Per prima cosa, dobbiamo fregarcene della biografia dei poeti, per questo, il titolo di questo articolo – artatamente attraente – deve essere contestato. Ce lo dice lui, per altro – che ha detto tutto e decretato l’opposto – “La solitudine è indispensabile per la poesia pure. Quando qualcuno si intrufola nella vita di un poeta… questi perde momentaneamente l’equilibrio, scivola nell’essere che è, usa la sua poesia come si usa il denaro o la simpatia”. Cito da una delle lettere che John Lester Spicer – poi, Jack Spicer – invia nei Cinquanta a Federico García Lorca, il grande poeta spagnolo, morto da un tot, come a un maestro, a un confessore, a uno specchio da usare per abbrustolire la letteratura statunitense. Voglio dire. Di After Lorca, libro d’esordio (siamo nel 1957) e ‘di culto’ di Jack Spicer, fortunatamente in Italia (per Gwynplaine) grazie alle cure di Andrea Franzoni e di Fabio Orecchini, non sorprendono tanto le ‘maschere’, tante – da Lorca a Rimbaud, da Buster Keaton a Walt Whitman (“Che angelo ti porti nascosto nella guancia?/ Che voce perfetta ti dirà la verità sul grando/ O il terribile sonno delle tue anemoni bagnate nel sogno?”) – quanto la distruzione, tramite la pratica del tradimento/rifacimento, di tutte le maschere. Jack Spicer, figura letteraria prima che umana (se vi va, nasce nel gennaio del 1925 e muore nell’agosto del 1965), icona della ‘San Francisco Renaissance’, che ha fatto di tutto per sparire nell’alveo dell’opera, ‘classica’ e avanguardista insieme (tanto da essere, di fatto, riscoperto dopo morto, prima nel 1975 con The Collected Books of Jack Spicer, poi, definitivamente, nel 2008, con My Vocabulary Did This to Me, che ottiene un American Book Award), è come una specie di Fontana, taglia il velo della letteratura Usa e ci si conficca dentro, dando tridimensionalità al verbo poetico. Per vari versi, tra la moda ‘beat’ di Ginsberg & Co. e il neo-accademismo di Auden & pupilli, Spicer ha tracciato una ‘terza via’, inattesa e inascoltata. Fino a oggi. “Il poeta incista l’intruso. Gli oggetti tornano al loro posto, accigliati, in silenzio”, scrive Spicer nel mazzo di lettere programmatiche e fosforescenti, a Lorca. In poesia, tutto è magico: a patto di scomporre gli occhi in spettri, in tane di volpe. Insomma, per capire Spicer, ho interrogato i curatori. (d.b.)
Per sommi capi. L’importanza di Jack Spicer nel contesto letterario statunitense. E poi: perché lo scopriamo solo ora? Tu, come lo hai scoperto?
Fabio Orecchini: Spicer è un fantasma. Legge i fantasmi, si fa scrivere da loro. Jack Spicer rinasce a questo nome il giorno in cui diventa poeta, e quindi un fantasma, che vive di ombre, di riflessi, di reale. Le parole sono ciò che si afferra al reale. Le usiamo per spingere il reale, per tirare il reale nella poesia. Sono ciò con cui ci teniamo, nient’altro scrive nel libro, rivolgendosi a Lorca, interrogandosi con lui sui fondamenti di poetica. In questa faglia, nell’altrove della voce, nell’interferenza acusmatica di senso, prende forma il dettato dell’Outside spiceriano, il linguaggio della poesia a rivelare il reale, ad accogliere e disvelare l’altro da sé. “La prosa inventa, la poesia rivela”. Che questo agire poetico sia agito, generato da Quasar o onde radio provenienti da Marte, dal radiocronista del baseball, da studi di linguistica o dialogando con García Lorca e Billy the Kid durante una seduta spiritica, non ha alcuna importanza. “Le cose non si connettono, corrispondono”. Il fantasma entra così nell’opera stessa, ed è questa traduzione continua – o trasduzione (Simondon) – nel solco della tradizione (come la intende Spicer, non il musealismo imbalsamatore, ma orfismo macabro, amore non corrisposto per l’opera viva di un morto), di opera in opera, di voce in voce, di poeta in poeta, a generare l’enigma che accomuna le sfere di lingue lontane nel tempo e nello spazio.
