23 Novembre 2019

“Si deve entrare nel vero o rimanere al di fuori”: Jean Josipovici, il pensatore radicale che ha lottato contro “la scienza oscurantista” e la riduzione dell’uomo a macchina

L’uomo dimenticato. Penna dotta, graffiante, a tratti ironica e polemica; sguardo limpido, solare, impersonale ma unitario; questo, e molto altro, è stato Jean Josipovici, un grande studioso che, dopo una presenza importante nell’editoria italiana, con pubblicazioni numerose, anche presso case editrici del calibro di Fratelli Laterza e Rusconi, ha visto obliata la propria opera – saggistica e poetica –, che oggi risulta, per la maggior parte, introvabile.

A una riscoperta della figura di questo pregevole ricercatore è dunque votata la ripubblicazione di una delle sue opere più importanti: La scienza oscurantista (Iduna, Milano 2019). Al suo interno Josipovici propone un paradigma con cui valutare e criticare l’approccio antropologico, epistemico e gnoseologico dominante nella modernità occidentale. Un modello dominato dal riduzionismo razionalista, secondo Josipovici, che trova il proprio apice d’inveramento nella scienza moderna e, in particolare, in quelle branche scientifiche che hanno per oggetto del proprio studio l’uomo – dunque, fondamentalmente: biologia, medicina e psicoanalisi. In questi ambiti, infatti, diventa manifesto come la meccanicizzazione determinista e materialista del sapere, prendendo come proprio oggetto la forma più evidente della vita – ossia l’uomo –, riduca, secondo un processo di reificazione (à la Marx), il vivente a oggetto. Trasformandolo così nell’uomo a una dimensione che Herbert Marcuse duramente stigmatizzava, senza, tuttavia, riuscire a opporgli un’alternativa autenticamente costruttiva. «L’uomo ha smesso di porsi nella prospettiva del vivente», spiega Josipovici, intendendo “il vivente” in senso affatto biologista, piuttosto in modo plurale e gerarchico, secondo una prospettiva affine a quella espressa da Guénon ne Gli stati molteplici dell’essere.

Un uomo oggi dimenticato – Josipovici – ci conduce così nei meandri di una serrata critica alla scienza oscurantista, colpevole proprio di dimenticare l’uomo (L’uomo dimenticato è, non a caso, il titolo del primo capitolo del saggio). Lo fa, diversamente da molti antimoderni che si sono occupati della questione, con estrema precisione tecnica e con numerosi riferimenti ad autori, teorie e correnti che hanno variamente innervato l’approccio oggetto della sua critica. Se alcuni passaggi possono dunque risultare prolissi o eccessivamente puntigliosi per un lettore interessato alla storia delle idee più che alla storia della scienza, a emergere in ultima istanza è una grande competenza sull’argomento trattato – una dote che valorizza l’efficacia della critica, prevenendo obiezioni sulla competenza dell’autore rispetto a una materia tanto complessa. Proprio partendo dal metodo e dal linguaggio biologico, medico e psicoanalitico, Josipovici riesce a ribaltare dall’interno delle categorie del paradigma modernista le conseguenze che ne vengono solitamente tratte. Con un procedimento, quindi, per certi versi affine a quello di Horkheimer e Adorno, Josipovici mostra la dialettica dell’illuminismo scientista. È da queste premesse filosofiche, non organicamente delineate ma sempre emergenti nella fitta prosa dell’autore, che prende piede la pars destruens del saggio. La cui qualità permette, a nostro avviso, di “passare sopra” a taluni suoi riferimenti meno centrati, che paiono talvolta strizzare l’occhio a certa superficiale New Age.

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In «viaggio verso l’oscurantismo estremo». La psicoanalisi moderna, di cui, citando Sigmund Freud e Carl Gustav Jung, ma anche Wilhelm Wundt, Oswald Kulp, Edward Bradford Titchener, James McKeen Cattel, Wilhelm Reich e moltissimi altri, Josipovici ricostruisce magistralmente genesi e sviluppi, è una forma di «chiusura all’essenziale»: anziché aprire in senso verticale l’uomo, connettere le sue possibilità realizzative soggettive alle condizioni oggettive dei ritmi cosmici, segna «il cammino dell’intelletto a spese dello spirito», la riduzione dell’uomo a macchina. Questo «è il prezzo pagato da chi, appoggiandosi pigramente all’intelletto, cerca di sostituire la qualità con la quantità, i valori con la materia scomponibile e misurabile». La dimensione psichica, che il Pensiero di Tradizione ci insegna situarsi su un piano dell’essere mediano fra la dimensione corporea (somatica) e quella spirituale (noetica), viene intesa come l’unica esperibile e, in tale accentratura monotonica, perdendo ogni possibilità di connessione e mediazione, viene del tutto disgregata. In questo senso, la serrata critica di Josipovici è complementare e integrativa rispetto alle interessanti osservazioni che Julius Evola dedicò all’«infezione psicanalista».

