11 Febbraio 2019

“Io non so chi sono”: sulle poesie di Klaus Kinski (che terrorizzano l’editoria italiana). Dialogo con Antonio Curcetti

Questo è un libro che fende, che offende, che afferra, come se ti esplodesse un bicchiere di vetro tra le mani, i frammenti, piccolissimi, si conficcano sotto le unghie, tra le palpebre, sui denti. Il libro è sobrio, dedicato alla circolazione clandestina: titolo maledetto (Febbre. Diario di un lebbroso), autore magnetico (Klaus Kinski), editore che sembra uscito dalla mente di Borges (Nessuno Editore). Il libro va orfano di codice isbn, fuori commercio, come le uniche cose degne, che non hanno prezzo. Delle poesie di Klaus Kinski, il viso più potente della storia del cinema, avevo letto anni fa, in un antico numero – era il 2012 – della mitologica rivista di Crocetti, Poesia. C’era da attendersi un libro. Non accadde. Quasi subito, l’irruzione lirica e iconoclasta di Kinski imprime nel cervello una furia dionisiaca: “Io lecco la pietra annerita dalle preghiere/ sulle mie labbra incerte fiorisce l’herpes –/ io sputo contro il Dio che in ginocchio/ gorgoglia con le ostie come un maiale malato”. In questo flusso di reietti, allucinazioni a piene mani, catabasi nell’immemore del sottosuolo, il maledetto (cioè Kinski) è in fondo l’unico innocente (“io non so niente di quello che i cuori ruminano/ io so solo che da qui al sole c’è il mio angelo”): bisogna sorbire tutti i veleni del mondo – lo detta Rimbaud – per vivere assolti, al sole. Le poesie di KK, redatte nell’estrema giovinezza – tra il 1948 e il 1956 – su cui gravano enigmi, poco prima della vita cinematografica, sono andate perse, poi miracolosamente ritrovate. Pubblicate in Germania nel 2001 e nel 2006, sono state scoperte e tradotte con devozione lisergica da Antonio Curcetti, che ho contattato. Nessun editore italiano di pregio s’è preso il rischio di pubblicarle – KK ha le stimmate del dannato, ancora, e può farsene vanto. Appena giunte le poesie, come gesto liturgico, ho sfogliato la mia copia di Fitzcarraldo. Quando l’uomo mi affligge e il mondo mi è troppo, guardo il film e rileggo il soggetto di Werner Herzog. Rivivo l’epopea di Kinski, in perfetto abito bianco, icona dell’innocenza, il dissennato, l’idiota che vuole portare la musica classica nel caos della foresta amazzonica. La parte finale è superba. ‘Fitz’ che sussurra al pappagallo, mentre l’orchestra su enormi chiatte abbozza Wagner, “al di là dell’equatore non esiste il peccato”; poi scatta la chiusa, con KK che ascolta l’opera, “e questo lo rende felice”. Il film si chiude sul bordo della felicità. La felicità. Questa forma pura che irrompe nell’impossibile, nell’impensato. (d.b.)

Partiamo dalla prima volta che ha incrociato Klaus Kinski…

Ricordo ancora adesso la prima volta che vidi la sua faccia in un western all’italiana, incarnava brutalità eppure irradiava tenerezza, toccava corde “psichiche”. D’altronde negli anni ’70 fu lui a ricoprire i muri di Roma con un manifesto che riproduceva il suo volto e con un’unica parola, “La Faccia”; un’operazione affatto pubblicitaria, anzi, impietosa nel rimarcare il destino d’avere un volto unico e già segnato da una solitudine fatale, così come recita una poesia tratta da “Febbre”: “Caro il prezzo di possedere un volto!”.

Le poesie di KK provengono dai recessi della sua giovinezza, un periodo di cui si sa molto poco. Ci spieghi.