Liberare la lingua dalla truffa in cui società e linguaggio fondano se stessi, in modo opposto al mainstream pubblicitario e presto hippie dei futuri Beat e dei Formalisti, de-retoricizzando l’io (“la grande bugia del personale”) e mettendo in primo piano il materiale linguistico, la natura della lingua, privandola del portato retorico dell’immagine, dell’immaginario; forse è dovuta proprio a questo anarchismo intellettuale l’importanza di Spicer nell’universo letterario statunitense – pensiamo poi agli anni ’50 in cui se da una parte l’accesso al mondo letterario, non solo universitario, era deciso da un’introduzione di W. H. Auden, nello stesso tempo, nella Baia, i poeti si affrontavano nei bar a colpi di rime ‘provenzali’ (il movimento Beat deve molto a questi riti orali – di cui Spicer era maestro di cerimonia – ma si piegherà, troppo presto, ai dettami del mercato dell’immaginario) – di aver messo in guardia, tutti, dall’imperialismo incorporato nell’immagine, dall’imagismo, dal rischio del confessionalismo come dal predominio dell’io e dell’inside, rivolgendosi invero verso una più libertaria poetica della relazione (Glissant).
“[…]Le collocano sotto la luce accecante della poesia e provano a estrarre da ciascuna di esse ogni possibile connotazione, ogni temporaneo gioco di parole, ogni connessione diretta o indiretta – come se una parola potesse diventare un oggetto per semplice addizione di conseguenze. Altri raccolgono parole dalla strada, dai loro bar, dai loro uffici e le esibiscono con fierezza nelle loro poesie, come stessero gridando, ‘Guardate la mia collezione di lingua americana. Guardate le mie farfalle, i miei francobolli, le mie vecchie scarpe!’ Che se ne fa uno di tutte queste cazzate?2 .
In Italia, per primo Spatola ne tradusse un testo per Cervo Volante nel 1981, poi Enzo Siciliano per un numero della rivista Panta nel 1999 (scoperta di recente) e infine dobbiamo al lavoro di Paul Vangelisti e Luigi Ballerini (Nuova Poesia Americana), Marco Giovenale (Billy the kid) e Nanni Cagnone (I capi della città su fino all’etere) il tentativo di trasfusione, d’infusione della poetica spiceriana in Italia nei primi anni zero. Ed ora, finalmente, il nostro After Lorca, il suo leggendario esordio letterario, di voce in voce, fino all’italiano. Libri-fantasma certo, a sollevare, come folata di vento inaspettata, le tende un pò ingiallite del discorso poetico odierno.
After Lorca mi pare un’opera poetica già postmoderna, che si divora i beat, che passa per Whitman e Buster Keaton, s’appiglia al nume tutelare (Lorca) e poi procede per invenzioni linguistiche. Da dove arriva quell’opera, da quali esperienze letterarie, e che accoglienza ha nel mondo americano?
Andrea Franzoni: Il postmoderno più che un nuovo modo dell’arte è un modo tradizionale che s’è dimenticato la propria tradizione. L’imitazione è storia vecchissima, tanto antica quanto le origini della letteratura europea. Spicer, insieme a Duncan e Blaser, vogliono recuperare il rinascimento: per questo e non per altro si chiama Berkeley Renaissance. Il rapporto è quindi più che mai intellettuale. Oltre alle traduzioni latine dei cicli epici greci (i quali venivano ovviamente dalla colonizzazione culturale dei cicli appartenenti all’Asia Minore, i quali venivano… e così via), il topos del manoscritto ritrascritto è ancor più conosciuto da noi per via del Manzoni, il quale inizia i Promessi Sposi dicendo di dover “rifarne la dicitura”
Chiunque, senza esser pregato, s’intromette a rifar l’opera altrui, s’espone a rendere uno stretto conto della sua, e ne contrae in certo modo l’obbligazione: è questa una regola di fatto e di diritto, alla quale non pretendiam punto di sottrarci.