La biologia moderna risulta altrettanto castrante rispetto alle potenzialità insite nell’umano. Essa, infatti, riducendo l’uomo al puro piano biologico, commette un tradimento dell’essenza stessa del bios, che si struttura, certo, in elementi quantitativi, misurabili e meccanici, ma soprattutto – questo il suo tratto primario – si dipana in forme organiche, metamorfiche, relazionali, qualitative. Il Behaviorismo, secondo cui l’organismo agirebbe automaticamente in funzione della dinamica stimolo-risposta, ne è un esempio lampante. Parimenti la neurobiologia, pur partendo da premesse differenti, tende a ridurre l’uomo alla sola dimensione fisiologica, interpretata secondo schemi causali, razionalisti e deterministi. «L’uomo – spiega invece Josipovici – anche se dipende da fattori esterni e da fattori biologici – quando non c’è degenerazione o deficienza troppo grave –, conserva un margine in cui può esercitarsi la sua volontà personale, la quale deve consentirgli di crescere e di affermarsi spiritualmente». La natura, infatti, compie l’uomo solo parzialmente: per «divenire ciò che si è», nietzscheanamente, serve un intervento auto-creativo che completi la definizione della propria essenza.

Anche la medicina moderna che, olisticamente, dovrebbe interessarsi a tale compito, ne è del tutto aliena. Accompagnando la meccanicizzazione dell’umano agli sviluppi dell’industria e della farmacologia, la medicina «è divenuta un’immensa industria» e ha fissato l’immagine dell’uomo scisso e bisognoso di un surplus di chimica artificiale esterna come parametro antropologico – l’homo farmaceuticus.

Anche la sociologia, trattata più tangenzialmente nel volume, merita gli strali di Josipovici: ponendo al centro della propria speculazione la collettività, tale disciplina, frutto maturo della cultura della Rivoluzione francese, contribuisce alla distruzione dell’essenza della persona, identificandola con il semplice “ruolo” che l’individuo riveste nella società. È il ruolo impersonato nel sistema sociale che viene infatti da essa focalizzato: ancora una volta la multidimensionalità del singolo viene livellata dalle aspettative ed esigenze dei molti. Con una equazione: la società egualitaria sta all’io (diviso, molteplice, atomizzato – «i piccoli “ego”») come la comunità organica sta all’Io (plurale, differenziato, unitario). Non è un caso, nota l’autore, che «ogni qual volta si produce un vacillamento del quadro sociale, una nuova “apertura” spirituale compare; opera di un soggetto dotato d’una personalità totale, in rottura col suo tempo». La coscienza del singolo, la sua essenza sovra-personale, in questo caso cessa di essere un “residuo” e si fa fiamma.

Questa vampa, capace di disintegrare le certezze acquisite e verticalizzare lo scontro è a nostro avviso precisamente il superamento della visione del mondo d’orientamento modernista, stretta fra riduzionismi e monismi di ogni sorta – tutto è materia, tutto è sociale, tutto è psichico, per citarne alcuni –, soffocata da dualismi incapacitanti, contrari e convergenti, che conducono all’atomismo, alla parcellizzazione del mondo della vita e all’autismo dell’esperienza. L’oltrepassamento muove invece dalla possibilità, sempre vigente nell’estatica potenza dell’attimo, di «strappare i veli con cui Apollo nasconde la realtà originaria, osare di trascendere la forma per mettersi a contatto con la “atrocità” originaria di un mondo in cui bene e male, divino e umano, razionale e irrazionale, giusto e ingiusto non hanno più alcun senso essendo soltanto potenza, nuda, libera potenza fiammeggiante» (J. Evola, L’individuo e il divenire del mondo).

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Nel cuore dell’Invisibile. La pars destruens della raffinata operazione culturale proposta da Josipovici tende a ravvisare nelle diverse discipline considerate il medesimo vulnus: il riduzionismo razionalista. Sotto questo profilo, la riflessione del nostro rientra perfettamente in quel filone culturale che nel Novecento ha affrontato il problema della crisi dell’Occidente e dell’avvento del nichilismo. I paralleli con le speculazioni elaborate dalla letteratura della crisi sulle questioni della tecnica, sull’atomizzazione dell’individuo, sui rischi insiti nel pensiero collettivista così come in quello liberaldemocratico e scientista, sarebbero infiniti. Il confronto con le intuizioni di Edmund Husserl, Martin Heidegger e René Guénon – fra gli altri – risulta su svariati temi spontaneo e fruttuoso. Raccogliendo a nostro avviso questa importante eredità, il saggio di Josipovici procede da tale retroterra culturale per considerare nello specifico, con rigore metodologico, la materia scientifica.

