Ci sono testi che si leggono continuamente, in attesa della rivelazione, come se quelle parole fossero il rogo dell’angelologia, come se proseguissero – sequela sapienziale – discorsi iniziati millenni fa. Tra questi testi, rarissimi, è la Ballata del vecchio marinaio“The Rime of the Ancient Mariner” – di Samuel Taylor Coleridge, ideata “durante una lunga, piacevole camminata con Wordsworth cominciata alle quattro pomeridiane del 13 novembre 1797 dalla sua residenza a Nether Stowey fino a Dulverston”, redatta “entro il 23 marzo 1798”, e pubblicata nelle Lyrical Ballads, che sono il manifesto del Romanticismo all’inglese. In realtà, “per i suoi primi lettori la Ballata apparve, nell’ordine, come la stravaganza di un poeta tedesco impazzito, un tentativo olandese di creare del sublime tedesco (in riferimento alla leggenda dell’«olandese volante»), la storia più priva di capo e coda mai pubblicata, una rapsodia selvaggia, inintelligibile e incoerente, seppure con squisiti tocchi poetici”, opera tanto anomala ed enigmatica che perfino Wordsworth, Poet Laureate dal 1843 al 1850, “in una lettera del 24 giugno 1799 lamentò il fatto che la Ballata era stata addirittura un danno per la raccolta, in quanto molti lettori, a suo dire, erano stati dissuasi dall’andare avanti a causa delle parole antiquate e della stranezza” (tutte le citazioni sono di Rocco Coronato). In realtà, il destino dannato del marinaio, la storia del suo viaggio inquieto verso Antartide (“tra i flutti, i crepacci nevosi/ luccicavano funesti:/ ghiaccio dappertutto”), l’uccisione dell’Albatros, l’innocente, “come fosse un’anima cristiana”, il periplo della punizione, “Morte e Vita-in-Morte” che “hanno giocato a dadi le sorti della ciurma della nave”, è esemplare, ha la tensione della parabola biblica e la levigatezza del canto orfico. Insomma, non c’è chi non abbia subito il fascino di quel poemetto di Coleridge, da Melville a Poe a Baudelaire, che tra l’altro vanta, in Italia, traduzioni nobili – di Beppe Fenoglio, ad esempio, e di grandi poeti di ieri e di oggi: Mario Luzi e Giovanni Giudici, Franco Buffoni e Alessandro Ceni – e una autorevolezza perfino pop (viene citato in una puntata dei Simpsons) oltre che colta (nel 1943 Mervyn Peake, autore del ciclo di “Gormenghast”, realizza una versione illustrata della Ballata di icastica bellezza; una immagine addobba la copertina di questo articolo). Ora è Rocco Coronato, professore di letteratura inglese all’Università di Padova, fine studioso, tra l’altro, di Shakespeare, a realizzare per Marsilio una convincente e competente versione della Ballata  (se è utile a farne percepire l’ustione permanente, il curatore ricorda che “Primo Levi ricorse proprio alla Ballata per descrivere se stesso che, reduce dai lager, tornato a Torino, cercava vanamente di raccontare l’incomprensibile: «Mi sentivo simile al Vecchio Marinaio di Coleridge, che abbranca in strada i convitati che vanno alla festa per infliggere loro la sua storia di malefizi»”). Un libro ‘da comodino’, per la vita, affinché quei versi raddensati nel mistero – Coronato rifila le interpretazioni più interessanti esplose intorno al testo, da Robert Penn Warren a W. H. Auden e Harold Bloom – si aggroviglino alle nostre viscere, snidandoci. (d.b.)

ColeridgeChe armi linguistiche ha usato per penetrare nella “Ballata”? Intendo: si tratta di uno dei testi più maneggiati (manomessi?) dai poeti, penso alle traduzioni di Mario Luzi e di Alessandro Ceni, ad esempio. Lei che strategia traduttiva ha adottato?