Il rapporto gerarchico con Lorca, come si desume dall’introduzione, viene dal Virgilio guida e modello di Dante, ma riattualizzato negli anni ’50. Lorca era giunto in America tramite l’edizione Aguilar circa due anni prima del 57. Spicer non parlava lo spagnolo. Parlava poesia. In traduzione si chiamano i “traduttori muti” (Vittorini, citato da Fortini in L’ospite ingrato). Vengono a sovrapporsi dunque in After Lorca il copista e l’iniziato. Il copista è il personaggio ottimale per Spicer: introverso e con troppo genio letterario per potersi vendere alle strutture di diffusione del sé, gli serviva adottare la maschera umile del copista medievale: le interpolazioni del copista in un manoscritto sono d’uso comune nel medioevo, ve ne sono ovunque, anche in Boccaccio, ed è un modo per variare, attualizzando, un motivo. Mi ha sempre impressionato che la famosa Romeo e Giulietta proviene in verità da un racconto del Quattrocento italiano: tal Da Porto che scrive la Giulietta reinterpretando un racconto del Salernitano che reinterpreta una leggenda senese. Ed è così tutta la letteratura. C’è sicuramente, tra le fonti del gioco di Spicer, Carrol, e Dada, e i Surrealisti. C’è certamente Pound, il cui Omaggio a Sesto Properzio aveva fatto grande scandalo: Pound era giunto ad insultare gli accademici che gli contestavano la mancata conoscenza dell’originale. Insomma, su false tradizioni (ops, volevo dire traduzioni) si fonda tutta la narrazione culturale di una società.
Del morto che scrive un’introduzione ad un vivo, non saprei se è mai stato fatto. Ma insomma non è poi così dissimile dal Virgilio che accompagna e rimprovera ed esalta Dante nel suo viaggio. C’è molto del poliziesco nella struttura di After Lorca: Lorca parla dalla fine ormai consumata del libro-crimine. E il libro ci porta pietosamente verso la separazione tra i due. Di postmoderno, volendo accettare il termine, c’è la psicomagia velata e c’è l’assoluta preminenza della struttura sul resto: né soggetto né oggetto contano. La psicomagia è presente nelle dediche, le quali sono il primo passo che fa Spicer verso una poesia che si indirizza a persone, che vuole rimorchiare persone (“la poesia non cerca seguaci, cerca amanti” scriveva Lorca). La rete di Spicer è talmente trasparente che trasparenti diventano anche alcune fonti: Buster Keaton, chi lo direbbe mai, è un testo originale di Lorca. Il “Sequel” di Buster Keaton, chi lo direbbe mai, è un originale di Spicer. E naturalmente un’altra fonte è fondamentale: gli stilnovisti, o meglio ancora i trovatori, per i quali la poesia era un dialogo imperniato sul senhal e i nomi (anche i loro!) erano un modo di conversare, e non un filtro per rendersi eterni. Si lavorava molto a quell’epoca sul field, il campo olsoniano, la creazione di una struttura. Spicer trovò così la sua: tanto per l’omosessualità quanto per l’irriverenza, l’alta, la cupa irriverenza. Il “campo”, lo spazio metrico o rete per pescatori d’uomini, è, secondo la corrispondenza medievale, la Corte. V’è in questo un aspetto d’elite ancor meglio celato. Questo tratto d’iniziati è quello che più renderà elettrico il circuito poetico: l’opposizione è chiaramente con il polo pubblico. Dice Debord in un testo minore: in epoca opaca è un dovere parlar chiaro. Per questo l’abbiamo pubblicato.
Circa l’accoglienza: Spicer era conosciuto, la persona e le sue poesie. Ma rifiutandosi ad ogni genere di diffusione oltre a San Francisco (era una poesia a km 0 la sua, non ebbe fama nel senso storico-commerciale del termine). Fu riscoperto con la pubblicazione di Gizzi nel 2008. E da lì ha iniziato a piacere: insomma, il postmoderno era imploso e rivelava già il suo cuore capitalista. C’è oggi bisogno d’altro, e quest’altro, poeticamente, Spicer lo ha mostrato.
Jack Spicer ha avuto degli ‘eredi’, ha marcato, intendo, la storia lirica americana contemporanea?
