24 Settembre 2019

“Un artista è sempre in pericolo, questo è il suo destino”: quando Isaiah Berlin andò a trovare Boris Pasternak (“parlava come un genio, mi sembrava un po’ matto”)

Un grande autore che ha parlato di nazionalismo, tema mai fuori moda, era Isaiah Berlin (1909-1997). Una bibliografia sterminata, la sua, che si staglia ancora per La volpe e il riccio, Le radici del romanticismo e Il senso della realtà, libri editi in Italia da Adelphi. Come ogni autore che si rispetti, Berlin va affrontato nei punti difficili: non solo nei testi famosi, nelle solite nenie dove spiega che questo grande personaggio storico era astuto e aperto (dunque ‘volpe’) mentre l’altro era chiuso e riflessivo (‘riccio’) tagliando la storia a fette. E poi magari i soliti discorsi su quel che è razionale e quel che sfugge al controllo nel primo Ottocento, di qui i nazionalismi e via così. Nossignori, sotto Berlin c’è di più: questo sito di interviste inedite in italiano lo prova.

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A onor del vero osserviamo che in Italia Berlin godeva di buona stampa da Adelphi perché piaceva all’Avvocato. Cerchiamo però il filo d’oro nel fango dell’opera omnia. Sul sito trovate molte interviste ad argomento ‘nazionalismo’. Berlin sapeva queste cose da dotto, peggio di Herzog nel romanzo di Bellow. Se avete presente Oxford di primo Novecento in Momenti di gloria con quei professoroni espertissimi di Locke, capirete subito dove sguazzava il nostro Berlin quando da Riga – per la spinta della Russia in subbuglio – si trasferì sull’isola inglese e si laureò su Locke. Di qui una rutilante carriera accademica che per lui fu sinonimo del suo lavoro ‘seminale’ (come dicono i dotti) intitolato Due concetti di libertà. Meglio leggere l’intervista del 1991 concessa a Portofino: Due concetti di nazionalismo. 

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L’intervista è fatta con garbo a suon di mazzate: “l’autodeterminazione culturale senza una rete politica che la sorregga – questo è il tema preciso e attuale. Non solo per l’Europa orientale. Baschi e catalani in Spagna, Irlanda del Nord per il Regno Unito, i fiamminghi in Belgio, il Québec in Canada e Israele in terra di arabi. Chi l’avrebbe detto, anche tra gli idealisti di fine Settecento che lanciavano le nazioni? […] alla fine auspico questo: un grado di uniformità nelle nazioni sazie combinato con un buon livello di varietà nel resto del mondo. Ammetto però che la tendenza attuale va all’opposto: autoaffermazione affilata e talvolta aggressiva da parte di gruppi molto ristretti”.

Così ci avviciniamo a capire Berlin che discute di poesia e linguaggio in Pasternak: “credo che il cosmopolitismo sia vuoto, le persone non possono svilupparsi se non appartengono a una cultura, tutte le nuove correnti provengono sempre da qualche sorgente e se questa si secca, quando le persone non sono un più prodotto della loro cultura, quando non hanno né parenti né stirpe e non si sentono più appartenenti al loro gruppo, quando non c’è più la lingua madre – ebbene tutto quel che c’è di umano si dissecca […] se dovessimo arrivare a un linguaggio universale, non solo per scopi politici ed economici ma per conservare e trasmettere scelte emotive, per formare la vita interiore – suppongo che arriveremo tutti a provare lo stesso sentimento mentre guardiamo un concerto di Madonna. Questo non sarebbe il linguaggio universale ma la morte della cultura. Prima si poteva fare esperienza di una saga nordica solo leggendola, non serviva infilarsi in una tempesta del Mare del Nord. Sono felice di essere così anziano da aver provato quella sensazione”.

