17 Aprile 2018

Il vecchio è tuo, ca**i tuoi. In Italia puoi invecchiare solo se sei ricco. Esperienze di vita vissuta al fianco di mia nonna

Analogia con l’epigrafe

 “Io non esisto più, io non esisto più”. Ha detto così, fissandomi, tre giorni fa. Ha detto davvero così o è l’incastro della mia immaginazione? Forse le metto in bocca i miei pensieri. Raramente, ormai, le sue parole sono comprensibili. Non mangia più. La alimentano dal naso. Non riesce a deglutire. Se spingo l’acqua nella sua gola, tossisce, soffoca, rigurgita. Quando è stata ricoverata era magrissima. Ora le mani e le gambe sono sproporzionate e gonfie. Liquidi. Che scrosciano nelle vene. Attraverso flebo. In un’altra flebo una sostanza rubina. Ferro. Il corpo umano, in fondo, è un palloncino.

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Mio nonno si è ammalato nel 2011. Un giorno, in casa, osserva la moglie con cui è sposato da 60 anni, mi guarda, dice, ‘chi è?, la donna delle pulizie?’. Un giorno scopro un bubbone che si dilata dallo stinco destro. Escrescenza tumorale. Il nonno è morto il primo maggio del 2013, il giorno dei lavoratori. Per meriti sul lavoro – ha lavorato, con cubica onestà, alle Poste – è stato nominato Cavaliere dall’allora Presidente della Repubblica Giovanni Leone. Umile, sorridente, è morto dicendo ‘grazie’.

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La nonna non voleva occuparsi del nonno. Un giorno la vedo accasciata in cucina. Piange. ‘O lo fai ricoverare o io mi uccido’, mi dice. La ringrazio. Al contrario del nonno, la nonna ha un carattere dominante, prepotente, castrante. A differenza del nonno, d’animo soave, quando anche lei è stata colpita da una demenza senile grave è stato un disastro. I primi problemi accadono poco dopo la morte del nonno. La nonna entra reiteratamente dal panettiere per comprare lo stesso pezzo di pane. Terrorizzata dalla povertà, va in banca almeno dieci volte al giorno per ritirare soldi e per accertarsi in merito alla pensione (quando arriva? da chi? quanto? come faccio a prenderla?). Ha la fissazione del vino. Lo va a comprare – più volte al giorno – nella stessa vineria. Il vino viene servito in una bottiglia di plastica da mezzo litro. Una volta – faccio visita alla nonna la mattina, prima di andare a lavorare, e la sera, prima di rientrare a casa dal lavoro – ho trovato in casa 22 bottiglie di vino. Angosciata dal fatto che qualcuno gliele rubi, le bottiglie di vino sono: sotto il letto, dentro l’armadio dei vestiti, dentro le borse che sono dentro un cassetto, dietro la porta d’ingresso, nel portaombrelli, dietro la porta della cucina, sul balcone, dietro il televisore, nel mobile ad angolo, in sala.

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La vitalità è deleteria se hai la demenza senile. Per tre anni mia nonna è stata: intollerante, intrattabile, vivace. Cose buffe: la nonna che saluta una signora per strada, mai vista prima. ‘Ti ricordi? La nostra vicina, a Milano’. La signora ghigna, va via. Cose meno buffe: la nonna che si mette a fare i bisogni nel parco, nel giardino del palazzo. La demenza senile, mi spiegano, oblitera le inibizioni. Per questo, quando la nonna si arrabbia alza le mani, mena, urla. Un giorno cade per strada. I vigili urbani chiamano il 118 poi chiamano me, al lavoro. Corro. Ricovero ospedaliero. Faccio la notte. La nonna è agitata, ma verso mezzanotte si addormenta. Si sveglia alle tre. Si strappa le flebo. Urla, ‘portami a casa, hai capito, cazzone!’. Intervengono le infermiere. La nonna: ‘chi sono queste, le tue puttane? Io lo so chi sei, bastardo, mi hai fottuto i soldi e mi hai chiuso qui dentro, mi fai schifo, schifo!’. Le infermiere mi guardano, un tot spaventate. Cerco di calmare la nonna e di rassicurare le infermiere (d’altronde: chi è questo? che cavolo ci fa il nipote? non c’è un figlio, una nuora?). Mentre lei mi dice ‘vaffanculo figlio di puttana’, l’infermiera le spara la siringa in vena. Dose equina di calmante.

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Tutte le volte che incontriamo un dottore la stessa scena. ‘Lei… è la mamma?’. No, la nonna. ‘Vorremmo parlare con un parente più stretto’. Non ce ne sono, non c’è nessuno, solo io. ‘Ma… il figlio?’. Il figlio è morto, si è ucciso. Il voyeurismo di alcuni medici è micidiale. Vogliono succhiare il dolore, l’anomalia, animalesca. Un’altra volta mi telefonano dall’ospedale di notte. ‘Deve venire, la zia…’, no, è la nonna, dico, ‘sì, beh, la nonna è incontenibile’. Provo a dire che ho dei figli, una vita, che, altrimenti, che senso ha stare in un ospedale. Non mi ascoltano. Un corpo è ingombrante – la vita è una responsabilità che non si condivide. Il vecchio è tuo, cazzi tuoi.