AF: “L’idea di Spicer è preferibile alla sua presenza reale” disse, pare, Duncan. L’eredità deriva irrimediabilmente da questa ricezione. Conosciutissimo all’epoca sua, v’era financo uno Spicer Circle che si riuniva, in un bar. C’erano pratiche orali e comuni, ragion per cui vi furono seguaci di Spicer nel vero senso della parola. Spicer praticava rituali di Magia, per lui l’erudizione era finalizzata alla costituzione di segreto e non già di letteratura, come attestato dai ricordi del suo workshop Poetry as Magic. Lo si invocava come fosse uno spirito. Ma di là dagli esoterismi, si deve sapere che la poesia era cosa orale all’epoca, nella Bay Area (e di contro verso New York era il regno del testo morto, scritto): era presente, e non era letteratura, era canto di bardo, d’aedo. Anche qui non sono sufficientemente esperto in poesia americana per rispondere tecnicamente e con precisione. Ma insomma, di tutti i nuovi americani, così morto come lo fu lui (vedi la poesia “Rimbaud”), non mi pare ve ne siano stati. Ve ne furono in musica, Bird fra tutti. E in pittura, si pensi all’espressionismo americano. Si deve pensare che Spicer si beffava di tutti. Tutti. Di Ahsbery (che chiamava Faggot poet) come di Duncan, di Ferlinghetti come, ma più velatamente, di Creeley e di altri grandi poeti (in AL vedi l’ultima poesia per Marianne Moore). Pare vi sia un rapporto d’ascendenza con Crane, Hart Crane. Ma vi è anche come fonti esplicitamente dichiarate, Poe, Tolkien, e Dracula, e Oz, e Carrol naturalmente (fu Spicer a dare il nome alla White Rabbit Press). Non deve sorprendere se uno dei discepoli della doppia identità Spiceriana sarà Philip K. Dick: si legarono d’amicizia e, pare, gli diede alcune idee di come inventare un linguaggio marziano (un es. di marziano è attestato da Blaser, e anche nelle conferenze Spicer si diverte a rispondere marziano: “Sit ka vassisi von ka, sta’chi que v’ay qray”, cioè “salve”). Curiosamente nell’introduzione Lorca evoca una tomba in cui sono sepolti insieme due personaggi. Dick, che manterrà tutta la vita un rapporto intenso con la gemella morta in infanzia, si farà seppellire assieme ad essa, in una tomba di coppia. Anche qui tuttavia, oltre le speculazioni intuitive, non conosco a sufficienza il tema e le trame per esprimermi oltre a queste pure e mie bibliolalie. Meglio conosco, come si dice per i traduttori muti di cui sopra, meglio conosco l’italiano.
Si veda Spicer in Italia in poeti come Costa, Spatola, Vicinelli, Rosselli, Beltrametti. Si veda la Bay Area a Castelporziano: si stava fuori, e non dentro. Si veda il famoso episodio della zuppa vs. poesia a Castelporziano in relazione con “Gli eroi mangiano zuppa” di Spicer, e ancora con il Buddha Gotama quando disse “per meditare non si deve aver fame”. Si veda il Lorca ballerino e cantastorie di morti secche e rotoli d’amori andalusi arabescati, si veda quel cante jondo nel nostro efebo grecissimo Penna Pederasta. Si creino, insomma, delle corrispondenze. E le si attivino, se si vuol capire. Si attivino le corrispondenze partecipando. Si veda il tentativo di questi nostri dei ’70, il tentativo di avere impatto. Non sarà difficile immaginare quali fonti irriducibilmente orali ebbero i nostri nei Settanta, quali speranze vi furono, quali opposizioni si sollevarono alla massificazione Beat traslata dalla nefasta operazione della Pivano. Si pensi a Spatola, molto. Non fosse che per l’alcol o Malebolge. Sì, Spatola: che non a caso fu il primo a tradurre in italiano una delle sue ultime poesie (“Poesia per Vancouver Festival”). Alla fine di queste risposte c’è sempre però la domanda: e adesso?
Mi domando. Un autore della storia di Jack Spicer è stato pubblicato in Italia grazie al crowdfunding: come mai? Nei ‘piani alti’ non c’è interesse, perciò bisogna partire, riguardo alla poesia, ‘dal basso’?