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Arriviamo a Pasternak. È divertente immaginarsi queste piacevoli parole pronunciate a Portofino dal professore in vacanza mentre i Balcani crepavano: “nell’età odierna il nazionalismo non sta risorgendo perché semplicemente non è mai morto, proprio come il razzismo. Infatti questi sono i due più potenti movimenti del mondo oggi, e attraversano molti sistemi sociali. […] Continuo a dire che lo spirito del popolo è come un ramoscello quando passate nella boscaglia, lo premete in basso quando passate e lo fate con tanta forza che poi quando lo rilasciate, scatta con furia. Il nazionalismo, almeno in Occidente, viene creato dalle ferite inflitte da questo stress. Quanto all’Europa orientale e all’ex Impero sovietico, sembrano oggi una ferita vasta e ben aperta. Dopo anni di oppressione e umiliazione, c’è spazio per una reazione violenta, uno scoppio di orgoglio nazionale, certamente autoaffermantesi, da parte delle nazioni liberate e dei loro leader […] Oggi Georgiani, Armeni e altri ancora cercano di riprendersi il loro passato sommerso, spinto sul fondo dall’immenso potere imperiale sovietico. Le loro letterature benché perseguitate da Stalin sopravvissero: Isakian e Yashvili furono poeti donati al loro popolo; le traduzioni di Vaz Pshavela e Tabidze fatte da Pasternak sono meravigliose a leggersi. Capite perciò che quando Ribbentrop andò da Stalin nel 1939 si presentò con una traduzione tedesca del poema epico georgiano Il cavaliere con la pelle di pantera di Rustaveli. Chi lo conosce in Occidente? Prima o poi gli schianti per rinculo arrivano, irresistibili. La gente è stanca di essere coperta di sputi e di ricevere ordini da una nazione ‘superiore’. Prima o poi sorgono le domande nazionaliste: ‘perché dobbiamo obbedirgli? Che diritti hanno…? E noi? Perché non possiamo…?’”.

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Il poema georgiano lo leggete in inglese qui. Le traduzioni italiane ci sono ma non si trovano più. La prima volta che sentii parlare di questo titolo era un venerdì o un sabato sera, ero in un bunker della Normale di Pisa e insieme con un compagno di corso che mi diceva ‘andiamo da Nika, mi ha parlato del suo poema nazionale, ha a che vedere con una pantera’. Aprimmo la porta accanto e trovammo l’amico georgiano che ci confidò di star lavorando a una continuazione della storia di Rustaveli. Ce lo diceva con pudore, mi colpì come l’abbaglio di un popolo innamorato della sua timidezza. Quando tornai a leggere i libri di storia per dovere universitario, mi sembrò che non contassero un grammo di ragione di buon senso. Che ci avessero presentato una versione della storia schiacciata sulla pace ‘contemporanea’. Che tutto ci fosse dovuto, o quasi. Che il georgiano fosse dalla parte giusta e noi europei a due passi dalla cecità. Per riprendermi dalla nebulosa europea ho chiesto all’amico georgiano qualche notizia di costume: laggiù i genitori recitano le più belle strofe del poema ai figli prima delle elementari così che le sappiano a memoria: “quindi molti bambini di 4 o 5 anni sanno a memoria almeno due strofe dove per la prima volta appare il cavaliere principale, Tarieli. Poi alla seconda elementare si comincia a leggere il poema fin dall’inizio e gli allievi fortunati trovano insegnanti che si prendono libertà nelle scelte e leggono più Rustaveli e meno cose attuali: a me è andata così, quindi ciò che ci è rimasto è la letteratura vera e non certi testi di nessun valore che spesso si insegnano alla prima o alla seconda elementare. Se un georgiano non sa a memoria almeno le prime de strofe del quarto canto è una vergogna, penso”. Chiaro? Se aveste ancora bisogno della benedizione chic, leggete queste righe di Eco per convincervi di Rustaveli.

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Ecco a voi una grande intervista, di quelle discorsive e informali, su Boris Pasternak. Fu condotta a Londra trent’anni fa in russo da Lev Shilov. Nota di passaggio. È curioso trovare un ragionatore come Berlin a dialogo su materie più creative: ma tant’è. Per lui sono un’esigenza di base, anche se poi scriveva in modo molto piano, senza voli. Era pur sempre l’uomo che delle poetesse si invaghiva (vedi Achmatova) quando doveva solo informarsi per ragioni di intelligence su che combinava la Russia. Il testo lo leggete qui, qui trovate il sottotesto palpitante. (Andrea Bianchi)

