05 Giugno 2018

“Indago la solitudine e il disorientamento”: dialogo con Hernan Diaz, il nuovo Cormac McCarthy (influenzato da Buzzati)

La sintesi precisa del romanzo è in un requiem di frasi. Queste. “Domande, accuse, minacce, verdetti. Parole. Lui non voleva parlare. Senza una destinazione precisa e senza altro scopo che la solitudine, era più facile evitare tutti. Viaggiare a piedi gli permetteva di attraversare zone selvagge, altrimenti inaccessibili. Percorse deserti e guadò fiumi, scalò montagne e superò pianure. Mangiò pesci e cani della prateria, dormì su muschio e sabbia, scuoiò caribù e iguane. La sua faccia si coprì di rughe per le numerose estati e si accigliò per i numerosi inverni… Nella sua mente regnava il silenzio. Di rado pensava a qualcosa che non fosse a portata di mano. Gli anni svanirono sotto un presente senza peso”. Che razza di linguaggio: cova una serpe biblica in queste frasi, che sono di stirpe epica, atipica. Come il suo autore. Nato in Argentina, cresciuto in Svezia, qualche grammo di italianità nel sangue, Hernan Diaz abita da un pezzo negli Usa, alla Columbia University lavora presso l’Hispanic Institute. Nel 2012, per Bloomsbury, firma un libro esegetico importante su Jorge Luis Borges, Borges, between History and Eternity. Quando gliene chiedo ragione, fa, “Borges è una presenza colossale nella mia vita… è stato la mia guida alla letteratura”. Ora. L’esordio al romanzo. Di devastante limpidezza. In the Distance (stampato da Neri Pozza come Il Falco, pp.290, euro 17,00) esce l’anno scorso, è finalista al Pulitzer e al Pen/Faulkner Award, conquista aggettivi di pregio dal New York Times e da Paris Review. Poco importa la calca dei commentatori (un profilo di libro, autore e successo americano lo trovate qui). Il libro dona emozioni lunari. Diaz rilegge e scombina i canoni del Western: siamo in un tempo anonimo, nell’Ottocento, e uno svedese dalla struttura imponente, una specie di Moloch dagli occhi d’arcangelo, Håkan, chiamato ‘Il Falco’, sbarca per caso in California. Non è istruito. Non sa nulla. È qualcosa di più simile a un molosso che a un uomo. Conosce l’urlo e il sussurro, la carezza e il morso. Secondo le dicerie, si veste con la pelle di un puma che ha ucciso con le sue mani. Si muove in paesaggio che abbaglia per il nitore e la crudeltà – è un landa astratta, mentale, come l’Artide improvvisato da Edgar Allan Poe. Un luogo della redenzione e dell’orrore. Uno scienziato generoso e rude, John Lorimer, insegna al Falco l’arte di dissezionare le bestie (“la lepre, come un filo d’erba o un pezzo di carbone, non è semplicemente una minuscola frazione del tutto, ma contiene il tutto dentro di sé”), gli illustra l’arcano, “ogni singola cosa s’irradia nella totalità… tutti gli esseri viventi sono legati l’uno all’altro… ogni cosa vivente contiene dentro di sé le tracce e le testimonianze di tutti i propri predecessori”. La lettura è una ustione nella meraviglia. Con una nota. Hernan Diaz è, per così dire, l’erede di Cormac McCarthy, quello di Meridiano di sangue e de Il buio fuori. Il libro ha una corrosione linguistica che è propria di McCarthy. Sorprende. Stabilisce chiodi d’oro negli occhi. La cosa più sorprendente, però, è Håkan. Questa millenaria icona dell’innocenza – tra Mowgli e il principe Myskin di Dostoevskij – che vive nella dissipazione del tempo, come un re celeste a cui gli uomini non abbiano offerto alcuna occasione di bontà. Tutti i romanzi incubati nella metropoli newyorkese, a questo punto, implorano invidia; il postmoderno rompe il suo gargarismo ironico. Torna, vertiginosa, l’epica – la durezza – il sangue – l’osso primo del narrare.

diaz libroCome, quando è nata l’idea di un libro con una lingua così ‘biblica’, dove la natura emerge, tirannica, e c’è quel solo, ambiguo, innocente protagonista, Håkan?

Mi interessava indagare la solitudine totale, radicale, e il disorientamento. Håkan non conosce il territorio che sta attraversando. Non ha mai visto una mappa nella sua vita. Infatti, quando capisce che la terra è rotonda, pensa di aver camminato intorno al globo per anni. Di più: è perso nel tempo. Non sa quanti anni ha, che anno è, quanto tempo ha passato nei luoghi selvaggi. Visto che è totalmente perduto, a volte ho pensato a lui come a una bestia in un paesaggio titanico. Come un animale, egli vive un perpetuo presente. Un purissimo ‘qui e ora’. E questo ha a che vedere con l’innocenza che lei ha menzionato. Comprese le sue raffiche di violenza. In breve: volevo destabilizzare l’opposizione tra umano e naturale, e cercare di scrivere intorno a un luogo ben più ambiguo, sfuocato.