Anche qui il razionalismo appare il problema fondamentale. Riducendo il reale ai suoi aspetti quantitativi, meccanici e deterministi, l’uomo l’ha intrinsecamente lacerato. Ma la realtà è scissa perché, ancor prima, è l’uomo a essere in sé scisso: la sua percezione alterata delle cose trasforma le cose stesse, rendendo la res extensa una costruzione mentale astratta, incapace di rendere conto della discontinuità, che pure è peculiarità intrinseca della vita.

D’altra parte, nel Novecento, la vita ha intrapreso una vigorosa reazione contro il modello positivista. Il crollo delle certezze manifestatosi nel Secolo Breve, l’avvento di prospettive relativiste, la comparsa di “anomalie” scientifiche quali il Principio d’indeterminazione di Heisenberg e il Teorema d’incompletezza di Kurt Gödel, nonché le intuizioni di Max Planck, Albert Einstein, Louis de Broglie, Niels Bohr, hanno segnato la bancarotta della scienza “cartesiana”, che pure rimane dominante nella vulgata comune. «Il materialismo, estrema negazione d’ogni liberazione spirituale, ha compiuto la sua opera, ma ha anche fatto il suo tempo; e appare per quello che è: un’illusione. Cede ormai il posto ai furori di forze inferiori, sole capaci di partecipare alla finale opera di dissoluzione» (Jean Josipovici, Il Fattore L.). Fa il suo ingresso trionfale il postmodernismo, che vince nelle accademie e si manifesta rizomaticamente nella quotidianità, senza aver però ancora integralmente scalzato la Weltanschauung ottocentesca. Il mattino dei maghi, per dirla con Pauwels e Bergier, ha lanciato la sua sfida al razionalismo, rivendicando l’integrità organica del sapere. Della sua eredità dobbiamo ancora farci carico, tuttavia.

Alla critica di Josipovici, che i quarant’anni del saggio non rendono affatto superata – pur richiedendo talvolta aggiustamenti, precisazioni e aggiornamenti –, si sommano riflessioni sparse che ci offrono la possibilità di identificare un potente afflato propositivo. La pars costruens del saggio si muove, a nostro avviso, attorno a due principali coordinate: l’identificazione di un modello antropologico alternativo a quello oggi dominante nel sensus communis (che proprio dalla cultura scientista tende a generarsi) e, alla luce del nuovo paradigma proposto, una integrazione della metodologia – e deontologia – delle discipline mediche, biologiche e psicoanalitiche.

Per quanto riguarda la prima questione, Josipovici concorderebbe con l’Ernst Jünger di Oltre la linea: nella modernità, a mancare è la «principesca apparizione dell’uomo». Nell’era della mobilitazione totale, infatti, alla centralità dell’uomo integrale si sostituisce la “cosalizzazione” dell’uomo-ingranaggio. Ecco che allora si crede di conseguire la conoscenza mediante questionari, sondaggi e test, anch’essi espressione di quel delirio sperimentale che accompagna la scienza moderna.

Josipovici, col suo radicale antimodernismo, intende precisare che a questa modernità ne sarebbe possibile un’altra – organica, completa, spiritualmente innervata. Così, «colui che decide di progredire sulla strada giusta deve adoperarsi coraggiosamente per sostituire alla ragione chiusa, quantitativa, una ragione aperta, qualitativa». Questo uomo “diversamente moderno” potrebbe allora procedere a un arricchimento e a un completamento delle discipline scientifiche considerate.

Così, in ambito psicologico, spunti interessanti provengono dall’orientamento psicosomatico e da tutte quelle tendenze che intendono l’uomo in senso olistico. William James, stando a Josipovici, avrebbe dato indicazioni importanti in tal senso, possedendo egli «un’autentica conoscenza della vita interiore che egli denomina – prendendo in prestito da Eraclito l’immagine – the stream of thoughts: esperienza certo unitaria e globale, ma in continua trasformazione; movimento che è vano intestardirsi artificialmente a dividere, come è vano tentare di estrarne degli stati, con il rischio di operare contro il significato stesso della natura umana». Anche in ambito terapeutico ci sono possibilità altre; in questo campo Josipovici sembra richiamare l’importanza di una comprensione filosofica – prima che neurologica – del disagio esistenziale: «Condurre il paziente ad affrontare l’esistenza, vuol dire innanzi tutto attrarlo a operare su se stesso. Scoprirà allora che il presente contiene in germe le determinazioni future, e che i problemi del momento hanno il loro giusto valore».

