22 Maggio 2018

“Il Venezuela è morto come entità, è uno zombie collettivo. Nella terra del ri-eletto Maduro: un disastro da cui tutti vogliono scappare, dove (non) si campa con 20 euro al mese e la rabbia è un frastuono di pentole”. Il commento di Manuela Tortora

Domenica 20 maggio 2018. In Venezuela, le elezioni presidenziali si svolgono con un sottofondo di due rumori: il primo è un assordante silenzio di piombo, dall’alba fino al tramonto, mentre i seggi sono aperti. Sono centinaia le foto e i video presi in tutto il paese, a ore diverse, che mostrano strade deserte, e qua e là piccoli gruppi sparsi di tre o quattro persone al massimo in fila, aspettando il loro turno per votare.

Il secondo rumore è il frastuono metallico di pentole e altri oggetti colpiti con rabbia alle finestre dei palazzi, che scoppia come una bomba alle 22, quando il Consiglio Nazionale Elettorale proclama ufficialmente la ri-elezione di Maduro fino al 2025 con il 67,7% dei voti e un’astensione del 53,9%. Fin dall’inizio dell’era chavista, 20 anni fa, il chiasso del “cacerolazo” è un simbolo di protesta e accompagna le trasmissioni televisive ufficiali. In origine si sentiva solo nei quartieri ricchi. Poco a poco è diventato un rumore diffuso un po’ dappertutto.

Maduro ha vinto con 5 milioni 823.728 voti, secondo l’annuncio ufficiale. 200.000 voti in più di quelli ottenuti dal suo partito alle elezioni legislative di dicembre 2015 (che furono più pulite di quelle di ieri, e che furono vinte dall’opposizione). Cioè, malgrado la sua gestione catastrofica negli ultimi due anni, malgrado i sondaggi che non gli danno neanche il 20% di sostenitori, Maduro migliora il suo risultato e stravince? Difficile crederci. I conti non tornano, ma non ha nessuna importanza ormai. Non si tratta più di contare voti. Lo sfacelo va ben oltre quest’ennesima elezione viziata che serve soltanto a nascondere una dittatura in piena crescita.

L’opposizione ha rinunciato a presentare un candidato di fronte a Maduro risolvendo un doloroso dilemma: votare (quindi farsi complici della farsa delle elezioni) o non votare (quindi denunciare di nuovo la frode, già evidente dal luglio scorso quando l’Assemblea eletta è stata abolita mediante un referendum assurdo, e accompagnare il non riconoscimento di queste elezioni da parte di molti paesi latinoamericani ed europei, oltre a Stati Uniti). Ma ad ogni modo il dilemma è stato risolto a priori: non ci sono, fisicamente, candidati dell’opposizione disponibili. O sono in carcere, o agli arresti domiciliari, o in esilio, o privati di diritti politici. Maduro aveva però bisogno di altri candidati per mettere in scena il suo spettacolo, ed ecco che si sono presentati un ex-militare ex-fedele di Chàvez, Henri Falcón (che ha ottenuto 1.820.552 voti), uno sconosciuto pastore evangelico (925.042 voti), e Reinaldo Quijada, ex-chavista ma anti-Maduro (34.614 voti).

Inutile ricordare che, come nelle elezioni precedenti, il governo di Maduro ha invitato solo alcuni “Osservatori internazionali” (tra cui José Luis Rodríguez Zapatero, ex Primo Ministro spagnolo) ma nessuna organizzazione internazionale con esperienza in materia di sorveglianza di processi elettorali. Vale la pena segnalare, invece, la presenza di 12.700 “Puntos Rojos” (cifra denunciata da Falcón oggi) in altrettanti seggi: si tratta di un tavolo con tovaglia o sedie rosse, provvisto di uno scanner, dove l’elettore può fare registrare (se ce l’ha) il suo “Carnet della Patria” (carta d’identità data dal governo ai suoi sostenitori) in cambio un buono equivalente a 8 euro (10 milioni di bolivares) per ricevere assistenza (prodotti alimentari, medicine…). L’elettore procede quindi a votare, convinto che i suoi dati, iscritti sul chip elettronico del Carnet, saranno confrontati con il suo voto. Rimane il dubbio: c’è correlazione tra lo scan del Carnet della Patria, l’identificazione dell’elettore con la sua carta d’identità nazionale, e le macchine che contano i voti? Quello che importa è che milioni di elettori la cui casa, il cui lavoro, il cui accesso alla farmacia o alla scuola dipende dal loro “buon” comportamento politico non oseranno neanche porsi la domanda. Voteranno per Maduro e basta.

Dopo di che c’è la moltiplicazione degli elettori: verso le 17 del pomeriggio, poco prima della chiusura dei seggi, come in tutte le votazioni precedenti, entrano in scena i bus pieni di fanatici chavistas vestiti di rosso (un fanatismo ben ricompensato, ovviamente) che vanno da un seggio all’altro per trasportare elettori che avranno il privilegio di votare varie volte. Si tratta dell’operazione “remate” (“conclusione”), per assicurare le cifre desiderate al momento di iniziare il conteggio elettronico.