Håkan ‘il Falco’ mi ha ricordato, in qualche modo, il Giudice Holden di “Meridiano di sangue”. Il romanzo, in effetti, ha atmosfere che richiamano i romanzi di Cormac McCarthy: è così? Quali sono state le sue fonti, storiche e narrative, per scrivere il libro?

Ho letto Meridiano di sangue molti anni fa e l’ho ammirato infinitamente. Per ovvie ragioni, ho deciso di non rileggerlo mentre scrivevo In the Distance [titolo originale del romanzo, ndr]. Per ciò che ricordo, il Giudice Holden non ha legami con Håkan, al di là della corporatura, massiccia. Il Giudice Holden è un eloquente erudito capace di raffinate crudeltà. Håkan, al contrario, non ha istruzione e cerca di essere un uomo buono. Riguardo alle fonti, sono andato ben più a monte di Cormac McCarthy. Mi sono occupato di scrittura di viaggio americana, sviluppatasi intorno al 1850. Si tratta di autori affascinanti e sostanzialmente dimenticati: Parkman, Dana, Bartram, Narcissa Whitman etc. Ho letto gli scritti di molti naturalisti, come John Muir. E ho imparato molto dai grandi romanzi di mare, soprattutto dai libri di Melville, che ho letto e riletto lungo il corso della mia vita.

Una delle parti più interessanti del romanzo riguarda il rapporto tra Håkan e John Lorimer, un esploratore che cerca di scoprire i segreti del cosmo e pensa che l’uomo sia un tutt’uno con l’universo. C’è, forse, celata, in questo personaggio, la sua idea di vita, di scrittura?

Sono felice che abbia compreso la rilevanza del rapporto tra Lorimer e Håkan. Lorimer è un personaggio importante. Attraverso di lui, ho cercato di rendere omaggio a Ralph Waldo Emerson, uno scrittore che mi ha cambiato la vita. C’è anche molto John Muir in lui (Muir è meglio noto, oggi, come attivista, come figura decisiva per la creazione dei grandi parchi nazionali, ma è stato anche uno squisito prosatore). Lorimer insegna ad Håkan che esiste continuità tra il mondo e noi. La natura non è solo un magazzino di materie prime, una fonte da cui estrarre ricchezza, o qualcosa da addomesticare. Come umani, abbiamo il dovere morale di capire la natura.

Lei ha scritto un libro esegetico su Jorge Luis Borges. Che importanza ha lo scrittore argentino per lei, per la sua formazione?

Borges è una presenza colossale nella mia vita. Da ragazzo, in Argentina, sono stato introdotto al canone della letteratura nordamericana (Emerson, Thoreau, Henry James, Whitman, Poe) attraverso Borges. Leggevo i saggi di Borges su quegli scrittori, poi correvo a comprare i loro libri. Borges è stato davvero la mia prima guida letteraria. Sarebbe difficile stilare una lista di tutte le cose che ho imparato da Borges. La sua capacità di giocare con i generi letterari è sempre stata nella mia mente quando ho tentato di sovvertire il ‘Western’ nel mio romanzo.

Che valore dovrebbe avere lo scrittore nella società? Scrivere è snidare il mistero dell’uomo, o intrattenere?

Una grande domanda a cui forse non so rispondere. Penso che il valore della scrittura sia quello di farci capire quanta bellezza può esserci nel significato.

A che libro sta lavorando?

Da quando ho terminato il romanzo, ho scritto racconti. Un buon modo per appropinquarsi al prossimo, lungo progetto.

Esiste una dimensione autobiografica nel romanzo?

In the Distance è in larga parte un romanzo sull’estraneità e sull’esperienza dei migranti. Questa è la mia esperienza personale: sono nato in Argentina, cresciuto in Svezia, vissuto la maggior parte della mia vita negli Stati Uniti. Guardando indietro: i nonni paterni sono nati in Spagna, i bisnonni materni sono italiani, della Campania. Per me, quindi, l’idea stessa di identità nazionale è assai instabile. Ed è curioso pensare di essere per metà italiano. Sono anche cittadino italiano, benché il mio passaporto sia scaduto e sia terrorizzato alla sola idea di andare al consolato: l’ultima volta mi hanno preso in giro per il mio povero italiano…

A proposito della sua ‘italianità’. Ma lei la legge la letteratura italiana?

Cerco di leggere più romanzi italiani che posso. L’ultimo libro che mi è piaciuto è Sono il fratello di XX di Fleur Jaeggy. Lei mi può credere o no, ma è stato un romanzo italiano a ispirare In the Distance. Ho letto Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati molti anni fa, insieme ad altri libri sui deserti, di altre tradizioni (Lermontov, T. E. Lawrence, E. Gutiérrez, tra gli altri), e l’esperienza di quella lettura è stato il seme del mio progetto. Anche gli ‘spaghetti western’ di Sergio Leone sono stati cruciali. Questi film, girati in Spagna con molti autori europei, sono la prova che il West è totalmente immaginario, è uno spazio mitico, libero da ogni riferimento. Ho anche pensato alla Fanciulla del West di Puccini, dove due tradizioni immensamente diverse si incontrano: l’opera e il genere ‘Western’. La visione distorta degli Stati Uniti e il dialogo tra i diversi generi sono il centro del mio libro.