Tradurre la Ballata in versi e in rima corre il rischio (o quasi certezza) di perdere molte delle immagini inventate da Coleridge (o riprese dai racconti di viaggio dell’epoca). In italiano è impossibile rendere le mille variazioni interne che Coleridge apporta alla struttura del metro popolare della ballata per renderla meno ingessata: il rischio della filastrocca è sempre dietro l’angolo. Ho deciso di rendere la struttura dei versi alternati a quattro e tre accenti, cercando di mantenere le rime quando possibile, ma anche ricorrendo ad assonanze per rendere il richiamo interno alle stanze. E quando non potevo trovare la soluzione senza tradire il significato, ho rinunciato a far intuire la rima, sperando nell’effetto gestaltico della struttura generale. Credo tuttavia sia successo pochissime volte.

Che cosa racconta davvero la ‘fiaba’ simbolica che Coleridge mette in versi? Quali sono i suoi precedenti? Ha avuto dei seguaci nella lirica anglofona?

Da secoli se lo chiedono: è una ballata fintamente popolare che ancora continua a essere popolare. Mi sembra che siano (fortunatamente) tramontate le letture esageratamente simboliste. Ora la Ballata interessa perché racconta di un trauma che richiede la narrazione continua. Una storia di una dannazione e di una salvezza, caotiche entrambe, che richiede l’empatia dell’ascolto, con una disperazione folle e romantica che continua ad affascinarci. I precedenti di Coleridge sono le ballate romantiche, i suoi stessi tentativi di scrivere un poema su Caino insieme con l’amico-rivale Wordsworth, e in generale il gusto gotico dell’epoca per il soprannaturale, la fascinazione per il sublime in natura. Come per i grandissimi, sono tutti seguaci, ma nessuno lo emula davvero, perlomeno nella Ballata e in Kubla Khan.

Che potenza ‘attuale’ – cioè, formalmente attiva, desta – ha oggi la “Ballata”? In fondo Coleridge (penso anche al “Kubla Khan” citato da Orson Welles) continua a essere fonte d’ispirazione…

Primo Levi paragonò sé stesso, appena ritornato a Torino da Auschwitz, al Vecchio Marinaio che cercava disperatamente di raccontare la ‘storia di malefizi’ che aveva subito. Questa poesia continua a essere letta, studiata, imparata a memoria. Pure Homer Simpson la cita, ovviamente a sproposito. E più ci chiediamo perché una finta ballata popolare, con il suo linguaggio aulico e la struttura chiusa delle stanze, continui a emozionarci, più quella continua a riaffiorare in mille letture contemporanee ispirate alla religione, all’ecologia, alla storia contemporanea e ai suoi molteplici traumi, dappertutto. Questa storia soprannaturale continua a inglobare temi che ancora ci interrogano, anche se non facciamo la circumnavigazione del globo: la colpa e il perdono, il meraviglioso e l’infinitamente triste, la solitudine e l’ascolto.

Lei è un accanito studioso di Shakespeare. Che cosa c’è ancora da studiare di Shakespeare, da sapere?

Da studiare ancora molto, da sapere tutto. Vorremmo soprattutto sapere perché continuiamo a provare le emozioni così come lui le ha per primo individuate e quasi create, dall’amore di Giulietta all’odio di Iago alla splendida perfidia di Riccardo III. Magari con meno interesse per le curiosità sulla sua vita, o cose improbabili come Shakespeare “italiano”. Vorremmo sapere come mai ancora oggi quasi un terzo degli spettacoli in tutto il mondo gira attorno a lui, e perché tutti, ma proprio tutti, lo capiscano e lo amino. Speriamo di non capirlo mai.

Dove la porta, ora, la sua ricerca universitaria, verso quali campi di indagine?

Studio come Shakespeare dalle cose semplici arrivi a generare effetti caotici di complessità. Unisco la ricerca tradizionale con gli strumenti delle digital humanities.

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