Leggo ancora da una sua poesia: “Io non so chi sono, né chi sono stato, un estraneo davanti a me stesso, eppure giovane e vecchio, quando mi guardo allo specchio – io credevo che la mia casa fosse ovunque, e già ero un profugo ancora prima d’esserci arrivato”. Questo per dire che, quando Kinski diventò un attore famoso interpretando personaggi luciferini e psicologicamente instabili, della sua vita di “prima”, dei luoghi in cui aveva vissuto, poco o nulla si conosceva; si venne a sapere dell’arruolamento nella Wehrmacht, della prigionia e delle prime rappresentazioni teatrali in abiti femminili nel campo d’internamento inglese (così come fece in seguito nel dopoguerra, quando recitò vestito da donna “La voix humaine” di Jean Cocteau), della morte della madre e di una delle sorelle sotto ai bombardamenti alleati. Anche della sua ossessione per François Villon, il padre dei poeti maledetti, cantore di puttane e bordelli e che il giovanissimo Kinski aveva presentato per la prima volta in Germania, dopo aver riadattato e reso ancora più blasfema la traduzione fatta del poeta espressionista tedesco Paul Zech; e di come nei primi anni ’50, dopo il debutto in teatro, Kinski continuasse a leggere poesie di Rimbaud e testi di Dostoevskij, Büchner e Nietzsche, a piedi scalzi e in piedi sui tavoli di oscuri locali berlinesi, lì dove ebbe inizio la sua leggenda di attore folle.

KK scrittore è davvero una scoperta. Che rapporto ha Kinski con la scrittura e perché non ha mai fatto cenno alle sue poesie?

Dopo la morte di Klaus Kinski vennero alla luce molti inediti: sceneggiature, abbozzi di romanzo, tentativi di autobiografie abbandonate sul nascere.  Di lui si conoscevano il “Jesus Christus Erlöser”, dove un Cristo anarcoide predica circondato da genti in lotta contro autorità e morale, o “All I need is Love”, l’autobiografia definitiva pubblicata nel 1989 e scritta con prosa céliniana, dove lui si raffigura come un angelo depravato per bisogno di dolcezza, infine la sceneggiatura del “Kinski-Paganini”, una delle sue maggiori ossessioni, film che realizzò e che lo portò dapprima all’isolamento, poi alla morte. Delle poesie non si sapeva nulla, al punto che, quando le pubblicarono postume, ci fu chi dubitò della loro totale autenticità, forse perché l’attore non ne aveva parlato nella sua egoica autobiografia; altri credettero che una mano-ombra avesse dato unità a dei testi incompleti, finendoli alla “maniera” di Kinski. Quello che sappiamo è che nel 1955, durante un’intervista con un giornalista di “Film Revue”, l’attore dichiarò d’aver scritto nel passato una raccolta di poesie “senza eguali nel suo tempo”, e che in uno dei suoi primi tentativi autobiografici, “Leben bis sommer 1952”, parlando di sé in terza persona afferma: “Scrive più di dieci poesie al giorno, non riflette più, tutto è pronto da lungo tempo. Il cervello lavora in fretta e le parole arrivano come un urlo improvviso”. Prima, nel 1949, Kinski era stato ricoverato a forza nella clinica psichiatrica di Wittenau e di fatto ognuna delle sue poesie appare permeata da quell’esperienza dolorosa, dall’urlo di chi subisce l’elettroshock, quello del poeta coperto di scherno, del reietto che finisce per immedesimarsi in Cristo, del lebbroso o, con una definizione che somma tutte le precedenti, del malato di mente.

In che contesto emergono queste poesie, quando sono state scritte, perché?

Nel dopoguerra Kinski visse a Parigi con Thomas Harlan, figlio del regista tedesco Veit Harlan, autore di uno tra i film più famigerati della storia, “Süss l’ebreo”. Fu proprio Thomas Harlan a ricordare l’amico che gli leggeva esaltato le sue poesie, aggiungendo che il titolo provvisorio della raccolta era “Bergell”,  nomignolo che il giovanissimo Klaus aveva dato a una ragazza norvegese di cui s’era invaghito, magrissima e gravemente malata alla gola, forse ispirato dal nome di un paese della Val Bregaglia, in Svizzera, non molto distante da quello natio di Alberto Giacometti, dove i due amanti erano andati a trascorrere qualche settimana, per poi separarsi. Ritornato a Parigi, Kinski decise di raggiungere Marsiglia in compagnia di Thomas Harlan, dove si imbarcarono come mozzi su di una nave diretta ad Haifa, in Israele; prima di partire, stivò le sue cose in una valigia, lasciandola in custodia presso l’abitazione della famiglia di un amico, dove non tornò più a riprendersela. In questo prematuro stillicidio io vedo l’ombra di un addio definitivo, perché da lì a poco Kinski avrebbe abbandonato poesia e teatro, scegliendo il cinema, diventando l’emarginato di successo in un mondo che disprezzava. Forse non tutti sanno che molti anni più tardi, all’apice della fama, buttò nella spazzatura la “légion d’honneur” attribuitagli dalla Francia per i suoi meriti nel cinema; ma non sarà un caso se, in mezzo all’odio e all’irrisione tributati a tutti i registi e colleghi di cinema con cui aveva lavorato, quasi con consapevolezza sadiana sull’universale prostituzione, Kinski avrebbe ricordato con piacere solo gli anni in cui recitava Villon e Rimbaud davanti a pochi spettatori.

