahamas rischiando di morire per una tempesta e che da quell’esperienza, sulle spiagge dell’isola tropicale, si era messo a comporre i capolavori di “Double Fantasy”? Nemmeno Mark David lo sapeva. Immagino di no. Lui pensava: “Non sono un tipo alla Hinckley, non sono un tipo alla Oswald, non sono un tipo alla Manson. Non sono quel tipo di persona. Sono una persona molto sensibile”. Sensibile e che cerca di rimettere le cose a posto. John, John era uno di quegli ipocriti di cui parlava Holden Caulfield, secondo Mark David. John immaginava un mondo senza proprietà e poi faceva una vita da ricco e la gente si beveva le sue cazzate. E siccome lui era The Catcher in The Rye, aveva il dovere di salvare i bambini innocenti prima che diventassero corrotti e preda di questa gente e per farlo era necessario sbarazzarsi dei corrotti. Semplice.

John e Yoko vanno in studio. John doveva finire la registrazione del singolo di Yoko: “Walking On Thin Ice”. John diceva che era un singolo che l’avrebbe lanciata nelle charts. Cercava di assecondarla? L’arrangiamento dance è potente, la versione re-mix in pista funziona alla grande. È che avrebbe dovuto cantarlo David Bowie un pezzo così, non Yoko. Oh Yoko! I due tornano al Dakota Building. Sono le dieci di sera passate. Ceniamo a casa? No, un ristorantino ci stava bene.  Mark David è ancora lì, acquattato nell’ombra, appuntito come le guglie dell’edificio, le rifiniture gotiche, le pallottole hollow points inserite nella sua .38 special revolver, pallottole che appena entrano nella carne si aprono. Pallottole pensate per squarciare gli organi, uccidere all’istante. Bip. Flashback di un giorno. Mark David incontra James Taylor, sì James Taylor il cantautore, sotto la metro. Lo ferma. Lo inchioda quasi al muro. Gli dice che andrà a incontrare John e che con lui farà cose interessanti parlando in uno strano modo e sudando. Sudava. E aveva Dio dalla sua parte, no?

Mark David esce dall’ombra. Pistola in pugno. John è entrato quasi nel portone. Yoko è dietro. Mark punta la .38. Ha fatto addestramento al poligono perché ha lavorato pure come guardia del corpo privata. Bum Bum Bum Bum Bum. Cinque colpi, alle spalle. John cade in avanti, le sue ultime parole le ascolta il portiere (l’esule cubano): “Mi hanno sparato”, dice. Buio. Per sempre. Per tutti noi. Nei secoli dei secoli. A-men.

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La veglia

Alle 23 circa, o poco prima, quando la polizia aveva circondato l’edificio e John era già in ospedale nel tentativo disperato di salvarlo (trasportato direttamente dalla pattuglia della NYPD per non perdere tempo ad aspettare l’ambulanza), un giornalista italiano, Maurizio Baiata, corrispondente Rai a New York, si trova a passare di lì e vede quanto è accaduto e anzi capisce quanto è accaduto. Allora chiama l’Italia da una cabina e prova a contattare i suoi amici critici musicali (lui lavorava anche per Ciao 2001), per raccontare l’orrore di quel gesto. Prova perfino a informare la Rai per convincerli a dare subito la notizia. Ma non viene fatto nulla. In Italia la morte di John Lennon viene annunciata soltanto il giorno dopo.

Il 9 dicembre una folla sbigottita si riunisce di fronte all’edificio maledetto. Una veglia funebre ma speranzosa. Sconvolta ma ribelle. Scioccata ma reattiva. Il canto “Give Peace a Chance” si innalza come un inno, mani infreddolite nei guanti, candele votive fra le dita. Lacrime, cappelli, teste basse. Sciarpe. Nella calca, una pistola in tasca, si confonde John Hinckley Jr anche lui sconvolto da quell’assassinio. Quattro mesi dopo, lo stesso Hinckley Jr, 27enne ossessionato dall’attrice Jodie Foster, cerca di uccidere il neo presidente Ronald Reagan di fronte all’Hilton Hotel di Washington DC. Quando la polizia fa irruzione nel suo appartamento, trova una copia di The Catcher in The Rye. Da allora, le generazioni sembra non facciano altro che vegliare, non più sulle note di “Give Peace A Chance” ma su quelle di “Imagine”. In attesa della prossima morte, e della prossima e della prossima e della prossima. Fino a che non ci sarà più nessuno da vegliare, né che veglierà.

Adriano Angelini Sut

*In copertina: John Lennon in una fotografia di Bob Gruen (l’immagine è tratta da qui)

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