15 Gennaio 2019

“Io ho trovato salvezza nella poesia”. Altro che Cesare Battisti, il vero, grande scrittore risorto dopo la lotta armata si chiama Enzo Fontana. Lo pubblicava Mondadori, oggi è editorialmente latitante

Il ‘caso’ Battisti non ha solo risvolti giuridici e giudiziari. A me importano quelli letterari, come si sa, mi sia perdonato. Cesare Battisti è, narrativamente, un ciuco, piacerà ai francesi, a me non piace, non è buono, chiusa lì. Non è chiuso lì, invece, il tema della letteratura in carcere. La letteratura, di per sé, è carcere, è mercimonio di prigionie. La letteratura non assolve nessuno: il carcere può essere un buon luogo per buone scritture – lo è stato per Cervantes e per il Divin Marchese, ad esempio – oppure no. La prigionia, soprattutto, è metaforica. La letteratura mette alla prova – è una prova di clausura. Ora. Da tempo – fa fede l’articolo qui sotto, che ho scritto su Linkiesta esattamente un anno fa – cerco di capire perché, editorialmente, si siano perse le tracce di Enzo Fontana. Fontana“Un’autentica anima in pena. Diciottenne, prese la strada della rivolta armata”, è la biografia che orna l’“autobiografia culturale” di Enzo Fontana, Mia linfa, mio fuoco, un libro eccezionale per capire come i libri possono salvarti la vita, possono convertire al micidiale, al rischio vero. Vent’anni di carcere. Una lenta resurrezione leggendo la Divina Commedia, Jack London, la Bibbia, Lev Tolstoj, Gilgamesh. “Oggi non sono più un nemico dello Stato: la vita, non la più totale delle istituzioni, mi ha lentamente indotto a guardare il mondo con occhi meno severi. Ma avversario di chi abusa di un potere, di chi si approfitta per il fatto di indossare una divisa, lo sarò sempre. Ho visto calpestare leggi e uomini più da certe guardie e da certi funzionari che non dai fuorilegge”. Non domato, perché la salvezza è irrequieta. Beh, di Fontana, romanziere pubblicato da Mondadori, Marietti, Laterza, Spirali onorato, nel 1999, con “un premio alla cultura conferitogli dalla Presidenza del Consiglio dei ministri per meriti letterari”, si sono perse le tracce, è editorialmente latitante. Leggetelo, però, vi prego, perché lui è l’emblema del riscatto attraverso la scrittura, perché la letteratura è questo abominio dell’uomo, una spremitura fino all’ultima luce. Il resto, sono fandonie. (d.b.)

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Il successo è proprio una puttana. In una biografia ancora reperibile in rete, questo covo di porcate e di déjà vù, è detto “scrittore di successo”. Oggi, in realtà, se dico Enzo Fontana pochi alzano la mano, sanno chi è. Enzo Fontana ha fatto la guerra, la guerra civile degli anni Settanta. “Diciottenne, prese la strada della rivolta armata”, dice un’altra, devota didascalia. Per questo, l’hanno messo in carcere. Milanese, classe 1952, nel 1996 pubblica per Mondadori Tra la perduta gente, un romanzo sulla vita di Dante, che diventa, come si dice, un ‘caso editoriale’. Fontana pubblica una manciata di altri libri, tra cui L’ultimo viaggio di Ulisse (Laterza, 1999) e Il fuoco nuovo (Marietti, 2006, sulla calata in Messico di Cortés e l’incontro con Montezuma), che ne fanno uno degli scrittori contemporanei più importanti degli ultimi due decenni. Poi scompare. Oggi, in questo Paese di irreparabili lacché, è pressoché introvabile, i suoi libri non si ristampano più. Nel 1996, sulla ‘cresta dell’onda’, Fontana compila, per l’editore Guaraldi, una specie di canone dei suoi classici. Il libro si chiama Mia linfa mio fuoco e ha diversi pregi. Intanto. Fontana non ‘commenta’ i testi, se non sommariamente, come fanno gli attuali scrittori appesi al trombone della propria insipienza. Non parla lui, fa parlare i testi. E sono testi, come è lui, conturbanti, che torturano: da Jack London (Il vagabondo delle stelle) a John Steinbeck, dal Qoèlet al Faust, dai Lusiadi del portoghese Luis de Camões (“per giorni e notti mi aprì orizzonti oceanici”) al Cántico spiritual di Giovanni della Croce. Soprattutto, Fontana ha una idea fieramente forte di letteratura, mica roba da intellettuali intorno al tè come è quella che propala Di Paolo. “Io ho trovato la mia consolazione, se non la salvezza, nella poesia. Per salvarmi mi sono creato un mondo dove il tempo non è scandito dall’aprirsi e dal chiudersi dei cancelli di ferro, dal tintinnare delle chiavi in mano al capoposto, dal mestolo che il detenuto picchia contro il carrello del vitto, dall’ora d’aria, dalla parola d’ordine urlata a squarciagola dalle sentinelle sul muro di cinta, dalla luce accesa in cella ogni due ore nel cuore della notte, dalla battitura delle sbarre alle finestre che le guardie compiono due volte al giorno… mi sono isolato in un mondo dove il tempo è scandito dalle cose che scrivo e dalla lettura dei buoni libri: Omero, Virgilio, Shakespeare, Cervantes, Goethe, Tolstoj… La Commedia e la Bibbia, più di qualunque altra opera, mi hanno consolato”. La letteratura non è consolatoria – facile moina per lettori beoti – ma consola, conforta, fa forti nel covo del proprio niente. La letteratura è questa: una cella fuori dal tempo, una prigionia, l’evasione, l’invasione delle parole. Qualcosa che precede tutte le morti.

Davide Brullo

Gruppo MAGOG