Come sono state scoperte le poesie di KK?

Quando Kinski divenne un attore famoso, qualcuno si ricordò della grossa valigia lasciata in custodia per decenni nella soffitta di una casa borghese; la trovarono vuota, incolparono una domestica non più a servizio d’averne sottratto e venduto il contenuto. Passarono altri due decenni, finché a otto anni dalla morte di Kinski un centro d’aste di Monaco mise in vendita una collezione di memorabilia appartenuta a un medico scomparso qualche tempo prima; assieme a molti materiali sul cinema tedesco, c’erano anche le poesie di Kinski vergate in grafia Sütterlin, o dattiloscritte in inchiostro rosso. Oltre a disegni autoritratti e fotografie, c’era anche la copertina che Kinski aveva ideato e che raffigurava una scimmia legata da un viluppo di corde; questo lotto fu acquistato da Peter Geyer, uno sconosciuto giornalista tedesco che dal 1999 ne amministra ufficialmente le sorti. La prima edizione di “Febbre – diario di un lebbroso” apparve in Germania nel 2001 per la Eichborn Verlag, introdotta da un testo di Thomas Harlan, che rievocava gli anni trascorsi in compagnia di Kinski; letta la notizia in un trafiletto di settimanale, riuscii a procurarmene una copia. Così mi gettai in quello che la liturgia ufficiale aveva e avrebbe espulso, vagai nella lingua tedesca alla cieca e fu un’esperienza opprimente per chi viveva con me.

Come ha tradotto KK? Che tipo di esperienza è stata penetrare la sua poesia? E poi… perché la pubblicazione per un editore clandestino?

L’insieme delle poesie costituisce un canto nevrastenico modellato sull’uomo “fuori di sé”, com’era il Cristo di cui riferisce il Vangelo di Giovanni, e il loro messaggio finale sta nella sfida estrema di chi, rispedendo a Dio la responsabilità delle proprie colpe, cerca la propria morte pur non volendo morire. Tradurre questo garbuglio di luci e ombre in conflitto, pronte a scannarsi eppure complementari, è stata un’esperienza travolgente e ossessiva; oltre a dare forma alla componente visiva in tutta la sua potenza, bisognava fare i conti con la forte percussività del testo tedesco pensato per la recitazione. Non volendo e non potendo mimarla, ho accentuato la tessitura di dissolvenze, una dinamica ritmica più interna e sostenuta dal battito di allitterazioni consonantiche che aiutano a scolpire il verso nella testa; oltre a far deflagrare il senso sul fronte del significante più che del significato. E ora che quell’esperienza vertiginosa è “sfinita”, posso dire d’essere contento d’aver dato voce a poesie che fanno a meno d’ogni idea consolatoria di perennità dell’arte, che inseguono il sensibile ma non la metafisica; sono soprattutto contento d’aver messo in fuga quasi tutti, la grande editoria spaventata dall’orco e quella cosiddetta alternativa, invecchiata e senza più il coraggio della pura perdita. L’unico che le avrebbe pubblicate e senza preoccuparsi delle conseguenze di doverlo poi giustificare, è stato Nicola Crocetti, costretto però al ritiro dalla rapacità del mercante tedesco. E così questo libro, metafora della cacciata dall’Eden editoriale, restituisce Kinski alla clandestinità di quei locali fumosi dove iniziò a declamare poesie; e anche ammantata di fugacità, quest’opera è destinata a diventare un classico profano nel senso letterale del termine, ovvero quello di starsene “fuori” imprecando davanti al tempio.

Gruppo MAGOG