23 Ottobre 2018

Influenzato da Picasso, inquieto come Goya, sedotto dall’Africa: ritratto di Ugo Attardi, l’artista selvaggio che vinse un Viareggio

In origine invaghito dell’astrattismo, affascinato dal sentimento abrasivo della realtà, politico nella materia pittorica, eretico nella violenza con la quale stravolge il gesto, ponendo la tela come una volontà di febbre, Ugo Attardi (Sori 1923 – Roma 2006) nel mondo mutevole spiove dal cielo come tante lame infuocate.

AttardiEgli ha il dono poliedrico, con picchi di estrema rivelazione lirica, di trapassare le diverse espressioni artistiche dell’uomo, prima con la pittura – gli influssi di Picasso e Gauguin sono chiari –, poi con l’incisione, si riscontra il ritorno inquieto di Goya, ancora con la letteratura, con il romanzo del 1970 intitolato L’erede selvaggio, vince il Premio Viareggio, in seguito come creatore di gioielli, e infine con la scultura, dove compie uno studio impressionante di forme sull’arte negra. L’opera di Attardi acquista tutta la sua grandezza grazie alla lezione primitivista, a partire dal 1971 dopo i viaggi in Africa Orientale, in particolare in Somalia, conosce a fondo quel tormento esotico e sacrale, che non risponde a nessun comando, eccetto allo slancio che scuote il fondamento di intere civiltà.

Una realtà di figure femminili esaltata attraverso un cocente espressionismo, in cui la presenza di corpi si afferma in un inventario carnale, esplosivo e pieno di ossessioni private. Roma che uccide le mie donne (Olio su tela, Coll. privata, fine anni ’70) sorprende per la ricerca del movente: i riflessi di un colonialismo italiano, maldestro e fallimentare in terra africana, lievitano come una possibile chiave allegorica, in uno sfondo scipionesco, che si affaccia sul ponte Milvio, bruciante e canicolare. Il presente è passivo, si deposita sulla schiena languida della donna, il futuro è schiacciato, la neonata compressa tra un piccolo quadro presente nel dipinto e il fianco del letto. I delitti perpetrati, si adagiano sulle lenzuola, gonfie di tramonto purpureo, attraverso un erotismo superbo e davvero scorticante. La storia si ripete in atti diversi, non è escluso che le stesse visioni pittoriche possano compiersi a causa dell’ondata migratoria. La città eterna, seppur corrotta e stanca, non smette mai di esibirsi con ferocia.

libro attardiUna simile interpretazione varrebbe anche per il quadro di contaminazione cubista, intitolato Le coup de poignard italien (Olio su tela, Coll. privata, 1978) in cui l’immagine della donna seminuda ferita al braccio, col viso scioccato e arreso, presuppone una colluttazione, in basso a destra la presunta ombra di una sagoma criminale. La stagione della violenza in queste stanze dai soffitti bassi, con i lenzuoli e i cuscini ustionati, definisce con accuratezza l’impasto di infamia e di sangue, che Attardi riesce a sollevare con rara tensione magmatica. In queste tele si esprime così un castigo immenso, che odora di efferatezze e sensualità plastiche, ammorbate da questo rosso tossico e riottoso, che investe pareti, suppellettili e coperte, tranne i pavimenti che sigillano l’impostazione pittorica data da Klee, fino a coprire di scattante nausea il volto imperituro della Venere nera, centrale nel quadro La stanza rossa (Olio su tela, Coll. privata, 1978). Ella ha un turbante dalle tinte selvatiche, in procinto di rivestirsi, con la coda dell’occhio guarda il pittore, si manifesta così, fuori da ogni avventura e da ogni mito, suggerendo l’unica dialettica possibile, quella della silente morbosità. È un’opera che vuole sporcare con impeto la scena, data dalle accesissime tonalità, eppure la creatura retta sulle sue volontà, riesce a domare l’esplosione, senza lasciarsi sfuggire la sua bellezza precaria.

Bisogna anche interrogarsi su quanto un viso scolpito possa direzionare la resa o la resurrezione di chi lo ha di fronte, l’eleganza del volto, o meglio dei due volti, in stato di liquefazione incrocia in più piani geometrici un concetto di moto. Le maschere del teatro, una per il riso e l’altra per il pianto, appaiono in simultanea, con richiami classicheggianti e modelli di culture primitive e totemiche.

artistaL’artista-fabbro ridistribuisce i tratti e i lineamenti scultorei, sempre cangianti e inafferrabili, «senza che l’occhio debba muoversi e senza che la forma sia colta secondo uno sviluppo di tempo», come scrive Michel Leiris, riferendosi ad alcune considerazioni sul piano estetico, contenute nell’opera Negerplastick di Carl Einstein. Il corpo come pratica estenuante per Artaud, la mutazione deformante ma intatta per Bacon convivono assieme per ottenere una proprietà di linguaggio, adatta a svernare l’istinto, e a rompere ogni schema divisorio tra logica e immaginazione. La maga (Bronzo, Coll. privata, 1974) ha il potere di rendere irregolare la bellezza, in bilico tra le infinite sfaccettature e prospettive, fisiche e virtuali. Il rapporto non solo di omonimìa lega la protagonista di Rayuela, opera-mondo di Julio Cortázar: ella stessa è un labirinto di strade, dove è necessario incontrare il doppio, la minaccia e l’offerta,«attraendosi e respingendosi come bisogna fare se non si vuole che l’amore finisca in una figurina o in una romanza senza parole». La rete si estende con un ulteriore testo letterario, nella poesia

À une passante di Baudelaire, dramma fulmineo dell’ultimo sguardo («un lampo… e poi la notte! Bellezza fuggitiva, il cui sguardo mi ha fatto rinascere di colpo, non ti rivedrò più fino all’eternità?») ravvicinato e fuori dallo straordinario, fa sì che l’urto di incontrarla negli occhi, comporti l’agile minaccia, di non vederla mai più.

Augusto Ficele

 

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