*

How and when was born the idea of a book with a ‘biblical’ language, where nature tyrants and emerges, in fact, only one protagonist, ambiguous and innocent, Håkan?

I was interested in exploring total and radical loneliness and disorientation. Håkan has no idea of the territory he is traversing. He has never seen a map in his life. In fact, when he learns that the world is round, he thinks he has been walking around the globe for years. Even more: he is also lost in time. He doesn’t know his own age, what year it is, or how long he’s spent in the wilderness. Because he’s utterly lost, I sometimes thought of him as one more animal in that enormous landscape. Like an animal, he lives in a perpetual present. A pure here and now. And this also has to do with the innocence you mention. And his bursts of violence. In short: I wanted to destabilize the opposition between human and natural, and try to write about a blurrier, much more ambiguous zone.

Håkan, the Hawk, reminded me the Judge Holden of Blood Meridian. The novel, in fact, has atmospheres that recall the novels of Cormac McCarthy: is my consideration true? What were your sources – historical and narrative – for writing the novel?

I read Blood Meridian many years ago and admired it endlessly. For obvious reasons, I decided not to reread it while writing In the Distance. From what I recall of Judge Holden, I don’t see a connection with Håkan, aside from their large bodies. The judge is an eloquent polymath of refined cruelty. Håkan, on the contrary, has no education and tries to be a kind man. The sources for my novel went much farther back than Cormac McCarthy. I was mostly interested in US travel writing from around the 1850s. Fascinating authors who are largely forgotten: Parkman, Dana, Bartram, Narcissa Whitman, etc. I also read a lot of nature writers, like John Muir. And I learned a lot from the great novels of the sea, mainly from Melville’s books, which I’ve been reading and rereading for most of my life now.

One of the most beautiful parts of the novel is the relationship between Håkan and John Lorimer, the man who tries to discover the secret of the cosmos and thinks that man is one with the universe. What idea do you have as a writer of life and writing?

I am happy that you saw the relevance of Lorimer’s friendship with Håkan. Lorimer is a very important character. Through him, I tried to pay tribute to Ralph Waldo Emerson, a writer who changed my life. There is also a lot of John Muir in him (Muir is best known today as an activist and for being instrumental in the creation of the National Parks, but he was also an exquisite prose stylist). Lorimer teaches Håkan that there is continuum between the world and us. Nature is not just a warehouse of raw materials, a source for the extraction of wealth, or something to be domesticated. As humans, we have a moral duty to understand nature.

You wrote a book about Borges: what value does the Argentine writer have for you? How important is Borges in your training as a writer?

Borges has a colossal presence in my life. As a teenager in Argentina, I was introduced to the North American canon (Emerson, Thoreau, Henry James, Whitman, Poe) through Borges. I would read Borges’s essays on these writers, and then run and get their texts. He was, truly, my first literary guide. It would be hard to list all the things I’ve learned from Borges. His playfulness with literary genres was always on my mind as I tried to subvert the Western in my novel.

What value should the writer have in society? Writing for you, I think, doesn’t mean to entertain, but to know the mystery of man: is it so?

This is a big question, and I don’t know if I can answer it. I think the value of literature is to make us feel of how much beauty there can be in meaning.

What book would you like to have written? What book are you working on?

I have been writing short stories since I finished the novel. It’s a good way to look for my next long project.

Is there an autobiographical dimension of In the Distance?

In the Distance is, to a large extent, a novel about foreignness and the migrant experience. This is my personal experience, since I was born in Argentina, grew up in Sweden, and have lived for most of my life in the United States. And looking back, my grandparents on my father’s side were born in Spain, and my great-grandparents on my mother’s side were Italian, from Campania. So for me, the very idea of national identity is very unstable. And it’s curious to me to think that I am half Italian. I am even an Italian citizen, although my passport has expired and I’m terrified to go to the consulate: last time I went, they made fun of my poor Italian…

Do you read Italian literature?

I try to read as many novels in Italian as I can. The last one I loved was Sono il fratello de XX by Fleur Jaeggy. And believe it or not, an Italian novel was one of the books that inspired In the Distance. I read Dino Buzzati’s Il deserto dei tartari many years ago, together with other desert books from other traditions (Lermontov, T. E. Lawrence, E. Gutiérrez, among others), and the experience of reading all those books became the seed for this project. Sergio Leone’s spaghetti westerns were also crucial for me. These movies, shot in Spain with many European actors, are proof that the West is a completely imaginary, mythical space, free from any referential anchorage. I also thought a lot of Puccini’s La fanciulla del west, where two immensely different traditions meet: opera and the new genre of Western fiction. This distorted view of the United States and the dialogue between different genres are very much at center of my book.

Gruppo MAGOG