Ma perché i venezuelani sopportano passivamente questa tragedia, perché non si ribellano? Per ribellarsi occorrono soprattutto tre cose, inesistenti o in via di disparizione. In primo luogo, armi: le manifestazioni sono diventate molto violente dal 2015 in poi, ma da una parte ci sono i manifestanti armati di fionde, cocktails molotov e scudi di cartone, e dall’altra gas lacrimogeni, veicoli blindati, pallottole vere, e carceri dove si tortura.

In secondo luogo, esseri umani disposti a rischiare la vita: il bilancio di 120 studenti morti in 100 giorni, centinaia di feriti e 3.000 arresti del periodo aprile-giugno 2017 non lo vuole ripetere nessuno, non per mancanza di coraggio, ma semplicemente per mancanza di risultati. Sangue versato inutilmente, malgrado gli incoraggiamenti dei “guerrieri della tastiera” che lottano comodamente su Facebook ma non scendono in strada. In terzo luogo, dei leader, ma non quelli liberi o privati di libertà che si sono ormai “bruciati” dopo anni di fallimenti dell’opposizione. E per ora non se ne vedono. Verranno forse, un giorno, dalla diaspora.

La popolazione si sta dividendo in due grandi categorie: quelli che possono emigrare all’estero (la diaspora è di circa 3 milioni su un totale di 30 milioni) o che ricevono valute straniere (ma anche medicine, vestiti, prodotti vari) da parenti che sono già fuori dal paese. Con un’inflazione del 6000%, cambiare queste rimesse al mercato nero permette di compensare la crisi, sperando di poter emigrare al più presto. E quelli infinitamente più miserabili che non hanno né accesso a dollari o euro, né possibilità di viaggiare e trovare lavoro all’estero, e che quindi dipendono dall’elemosina del governo. La rivoluzione chavista-madurista ha seguito e migliorato il modello cubano che dura, imperterrito, da 50 anni.

Quando cambierà qualcosa? Quando l’iper-inflazione avrà fatto collassare completamente l’economia (il PIL è del -20% e continua a scendere)? Quando i proventi del narcotraffico non basteranno più? Quando Cina e Russia chiuderanno completamente il rubinetto di crediti e finanziamenti? Quando i militari non riusciranno più ad arricchirsi con la gestione delle imprese statali? Quando l’impresa produttrice di petrolio non riuscirà più a rifornire (gratis) Cuba né a pagare in natura i crediti cinesi e russi?

Il silenzio che avvolgeva le strade in una tristissima giornata elettorale rappresenta la morte della democrazia, ma non solo: il Venezuela è morto come concetto e come entità. Più che lo Stato, è morta la sua società, ormai ridotta a uno zombie collettivo, che si muove solo per cercare medicine e qualcosa da mangiare. Il frastuono delle pentole (il cacerolazo) è il grido disperato di chi ha molta rabbia ma sa che non ha altri mezzi per esprimersi.

Quello che è successo il 20 maggio è il seguito di ciò che è successo lentamente, tutti i giorni, dal dicembre 1998: un’agonia senza fine da quando il cancro del chavismo ha messo radici nel sistema politico, nell’amministrazione pubblica, nelle imprese, nella stampa, nell’esercito. La metastasi è completa già da tempo. Il paziente è già morto, ma siccome la morte di un paese ricchissimo è lenta, non si sa quando sarà definitiva, né cosa permetterà di distinguere la morte attuale dalla morte di domani.

Lunedì 21 maggio: il Venezuela si è svegliato con la routine di sempre: a che ora arriva l’acqua nel tuo palazzo? e la luce? mi hanno detto che in farmacia sono finalmente arrivati alcuni antibiotici, devo correre a comprarli. Chissà se troverò pane oggi, è da tre giorni che non posso farmi un panino col pezzo di formaggio che sono riuscito a comprare con la quarta parte del mio stipendio. Devo rinnovare il passaporto per poter raggiungere la mia famiglia emigrata in Cile; mi chiedono 6000 dollari per “aiutarmi” a fare il rinnovo, e se non faccio in fretta i miei risparmi continuano a perdere valore e non avrò mai quella cifra. Devo prendere il metro vicino casa ma non funziona perché hanno rubato i cavi elettrici per rivenderli al mercato nero. Guarda laggiù quella signora, sembra ben vestita eppure sta rovistando nell’immondizia, cercando qualcosa da mangiare. Andrò a piedi al Bancomat, sperando che funzioni, per prendere 10.000 bolivares in effettivo per pagare il bus. Il caffé costa 200.000 bolivares, lo stipendio minimo mensile è di 2.800.000, meno di 20 euro… no aspetta, quello era ieri, oggi è meno di 15 euro? non lo so e non importa, ormai.

Il 20 maggio 2018 non è successo niente. Il Venezuela è solo morto un po’ di più.

Manuela Tortora

*

Manuela Tortora, venezuelana, ex-funzionaria di carriera dei governi democratici tra il 1980 e il 1994, ha scritto per Pangea un ampio reportage sul Venezuela, pubblicato qui.

Gruppo MAGOG