08 Luglio 2018

“Io faccio il poeta, lancio malumori oltre il casolare”: l’epopea poetica di Mario Trufelli, tra Betocchi e Fellini

È un acquerello di Alina Kalczyńska quello che troviamo sulla copertina della raccolta poetica Prova d’addio (1951-1991) di Mario Trufelli (edita da Scheiwiller, a cura di Franco Vitelli; in cima, un “Ritratto di Mario Trufelli” di Pietro Consagra, del 1985s), che corona meritatamente il suo lungo e paziente lavoro di cesellatore del verso. L’opera pittorica imperversa di luce, è avvolta da un invisibile stupore, bacilli di segni e cromie raschiano dolcemente il biancore di fondo, sembrano coriandoli che ai lati cercano di scheggiare gli unici angoli lividi, presagi di caducità. Il titolo, dotato di un singolare umorismo, forse, vorrebbe esorcizzare l’ultimo saluto, focalizzando i volti e le espressioni più care – dagli amici Sinisgalli e Scotellaro, toccando la fedeltà al suo mondo lucano – fino alle tensioni private e umorali, come se fosse dietro uno schermo e durante un’intervista, l’autore stesso dicesse, come ha fatto nella sua celebre e pluritrentennale attività giornalistica: «rifacciamola, ancora una volta». Alla morte vuole arrivarci preparato e senza timore, non è la prima volta che l’ha guardata negli occhi – l’incontro ravvicinato gli valse il prestigioso premio Saint-Vincent –, visto che durante il tragico terremoto dell’Irpinia avvenuto nel 1980, fu il primo corrispondente della rete nazionale a recarsi sul luogo delle vittime.

Lo status di infaticabile cronista del vero lo obbliga a riconoscere il Sud in tutte le sue contraddizioni, se la memoria è viva attraverso un pellegrinaggio sentimentale, nondimeno è pulsante quando denuncia il potere clientelare e le lugubri atmosfere di protezionismo, in Paese avverte che se non si vuole che incancrenisca l’anima, bisogna necessariamente valicare il confine della terra immobile: «Le stagioni ci assediano con te/ ci assaltano i pezzenti sulle porte/ siamo stanchi, vogliamo fuggire. E tu non senti il tempo/ perduto nelle case, la tua pena che ti cresce attorno, paese?». Se pensiamo che la Basilicata è il luogo con il più alto tasso di migrazione, l’83%, in tutto il territorio meridionale, tristemente attuale è la lettera di Trufelli che scrisse al suo editore Rebellato, datata luglio 1958, in cui disarma il proprio cuore: «anche noi ora vogliamo abbandonare per non morire soffocati nella nebbia del conformismo e del compromesso, perché abbiamo creduto nella cultura non solo come a un’esigenza interiore di completamento, ma anche come a uno stimolo essenziale per il progresso del popolo. Tante volte però mi chiedo se la colpa non è nostra, che forse non ci siamo avvicinati al popolo».

Il poeta e giornalista lucano, nato a Tricarico, vive a Potenza, il prossimo luglio compirà ottantanove primavere, si presenta a me con quel garbo antico e con quella sveltezza negli occhi, prerogativa di quelle pietre preziose del Novecento, che riescono ancora a scolpire la realtà con rinnovato innamoramento. Il salotto di casa è un palcoscenico sognante, le tracce del suo universo privato sono vivide nei quadri degli amici pittori Consagra, Maccari, Melotti, Corneille. Ci fermiamo entrambi ad ammirare il disegno de Gli amanti, di Carlo Levi, i due profili che si fondono, le mani intrecciate, la scia di capelli che si confonde l’una sull’altra, gli ricordano il sodalizio con sua moglie Nietta, che con un cenno discreto della mano, mi saluta dalla porta della cucina, vigile sull’acqua che bolle. L’efficacia dei versi, quelli che connotano più di tutti la maturità del sentimento, sono riscontrabili nella loro immediatezza quotidiana, dove in una coppia, se si ride assieme, senza dare alcun giudizio, si può sconfiggere chiunque, in Sto bene al sole: «Sto bene al sole accovacciato/ sotto il tuo sguardo/ rassicurante. Lontano dai rimorsi/ al riparo dagli occhi della gente/ posso mettermi a nudo/ un po’ ilare, un po’ demente». E viene a sorprenderci una specie di spaesamento, sulla linea di un post ermetismo che convoca un personale bisogno narrativo, in bilico tra il prosaico e il sublime, qui il discorso amoroso, se insinuato nel vortice ludico, si arresta prima di partire, in La giostra non funziona: «Qui davanti a noi c’è la giostra/ e son due giorni che piove/ e la giostra non funziona. I cavallucci di legno li muove il vento./ Io guardo la ragazza/ del tiro a segno/ quella che fino all’altro ieri/ non dava retta a nessuno/ ora mi guarda./ Ma ho quindici lire soltanto/ non si muoverebbe la giostra/ solo per me».

