«Ciò che mi rendeva più triste riguardo alla mia morte era che non avrei mai più potuto conoscere, amare o essere amata da nessun altro, mai più. Avevo sprecato tante occasioni e avevo alcuni rimpianti. Avevo ricevuto una buona mano di carte e ne avevo gettate via troppe. Ma avevo amato molto ed ero stata amata, e alla fine e cioè ora, era l’unica cosa che contava» (Janet Hobhouse)
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Un gioco di geometrie, fra scacchi del pavimento, scarpe, calze, gonna.
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Per la copertina dello splendido «memoriale» di Janet Hobhouse, Le furie, da poco ripubblicato da Neri Pozza, non c’è il volto di una donna a introdurre l’autobiografia feroce e intensa della scrittrice americana, morta a poco più di quarant’anni.
Il collant rigato e sbarazzino, le calzature a pois, la minigonna fantasia che fascia i fianchi e il gioco di luci e ombre su un fondo quadrettato è tutto: la seduzione quasi infantile creata dall’immagine racconta già abbastanza.
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Il fulcro della narrazione è infatti il rapporto fra una madre ‘incapace’ e una figlia protettiva: Beth (la madre), viene descritta con la sua «aria di bambina graziosa, dodicenne, una bimba senza paure o responsabilità, risplendente della stessa piccola luce di innocenza tormentata che si intravede dietro la maschera di Marilyn Monroe, la stessa espressione dolce e confusa di fanciulla buona e gentile intrappolata nella polpa di una bellissima pesca che si ammacca facilmente».
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La scrittura densa della Hobhouse attraversa con lucidità diverse figure femminili presenti nel libro, nel tentativo di aggrapparsi a dei modelli di donna attraverso cui crescere e ritrovarsi.
Per fare i conti con se stessa, con la propria storia familiare, sapendo già che non le è rimasto più molto da vivere.
Ma il bianco e nero della copertina non sono vuoto ed oscurità, ma teatro di figure: cerchi, linee, rettangoli, punti, incontri.
Janet aveva amato molto ed ero stata amata. E alla fine, ci ha lasciato scritto, questo è stata l’unica cosa che ha contato.
Elena Paparelli