21 Giugno 2019

“Bisogna assecondare una voce, acciuffarla coi denti. Io, per esempio, con la lingua faccio del sesso spericolato”: dialogo con Francesco Iannone

Gli dico Pedro Páramo e non fa verso. Intendo: il rito meridiano, la tenebra grave del Meridione, in Arruina (il Saggiatore, 2019), possono stare nel Messico corrusco di Juan Rulfo, nel Cile di José Donoso, nel Brasile di Guimarães Rosa, tra boscimani e sciamani, in una trionfale mascherata – cenere che si fa corpo – che mi ricorda quando Pier Paolo Pasolini voleva ambientare Eschilo in Africa, che genio!, perché i primordi non sussurravano, pietra arsa dall’incuria, ma urlavano con fervore di iena, in favore di sangue. Dunque, sì, qui c’è la rovina della lingua, la decapitazione del linguaggio e Francesco Iannone – “è il suo esordio nella narrativa”, ci avvisa la nota smilza – vuole scrivere sangue, vuole traslare il verbo in carne, la retorica in carie. Così, Nerissima e Sperduta, ’O ’Mpasturato e Poeta Antico stanno nell’ogiva meridionale nel senso che sono il Meridione del sasso, la luce da cui cominciò il dire, terra/pane, parola/prepuzio, per questo, questo libro non va letto ma odorato, partecipato, scosceso, discesa tra le ombre del ‘fu’, funesto rito. “Dovrei imparare ad uccidere il mio io. Dovrei farlo tacere con il suo canto storto, strozzato, impreciso, fuori tempo, troppo calante, troppo imperfetto, troppo umano… La morte mia e la morte di tutti, il disfarsi dei corpi, così mortali, così mortalmente riducibili, che senso ha? Le mie sere finiranno con me, sentirò tossire il firmamento sulla mia testa, un’ultima volta, e terrò con lui il mio dialogo più bello, dirò ogni cosa di me, di noi…”. Con questa lingua che è dedica ai morti – come chi, appunto, raccolga le lingue dei cadaveri e le semini in terre messe a maggese sperando nella crescita di ulivi – nasce, eretto, un libro arcaico, eppure scritto da un autore così giovane – classe 1985 – forse a mo’ di monito, o forse, semplicemente, perché ogni libro è l’ultimo e trapana la morte. In realtà, esordiente alla narrativa, Iannone è nato da tempo alla poesia: nel 2016 per Aragno pubblica Pietra lavica, che ha vasta risonanza critica. Piuttosto, si potrebbe dire, a mo’ di nota parziale, da approfondire, che i narratori più avvertiti, oggi – cioè, quelli che s’installano in un linguaggio e lo impongono – sono quelli che si sono svezzati nella pappa poetica, penso a Daniele Mencarelli, ad Andrea Temporelli, a Laura Pugno, per dire, a Iannone, ora, e a Gian Ruggero Manzoni, prima. Ma non è questo, qui, il tema. Il tema, piuttosto, è questo: “Piove magnifico fra i ruderi, piove incessantemente sulla polvere e noi tocchiamo le nuvolette che la polvere genera, le tocchiamo cautamente come fossero di carne. Qualcosa di increato trema sotto i nostri passi, e tremando esiste. Potrebbero essere ossicine, bambine sgozzate, potrebbero essere scheletri di rane, stragi di formiche, ogni cosa potrebbero essere, cose condannate a vivere qui, con i falchi che cacciano selvaggina fra rugiada e fango”. L’ultimo getto è proprio del poeta – musica ha splendore sul resto, sul restio, senti: selvaggina fra rugiada e fango. L’altro è la rovina, in forma di memoria e d’acqua, necessaria per dissotterrare l’ossessione e mutarla in caccia cardinale. (d.b.)

Intanto. Da dove viene Arruina e che lavoro ha preceduto l’annuncio di quel linguaggio così arcaico, dalle sementi liriche? A me ha ricordato (per pura impressione ‘sonora’) la lingua pietrificata di Juan Rulfo. Dimmi.

Ho immaginato di scrivere Arruina rannicchiato nello stomaco del mostro che inghiottì Giona. Arruina è cresciuto lì dentro, in quello spavento. Ma Arruina per me è anche la realtà che non si racconta. È la traccia, l’avvistamento fra le macerie. Ed è pure la determinazione del soccorritore che cerca sopravvissuti sotto gli accumuli di pietre e calcinacci. Non è un elogio del disastro, sia chiaro, né una compiaciuta narrazione delle rovine, così in voga oggi. È piuttosto un orientarsi nei cunicoli di bui ipogei scavati sottoterra provando ad accordare il proprio passo all’eco degli zoccoli pestati sulla terra dalla mandria chissà dove. E questo sembra molto simile alle dinamiche della umana esistenza. Un viaggio camminato fissando la crepa, e la luce che talvolta da essa ne viene. Si vive per quei barlumi, rincorrendo quegli abbagli. Ho usato la Salerno selvatica del Cilento più estremo (Roccagloriosa, Acquavena, Torre Orsaia) perché un grido potesse ampliarsi ed echeggiare enormemente lungo i costoni delle rocce che ne caratterizzano il paesaggio e che il mare lo possono soltanto sognare tanto ne sono lontani. Così come noi siamo distanti dalle verità che riguardano la nostra vita, verità sognate, desiderate e perciò già reali, per il fatto stesso di poter essere concepite.

