29 Settembre 2019

“Ogni scrittura è apocrifa. Sono sbalordita nel vedere tanti romanzi inoffensivi nelle librerie, privi del rischio di ardere”: una lezione di Ingeborg Bachmann

Una lezione di Ingeborg Bachmann (1947), dal titolo originario “La febbre e il limite”, in difesa della scrittura apocrifa, perché sia realmente “questione di vita e di morte trascrivere voci”.

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Signore e signori,

sono qui ancora una volta a parlarvi di scrittura. Non di commemorazioni, convegni, centenari, bicentenari, genetliaci, riscoperte postume, ma della scrittura.

E allora comincerò a dirvi la mia verità: ogni scrittura è apocrifa. Ogni scrittore, in quanto opera nel segreto del suo spirito, è apokriphos, segreto, e il suo apprendistato si esercita con una lingua scritta e consumata nei secoli da altri scrittori, vissuti prima di lui e alla ricerca della loro anima. Cosa significa tutto questo? Che lo scrittore, proprio perché è autentico, si abbevera alla fonte da cui altri hanno già bevuto. Non vi sembra straordinario e contraddittorio? Una sincerità dell’anima che si basa su una forma di vampirismo? A me sembra splendido e assoluto. Dirò di più: inevitabile.

La scrittura, quando espelle i suoi prodotti letterari, diventa quello che deve essere: un’etica del pensiero, una direzione del sentire: una forza che ci strige lì, nel regno della parola a sperimentare, in modo scandaloso, l’inadeguatezza dei nostri strumenti. Ma ognuno canta con la sua voce, indossa la sua maschera, cammina con il suo passo. Ed è osando il proprio tono e non un altro, preso a prestito dalle tradizioni della letteratura, che la scrittura smette di essere inoffensiva e diventa energia pulsante e trasgressiva, diagramma spezzato di una febbre.

Anche un romanzo di successo, con le sue psicologie logore e i suoi paesaggi dèja vus, è apocrifo perché un autore inventa comunque un personaggio altro da sé: comico è il sussiego con cui le azioni e i pensieri del tronfio protagonista sono descritti dall’occhio vanesio dell’io scrivente come tappe esemplari dello sviluppo di una verità. Divagazioni impressioniste, biografie romanzate, cronache giornalistiche, resoconti storici: stupisce la volgare sicurezza con cui la scrittura pretende di dipanare, risolvere, classificare, con l’Autorità della scrittura.

Ma, dentro questa ridicola autorità si può essere scrittori? Si può realmente evitare, nel momento in cui si dice io, l’identificazione allucinatoria con il personaggio che osa dire io? I veri poeti sentono questa folle adesione a una forma di bellezza e scrivono un’opera poetica sempre coerente, non casuali raccolte di versi.

Sono sbalordita nel vedere tanta scrittura dilapidata nelle librerie, inoffensivi esercizi stilistici, trattati di cucina e di ginnastica, pamphlets sulle regole del benessere, e quanto l’utopia della letteratura, il rischio di ardere delle proprie parole, il gettarsi allo sbaraglio con lo scopo di trasformare, influenzare, mescolare passati e futuri, sia considerata solo un’antiquata retorica da “romantici maledetti”.

Non sto parlando, ovviamente, di trasformazioni linguistiche: con la lingua hanno giocato e sperimentato non solo le avanguardie. Riscopriamo alcuni autori barocchi o medioevali e vedremo che il surrealismo è una rivelazione già preannunciata dalle bibbie dei monaci e dai trattati di oniromanzia.

Ma il gesto – quello che determina la scrittura – dove trovarlo? Lo scrittore apocrifo non gioca con la storia, non divaga con i destini, non costruisce biografie: prende una vita umana, consegnata all’erbario delle storie dell’arte, della poesia e della filosofia, e la provoca, la smaschera, la interroga: le fa rivelare sorprendenti segreti, fantasie più vere della realtà, che fanno esplodere tutte le storie e tutti i cimiteri, riconsegnando alla vita quanto di una vita è stato immaginato vivente.

Ecco di cosa ci parla sempre la scrittura apocrifa: di questa scandalosa, calda, insopprimibile vita. La vita di chi ha vissuto o tentato di vivere con l’etica del suo pensiero è ancora tutta da esplorare. Il suo destino terreno si è concluso ma solo in parte. Bisogna perturbare il passato per scoprire le prospettive nascoste da altri destini: ma il compito è immane perché alle nostre spalle non ci sono solo enciclopedie letterarie o biografie romantiche ma anche tutta quella sterminata popolazione di anime ignote che solo nella folle fantasia dello scrittore apocrifo possono ritrovare la voce. Sarà sempre una voce falsa, come sempre falsa è la scrittura, ma di un falso assolutamente vero, sostenuto da una necessità etica: quella di dare forma all’impossibile e pensiero all’impensabile.