Solo affrancandosi dai pregiudizi correnti l’uomo potrà realizzare integralmente la propria natura, superando tanto il parossismo delle sensazioni quanto il culto della ragione. «La posizione giusta è quella dell’intuitivo […]. Intimamente orientato secondo la sua evoluzione creatrice, vibrante all’unisono, obbediente a un ritmo uguale, tutto il suo sforzo tende a inserirsi nella Grande Corrente Vitale».

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La verità dello sguardo mitico-simbolico. Il tipo intuitivo suggerito da Josipovici rimanda a una costituzione antropologica alternativa a quella moderna. Questa formula accende un’immediata catena di rimandi analogici ad altre grandi proposte di ribellione all’homo saecularis: dall’uomo dionisiaco di Nietzsche all’antropologia sapienziale di Rudolf Steiner, dal Dasein (esserci) di Heidegger all’uomo differenziato di Julius Evola, sino all’anarca di Ernst Jünger. Gli spunti offerti nell’opera di Josipovici sembrano tuttavia avvicinare ancor più il suo programma di rinnovamento interiore, tutto improntato a una mediazione feconda fra piano soggettivo, umano e animico (microcosmo) e dimensione oggettiva, vitale, spirituale (macrocosmo), a una prospettiva di ermeneutica mitico-simbolica, ossia a una interpretazione del reale imperniata su una lettura del “libro del mondo” mediata dalle forme del simbolo, dell’analogia e del mito.

Josipovici ci invita così a inaugurare uno sguardo differente sul reale: abbandonando gli affilati strumenti chirurgici del modernismo, l’uomo può riacquisire quella prospettiva simbolica fondata sulla corrispondenza fra la propria singolarità e i ritmi del cosmo. Il mondo può tornare a essere vissuto come flusso energetico, come epifania del divino, come concatenazione di una pluralità di stati essenziali, rappresentabili e conoscibili mediante miti, simboli, archetipi. È una ricerca dei segni e delle corrispondenze – visibili e invisibili – che rendono il cosmo un volume consultabile grazie a un’ermeneutica poetica e magica. In questo stadio «non si vive la propria vita: si è la vita, con quello ch’essa possiede di possibilità estreme. Fuori della portata del temporale e del caduco, essa assume valore di eternità» (Jean Josipovici, Iniziazione alla felicità).

L’esoterista prefigura così la possibilità di una esistenza totale, che così illustra ne La prigione esoterica: «C’è una dimensione magica dell’individuo, come c’è una dimensione magica dell’universo. Ma questa dimensione superiore, questo eterno presente, creatore di presente, appartiene solo all’uomo che si sia interamente liberato delle sue catene: le invisibili e le visibili. Ora, l’esser libero è poter attingere una seconda volta all’albero della conoscenza». L’esistenza totale trasfigura l’uomo interiore ma anche la natura, che è sinolo di potenze visibili e invisibili, concrezione fenomenica di istanze sovrafenomeniche, «il manifestarsi – insomma – d’una forza che circola distribuendo con generosità e conservando avaramente la vita in tutte le sue forme».

Il riduzionismo rimane, in tutta la riflessione di Josipovici, l’avversario più odioso. Alla conoscenza, infatti, ci si avvicina soltanto superando l’alternativa di affermazione e negazione, ossia affrancandosi «dall’“impasse” dualistica». Questa operazione necessita una trasfigurazione mistica del soggetto: significa tendere all’annullamento di quella rottura col Divino che è il principale stigma della modernità.

Tale passaggio è integralmente riposto nello sguardo in tensione con cui si coglie il mondo: la trasformazione parte tutta da lì. Come c’insegnano lo sguardo stereoscopico di Jünger e la prospettiva filosofica di Evola, l’Assoluto non c’è mai – spontaneamente, passivamente –, ma sempre può essere attivamente realizzato. «Si deve entrare nel vero o rimanere al di fuori» chiarisce Josipovici. Teoresi e prassi coincidono, si fanno Uno. È proprio qui che risiede il culmine realizzativo di un pensiero abissale. Lo sapeva bene il filosofo colombiano Nicolás Gómez Dávila: «Quando sentiamo che davanti a un oggetto o a un fatto, il nostro spirito si cristallizza e si rapprende; quanto sentiamo che le nostre attività calzano le une con le altre; quando sentiamo che una gioia secca e lucida ci invade, il significato è esploso nel nostro spirito» (Notas).

Luca Siniscalco

* Il presente saggio è una versione abbreviata dell’Introduzione a Jean Josipovici, “La scienza oscurantista”, Iduna, Milano 2019

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