A un certo punto appare il Poeta Antico e oltre a chiederti: chi è?, ti chiedo di specificare l’influsso della tua scrittura poetica in quella narrativa. 

Il Poeta Antico nasce dal rapporto personale con due poeti che mi si sono incistati nella carne come uomini prima ancora che come poeti (ma non meno vera sarebbe l’affermazione contraria): Alfonso Guida e Gino Scartaghiande, gli autori, fra le altre cose, di Irpinia e Sonetti d’amore per King Kong. Due poeti a cui devo umanamente moltissimo. Da loro ho appreso il valore della concessione di sé, e per motivi diversi. Non ci si sottrae alla guerriglia, nessuna croce può essere posata a terra, pena una felicità monca, mutilata. Sembra un ossimoro, lo so. Ma c’è allegria anche nei gorgogli che fa il sangue quando tumultua nel taglio. Ogni cosa corre verso la casa della fine, che forse è anche la casa dell’inizio, chissà.

Che ardore ha il tuo linguaggio? Intendo: pensi che per giungere a una certa postura linguistica sia necessaria anche una scelta etica, una disciplina, ecco? 

Non preferisco parlare di linguaggio perché mi fa pensare all’artificio, a qualcosa di premeditato. O comunque ad una prevaricazione dell’autore sulla parola. Ad un atto di arroganza estrema. Meglio parlare di lingua. E anche nella scelta di una lingua credo sia necessario sgonfiarsi di se stessi. Assecondare una voce, acciuffarla con i denti. E infine esserle fedele per tutto il tempo che ti chiede. È una grande prova di umiltà. Non è sempre facile mettersi da parte, subire l’ingombro di una presenza altra. È una dinamica erotica, ha a che fare con i corpi, con i loro spasmi e turbamenti. Perché la lingua è un corpo a tutti gli effetti, e ti sceglie. E tu ci fai del sesso spericolato.

A chi scrivi, perché? A chi hai lanciato questo libro in particolare, per quali occhi è apparecchiato?

Non vorrei sembrare spietato o cinico. Ma quasi mai penso ad un ipotetico lettore quando scrivo. Scrivo per fame. E quando si ha fame si raschiano le briciole dal pavimento e ci si copre la bocca con la mano mentre le si mangia per non essere visti da nessuno. Se hai fame sei egoista e ti ingozzi del poco che trovi nascondendoti dentro un antro buio di caverna affinché nemmeno l’odore possa diffondersi di quel cibo. Poi capita un giorno che qualcuno senta nostalgia del pane come te, e quello potrebbe essere il lettore. Una fame che incontra un’altra fame.

Dal ciglio di questo libro che, mi pare, vuole essere senza assoluzione, ti chiedo un giudizio sulla letteratura italiana, oggi. Ci stai bene? Come ci si può stare?

È sempre più difficile riconoscersi in ciò che si scrive oggi. E, in verità, non mi salgono alla mente molti nomi. Imbarbariti dal mercato, critici e scrittori hanno smesso di scavare nella loro fame e li vedi adagiati sulle piume del perbenismo letterario. Ciò che per uno scrittore ad esempio rappresenta un pretesto, come in Arruina certe suggestioni meridionali, per chi è chiamato a giudicare diventa subito lo scopo finale del testo, il suo significato definitivo. Ed ecco l’equivoco, il fraintendimento. Io non ho la presunzione di introdurre nessuna novità. Tutto è già stato detto e raccontato. Confido molto nella lingua, perché è lì dentro che ancora possono avvenire i miracoli, almeno quando si parla di libri.

Che valore ‘politico’ ha il tuo romanzo? Come si installa, cioè, nella Storia? O ne è meteorite laterale, candido, candidato solo a se stesso?

Arruina è volutamente non collocato in un tempo determinato. Né è in sintonia con nessuna delle odierne tendenze letterarie. È linguisticamente respingente. E più che farti carezze, ti sgancia sonori ceffoni sulla faccia. Ha un andamento che stordisce. Ti costringe a pause, rallentamenti. Diciamo che non sono stato per nulla scaltro. Quando mi innamoro, ad esempio, non sono di quelli che diventano più cortesi o accomodanti. Ma, per tutela di me stesso, sono ancora più insopportabile del solito. E forse Arruina ha un certo livello di insopportabilità che ha ereditato da me. Ma poi, è sopportabile la vita? E il dolore? E la gioia, come la si addomestica?  La vita ha di questi eccessi, e la letteratura, perché ha a che fare con la vita, è eccesso essa stessa. È lo spazio dentro il quale si avvera il pandemonio. Lo si può osservare rappresentato fisicamente. La letteratura ne diventa specchio e riflesso insieme.

*In copertina: Francesco Iannone secondo Chiara Pardini

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