Non saprei concepire migliore utopia: scrivete in questo senso, se volete scrivere. Se invece amate l’ars scribendi, crepate pure nei vostri peccatucci lirici. Io vi consiglio di pensare la scrittura come io penso il mio corpo percorso dal sangue. Non godete delle singole immagini, non rendete l’arte una consolazione da femminucce. Pensate che è vostra, nell’arte, se lavorerete come ossessi, la scelta di una traiettoria e di un destino che non vi consentirà scampo, e questo destino è apocrifo: sia che parli di sé, del fratello, del padre, della madre o di un altro personaggio, lo scrittore è condannato a essere apocrifo, a dire quanto sarebbe indicibile, a parlare di quanto varca i confini della parola.

L’atto di scrivere è apocrifo perché la pagina nata dalla volontà dello scrittore parla della sua alienità dalle forme sociali, del suo scaraventarsi verso il proprio destino, oltre le rassicuranti leggi della grammatica del ‘bello scrivere’, derise in modo implacabile e definitivo dal Bouvard et Pecuchet. Ma nella pagina scritta vibra anche tutta la determinazione del gesto che è stato svelato e non ci sono esercizi, favole, generi e nuore letterarie: solo un fuoco che brucia del suo essere fuoco, che scrive e riscrive l’impulso da cui è generato.

In questo secolo gli scrittori si cercano in chi, per somiglianza di passione e di follia, nei secoli passati, ha cercato ciò che loro vanno cercando: una verità etica, un momento in cui il dire, simile al non-dire, espone con ardore il suo tormento. La maschera dell’apocrifo diventa così la via della scelta, la tensione del proprio destino. L’uccello canta o la pianta fiorisce, ma quell’uccello e quella pianta parlano delle stagioni passate e future che giustificano quella presente come la luce le ombre infinite che l’hanno generata.

Ci sono coincidenze che rendono l’immaginazione un povero riflesso che graffia appena la realtà sommersa. C’è sempre un momento in cui la mano che scrive, mozzata dal corpo, non ha necessità di avere un nome che la definisca, un’identità che la giustifichi.

Io ho sempre cercato una lingua universale, la lingua dei perduti e dei giusti; l’ho cercata nel passato, la cerco nel presente, la cercherò nel futuro: ma in realtà non è una lingua, è un gesto costruito dalle unghie della mano, una carezza modellata dalla carne delle dita, una posizione conquistata, una strategia di difesa. È una lingua del tatto, fatta di lacrime e di voci, con cui la sentinella-vedetta esprime il suo lamento.

L’opera è sangue. Ma costrizioni e fantasmi hanno bloccato il fluire naturale della circolazione sanguigna. Allora, per sopravvivere, abbiamo sviluppato le anastomosi vicine, i circoli collaterali, abbiamo ingigantito vasi fragili e sottili, che non potevano sopportare tutta la pressione del flusso, e tuttavia ne abbiamo fatto il nostro regno assoluto, rischiando sempre l’emorragia del delirio, la rottura della parete. Il non senso della morte. Ma siamo ancora qui, oggi, a conservare questi fragili vasi perché il sangue continui, nonostante gli ostacoli, a scorrere. E non solo nei nostri corpi incompiuti ma anche in altri corpi, che hanno condiviso il nostro stesso destino. Per questo vogliamo la scrittura apocrifa: per trovare corpi fratelli in cui il sangue non è circolato abbastanza, per rimuovere i trombi e gli emboli da quelle arterie, per cercare nuove strade al vecchio sangue che non ha mai pulsato come doveva pulsare.

E se la scrittura apocrifa, che tutti suppongono vampira, invece di nutrirsi del sangue dei morti nutrisse lei i morti, trasformando antiche scritture ghiacciate e compatte in diagrammi discontinui e convulsi che cercano, azzerando le differenze fra i secoli, quell’enigma indecifrabile, quell’impensabilità dell’arte che si nasconde sotto la greve superficie dei capolavori e dei monumenti? Chiedo che il paradosso della scrittura sia accettato, tollerato, rispettato, e pertanto non risolto. Ciò che in arte chiamiamo imperfezione non fa che rimettere in moto ciò che perfetto non è. Una volta spenti i riflettori e ogni altra forma di illuminazione, la letteratura, lasciata in pace e al buio, risplende di luce propria, e le sue creature vere, commuovendoci ancora oggi, emanano bagliori. Le opere sono punti morti e punti di luce, frammenti in cui si avvera la speranza della lingua intera, che dirà i mutamenti dell’uomo e i mutamenti del mondo: questa lingua, questa koiné dell’arte nei secoli, è il frammento di confessione che non smette di agitare la lingua del morente per l’ultimo respiro. E il morente è l’esegeta, il traduttore, il posseduto, il camaleonte di questo sospiro: abbandonato dai destini che lo avevano invaso, tace e torna a vegliare, in attesa che l’aria vibri ancora e torni questione di vita e di morte trascrivere voci…

Ingeborg Bachmann

A cura di Marco Ercolani

Gruppo MAGOG