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Pasternak aveva due sorelle che vivevano a Oxford, ora una se n’è andata, l’altra c’è ancora, e loro mi diedero un paio di scarponi da consegnare a Pasternak. Non sapevo come raggiungerlo. Quattro o cinque giorni dopo la cerimonia letteraria all’ambasciata andai con Madame Prokofiev e Lina Ivanovna a Peredelkino, dove viveva Pasternak. Stava lì con la moglie. Mi salutò calorosamente, gli porsi gli scarponi e disse “no, no, non sono per me”. Era molto sconcertato. “Non penso che siano per me, non ne ho bisogno, penso debbano essere per mio fratello”. Gli dissi che me li avevano consegnati espressamente le sue sorelle. “Oh allora molto bene, ma non parliamone più”. E parlammo. Parlammo di tutto. Persone come Pasternak e sua moglie e altri scrittori sovietici che avevo incontrato erano sotto l’illusione che tutto a Occidente fosse meraviglioso, ma non ne sapevano nulla. Dovevo fargli capire il contrario, che forse in Russia c’erano persone più talentuose, per quanto la cosa sembrasse strana. Mi chiese di Eliot, Auden, poco della Woolf e di Forster, e molto invece di Herbert Read [1893-1968, Il Significato dell’arte è del 1931], il critico d’arte che era un ‘personalista’ come lui, Pasternak. Gli chiesi cosa significasse questa parola: era un anarchismo personale. Conta l’individuo, il suo mondo. Mi raccontò come andarono le cose quando nel 1935 fu chiamato da Malraux al convegno antifascista quando in quell’occasione c’erano Robert Frost e altri.

Poi gli chiesi cosa stesse leggendo. Disse: “Proust”. Non so chi glielo avesse mandato, ma ne traeva molta delizia, anch’io gli lasciai dei libri inglesi ma non saprei dirti quali. Lo rividi solo in un’altra occasione, due settimane dopo a Mosca. Non so di che parlammo, vedi, era tutto così strano ma il suo modo di esprimersi era straordinario. Parlava come un genio, un mezzo matto, a volte non si capiva nulla, altre volte ti batteva in testa, ti affascinava come nessun’altro. Era quello che più si avvicinava al genio: l’unico che abbia trovato in vita mia. Parlava animatamente, mi diceva che si era servito di Shakespeare, ma non era stato pubblicato. Era il ’45 e mi diede due capitoli dello Zivago perché li consegnassi alle sue sorelle. Diceva che era un lavoro corrotto e che non si era potuto esprimere, ma per la prima volta si sentiva orgoglioso, era una cosa bilanciata, ben scritta, chiara, trasparente. Gli chiesi di Majakovskij: disse che non si amavano ma erano amici e che ne fu influenzato come poeta perché era una persona reale con un’anima umana: per questo i due potevano parlarsi mentre con gli altri non ci si poteva dire nemmeno una parola. Ma non capivo chi fossero le persone alle quali si riferiva. A quel punto la moglie mi disse di non far pubblicare Zivago in Italia, i bambini e tutta la famiglia avrebbero sofferto, mentre lui voleva far conoscere l’opera nel mondo. Gli dissi: “Ascolta, Boris Leonodovich, la porterò con me, certamente, ne prenderò una copia. Le metterò in una scatola da qualche parte, la lascerò, non so, in Uruguay, in Islanda, nel sud del Giappone, in vari paesi. La nasconderò perché possa sopravvivere ad un attacco atomico, ma tu non devi pubblicarla”. “Perché lo dici?” mi chiese. Gli dissi: “Per tua moglie, qui”. E lui: “Ho parlato ai miei bambini, sono pronti a tutto, pronti a soffrire, se deve esser così, che sia. Un artista, lo sai, è sempre in pericolo. Questo il suo destino. Non posso fare altro”. Così capii che gli avevo chiesto qualcosa che non avevo il diritto di domandargli. Presi la copia in mano, la portai alle sorelle e penso che la traduzione italiana sia cominciata allora. Dopo, sai cosa è successo. Ne fu felice.

Isaiah Berlin

*In copertina: Isaiah Berlin in un ritratto fotografico di Cecil Beaton, 1955

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