Incoraggiato da Betocchi e da De Libero per il respiro uniforme che sta sviluppando nei suoi versi, più di tutti resta meravigliato Caproni, scovando nella poesia intitolata Malinconia, un trait d’union fra bestialità e lucidissimo dramma, in cui il poeta, seppur voce del deserto, rischia di echeggiare dappertutto, così bisogna sopprimerlo, per preservare la quiete immonda: «Sono sperso come i cani randagi/ che uccidono a fucilate/ sulla collina… E pare senza fine/ l’ira degli scoppi per le vallate». L’illusione di aderire ai giorni e completare la vita coi propri affetti si rivela un sentiero impraticabile per la pazza di Via Gelso, una giovane donna così ribattezzata dagli abitanti del paese, rea di cantare sola per strada. Il componimento intriso di rara commozione, risale al 1951 – ventisette anni prima della legge 180, meglio nota come legge Basaglia –, e testimonia quanto fosse diffuso il classismo e il marciume di una società e di un sistema sanitario nell’etichettare alcune stranezze e singolarità come veri e propri disagi psichici. Alla ragazza, il vicinato le disse che sarebbe andata a Pompei per sposarsi un bel giovane, ingenuamente ci credette: «Stasera per te c’è riguardo/ hai la camicetta a fiori/ le scarpe tinte col nerofumo. E ridi alle amiche di via Gelso,/ con loro saltavi alla corda/ cantando lo stornello della trebbia.// Porti l’eredità di tua madre,/ pazza felice a voce alta/ andò verso l’inferno. Per te/ hanno teso l’inganno/ di un viaggio di nozze». Ma le visioni interiori si esprimono anche nei ritratti più leggeri, in cui la nostalgia del tempo presente non archivia mai i fantasmi della giovinezza; infatti la poesia dal titolo Convoglio Novantatré fornisce una coralità di volti goliardi che invoglia certi frames de I vitelloni di Fellini mischiati ad alcuni del film Amici Miei di Monicelli: «Siamo in quattro sul muricciolo/ della ferrovia. Passa ogni sera un treno/ con l’imperiale bassa e la loggetta a belvedere.// Io faccio il poeta, lancio/ malumori oltre il casolare./ Giuseppe parla continuamente/ male di una donna/ conosciuta in un caffè.//Aspettiamo l’ultimo treno, il convoglio/ novantatré delle ventidue e cinquanta/ sempre in ritardo. Con puntiglio/ Michele controlla l’orario, Rocco il fabbroferraio si affretta/ per un bicchiere di vino e Giuseppe/ tutte le sere, tradito dalla nostalgia,/ si chiama rimbambito/ prima di andare a letto». Trufelli infine, non entra nel museo degli adulti, esibisce senza indugi le sue piaghe mortali, per lo stremo della mancata paternità, gli spetta l’identità del dolore, se sanguina il petto, aspetta che la brezza ionica possa lenirgli le ferite di una vita. Bene ammoniva: «Nessuno è padre a un altro». Per conoscere suo figlio, gli basterà riavvolgere il nastro della sua esistenza, ricominciando la vita al contrario. Il processo è già in atto per «un fanciullo che muore in ritardo».

Augusto Ficele

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(L’articolo di Augusto Ficele, “Mario Trufelli: una voce fuori campo” è pubblicato in origine da Treccani, qui)

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