FO: After Lorca come tutte le pubblicazioni della collana Argo, curata da Valerio Cuccaroni per la rivista Argo in co-edizione con l’editore marchigiano Gwynplaine, si è avvalsa – per scelta consapevole di autonomia – del sostegno diretto dei propri lettori, che da moltissimi anni continuano a seguire il nostro peregrinare. I grandi editori oramai vendono libri a scadenza come fosse carne in scatola, i medi e piccoli sono diventati purtroppo, nella maggioranza dei casi, tipografi, quindi sempre più numerose le collane di Poesia ma sempre più rari i veri Editori di poesia. Ci sono senz’altro molte eccezioni, bravissimi editori, che sperimentano anche nuove forme, e che tutti, almeno noi che operiamo nel settore, conosciamo. Ma bisogna poi sancirne coerenza e tenuta, di proposte e di vendite, di sostenibilità. Occorre invece porsi, io credo, nel luogo ibrido – e ricreantesi – di una comunità poetica, la Città poetica tanto cara al nostro Spicer, situata fuori dai supermercati del libro e oltre l’oscenità del mercato dell’io, nei luoghi sempre differenti, veri e virtuali in cui la parola converge – mimetica – da molteplici altrove – già ibridati e pur sempre transitori – della crisi di presenza che attraversa il Contemporaneo. E darne traccia. E rimettersi al lavoro, poiché poco o nulla da cui Spicer ci proteggeva, come Tiresia o mago, da cui ci teneva in guardia, è stato definitivamente allontanato, o almeno assorbito, dallo sguardo, anzi, sono proprio le correnti confessionaliste a dominare il discorso poetico, in cui “Si ristagna”, come ci ricorda N. Quintane intervistata su Nazione Indiana dal traduttore Andrea Franzoni: “Si ristagna e si sguazza ancora e sempre troppo nel “lirismo”, ovverossia (e questo termine non lo merita ma, in mancanza di meglio e poiché vi è detto qualcosa di invariato, che ristagna, lo utilizzo) in un’idea assai convenzionale della poesia, uno status quo poetico (la poesia, è la bellezza e l’emozione), riflesso esatto di un’aspirazione ad uno status quo sociale e generale: che niente cambia; che l’infamia in cui viviamo e alla quale contribuiamo tutti, ciascuno al proprio livello, giorno dopo giorno, possa essere di tanto in tanto compensata, velata, dissimulata dalla torta poetica, dalla ciliegia su questa torta, dall’immaginazione pasticcera. Spicer non è un piccolo pasticcere della poesia: le sue poesie migliori sono dei coltelli piantati in quel dolce là”.
…e ora? Cosa scrivi, cosa traduci?
FO: In questo momento sta per uscire il mio nuovo libro F i g u r a per Oèdipus Edizioni, un lavoro sull’Alcesti di Euripide che chiude dieci anni di ricerca (con le due opere precedenti Dismissione, Luca Sossella, 2014, opera verbosonora realizzata in collaborazione con il progetto musicale PANE e Per Os, Sigismundus, 2016, partitura testuale dell’installazione artistica Terrraemotus) dedicati alla definizione di una poetica propria, di relazione, per un’idea di eco-grafia, di partitura-paesaggio in grado di abitare lo spazio informe posto tra scrittura e sperimentazione artistica ed intermediale. Quest’ultimo lavoro è il tentativo, fallimentare, di risolvere – rivelare – l’atto finale di un’Alcesti divenuta ologramma, spettrografia di una trasmutazione continua, figurazione di un trapassare incerto, di un esistere umano non più chiamato ad essere. Tutto è crisi di presenza, di presentificazione (in questo dovremmo essere più grati a Ernesto De Martino e alle sue intuizioni). Sul versante traduzioni stiamo proseguendo lo studio dell’opera di Spicer e lavorando, sempre con Andrea Franzoni, su alcune opere che consideriamo seminali, lettere che i nostri fantasmi continuano ad inviarci da un altrove editoriale, dall’etere come un frisbee, e che noi, con occhi spiritati e sali d’argento, rileggiamo alla luce, per meglio dire ombra, del verborama (Appadurai) odierno.