05 Giugno 2018

“Io non sono un mafiologo, ma bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche”: discorso intorno a Leonardo Sciascia

Leonardo Sciascia fu sempre molto criticato sul tema mafia. Si disse perfino che fosse “un diffamatore della propria terra”. Alcuni non capirono proprio niente. Il piccolo e mite uomo di Racalmuto, dalla cultura sterminata, scrisse con riferimento ai “papi invisibili del crimine” due romanzi eccezionali, Il giorno della civetta e A ciascuno il suo, oltre a saggi lucidissimi e politicamente scomodi. Conviene sempre ricordare uno dei più grandi narratori del ’900. Chi aggiunge “della Sicilia” compie un reato letterario. Antonio Motta, bibliofilo e amico dello scrittore agrigentino, ci propone Leonardo Sciascia, la memoria, la nostalgia e il mistero, edito dalla piccola casa editrice Progedit.

La prosa di Sciascia, di questo minatore del pensiero, fu sempre aderente ai fatti, con guizzi pirandelliani. Nessun artifizio, sulla scia del pensiero laico di Guicciardini e di Leopardi. Scriveva nel 1986: “Io voglio subito sgombrare il terreno da una domanda che invariabilmente mi viene fatta e contiene qualcosa di irritante, perché io non sono un mafiologo. Sono uno che ha vissuto dentro una realtà in cui esisteva questo fenomeno mafioso che era legato soltanto alla terra, all’agricoltura, al mondo contadini”. Successivamente predisse che la “linea della palma” si sarebbe spostata sempre più a nord, invadendo la finanza. Frase importantissima: “Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche, mettere mani esperte sulla contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e piccole aziende, revisionare i catasti”. Purtroppo la politica ha disatteso e continua a disattendere questo monito. L’autore ricorda quel che gli disse: “Quando fu pubblicato Il giorno della civetta, mi si accusò di aver inventato io la mafia, che la mafia non esisteva, lo ripeté e autorevolmente anche l’arcivescovo di Palermo, cardinale Ruffini”. A questo punto è quasi inutile ricordare che l’asserzione è stata ripetuta da alcuni politici del nord e non solo. Addirittura c’è stato chi ha affermato che con la mafia occorre convivere.

Sciascia sapeva bene che la mafia cambia volto e metodi. Un giorno ebbe a dire: “Anche la mafia ha la sua morale, una sua regola del gioco. Era impensabile che un mafioso uccidesse un carabiniere, quella era roba da banditismo non da mafia. Poi, a un certo punto, tutto è mutato, ed è mutato in forza del partito della Democrazia cristiana in cui c’è tutto. Un mio amico dice che la Dc è un fatto prodigioso. In un certo senso lo è: perché è inconcepibile che uno stesso partito, cambiando poco gli uomini che lo detengono, nel giro di vent’anni abbia espresso un sindaco di Palermo che è simbolo della mafia e un altro sindaco che è simbolo dell’antimafia. Questo è un prodigio. Certe spiegazioni bisogna cercarle lì”. Continuò dicendo che gli americani, verso la fine della Seconda guerra mondiale sbarcarono in Sicilia con in tasca l’elenco dei mafiosi da sistemare nei posti alti del governo regionale. Nell’isola fu abbastanza forte la spinta separatista. Gli Usa la osteggiarono, e allora i separatisti fecero un passo indietro avvicinandosi prima a un partito poi all’altro. E alla fine scelsero la Dc.

Come molti sanno, Sciascia insegnò alle scuole elementare Generale Macaluso, dal 1949 al 1957. Nel “paese del sale”. Si trovò davanti ai figli dei zolfatari. A detta di tutti fu un ottimo insegnante, che consultava molti testi pedagogici. Eppure lui, timido e schivo, sostenne il contrario: “Sono stato un cattivo maestro”. Sulla rivista Nuovi Argomenti, scrisse nel 1955: “Non amo la scuola; mi disgustano coloro che, standone fuori, esaltano le gioie e i meriti di un simile lavoro”. Come mai? La scuola del suo paese, come scrive Antonio Motta, era quanto di più lontano dalla ragione si possa pensare. Il suo insegnamento, ai poveri figli di poveri, era mite e tollerante. Gli davano fastidio le circolari ministeriali. Inseguiva il sogno di un’Italia illuminista, laica, concentrata sullo sforzo di abbattere l’ignoranza, l’autoritarismo, il sopruso, la diseguaglianza sociale. Chi altro oggi combatte come fece lui? Non molti, credo.

Pier Mario Fasanotti

Gruppo MAGOG