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Di domenica, di solito, mentre la nonna dorme, io lavoro a qualche libro, in sala. La demenza senile altera il corretto funzionamento del linguaggio. Quando la nonna si sveglia, annoto i suoi errori. Interessanti per chi pensa che il linguaggio sia l’anima dell’uomo. ‘Portami la tivù’, dice. Per ‘tivù’ intende caffè. Un giorno dice, ‘porta la notte’. Vuol dire: spegni la luce. Un’altra volta dice ‘metti il buio’. Altre volte sono lettere che divorano altre lettere, come se le parole fossero nastri di fango. ‘Chiudi le pappardelle’, per dire tapparelle. ‘Compra le parate e la tarte’. Intende patate e carne. Se fossi San Paolo sarei propenso a credere a una ispirazione, pilotata da qualche Arcangelo. Invece, è solo il cervello. Il cervello si sfa e con esso la facoltà linguistica. Il linguaggio frana. Eppure. Io continuo ad annotare, a cercare analogie e segni: il creato a volte si distrae e scoppia il magico.

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Questi sono i passaggi di un libro che ho intitolato provvisoriamente La memoria, su mia nonna:

Ieri ha detto. “Chiudere l’acqua, l’acqua!”. Era convinta di affogare e che i mobili navigassero come canoe. Forse la morte è anticipata dall’acqua. Non riusciva a calmarsi. Le ho detto che ero il re degli oceani. Lei ha rovesciato gli occhi. Ha urlato, “mio figlio non sa nuotare!”. Ho capito. Mio padre – suo figlio – si è ucciso a Bordighera, in Liguria, sul mare. Non sopportava il mare. I suoi genitori lo costringevano ad andare in colonia, al mare. L’acqua facilita le anime dei morti a trovare la via di fuga dal mondo – se restano imprigionate quaggiù il dolore si moltiplica, infinitamente, ed è davvero la fine. 

Ha avuto una vita di merda – ha sopportato, a Milano, una vita vuota, fatta di piccole invidie e di indicibili frustrazioni. Classe 1928. L’apice della vita di mia nonna è la morte del suo unico figlio, che si è ucciso il 4 dicembre del 1989. Quella è la chiave di volta della sua vita, l’unico avvenimento, il sigillo. Per questo, ora, muore come un cane: non ha niente da dire, non ha altro da esporre se non l’ira, la malizia, l’ansia di possedere qualcosa. Muore sola, perfino il dolore l’ha abbandonata. Parla al soffitto tutto il santo giorno.

Le generazioni vanno filate, come si fila una coperta. Di per sé la parentela è inesistente: che relazione corre tra diversi ventri di donna, scalando i secoli? Quelle fiche ingorde sono regolate unicamente dalla colpa e dalla fame. Una volta che si è costruita la scia della propria genia – una specie di immane matrioska – dopo che la si è filata, bisogna conservarla. Custodirla, pulirla, rassettare i nomi dall’usura. L’albero genealogico è una allucinazione: ogni nascita ha senso se devia da ciò che è stato, con ottusa violenza.

Oggi è più tranquilla. Mi dice, “vorrei amarti tantissimo”. Io non l’ho mai amata questa nonna, prepotente, prevaricante, che ha disseccato ogni rapporto, ha rinchiuso figlio e marito nel bunker dell’appartamento milanese. Dall’ampia terrazza in via Ennio, puntava sguardi arsi d’invidia verso gli altri palazzi, i vicini, tutti autori di mirabili perversioni. Lei era l’unica giusta, la sola giustificata, la sofferente. Coltivava enormi piante grasse, simili alla spinata corona di un re barbaro. Oggi, rasserenata dai farmaci, indifesa, incapsulata nelle lenzuola, sembra buona. La medicina addomestica il male, i buoni sono rimbambiti.

Oggi è particolarmente debole. Davanti alla finestra, sulla carrozzina, la nonna sembra un’aureola di stracci. Un lenzuolo. Un sudario. D’istinto, guardo la fotografia di mio padre, sopra il cassettone. Ha gli occhi chiusi, la barba, gli occhiali. In montagna. Sembra trasudare pazienza e serenità. Poche settimane prima di uccidersi. Cerco di capire se il suo viso è impresso nel corpo di mia nonna – qualcosa, oltre l’odio che chiamiamo “ti voglio tanto bene”, li ha uniti? I farmaci fanno effetto e la nonna ora percepisce che è sola, in un paese dove non conosce nessuno, con una badante ucraina che la tratta come una deficiente. Mi guarda con occhi bassi e spenti, la faccia ha strati di esistenze, tutte inutili. “Mi porti a letto?”. La scorto a letto. “Ti ho goduto un po’”. Dice sempre così, usa il verbo ‘godere’. Come se i sentimenti fossero caramelle, come se gli istanti si potessero succhiare. “Ora te ne vai”. Appena mi vede, prevede la mia partenza. La lascio dire. Tolgo il maglione, blocco la carrozzella, la isso in piedi, le sue gambe non reggono, la butto nel letto, la copro. “Dormi bene, non uscire, fa freddo”, le dico. Armo la sponda del letto. “No, non chiudere, come faccio a scendere?”, fa lei. “Se scendi ti schianti”, sussurro. Lei non sente. “Meglio così, il letto è più sicuro”, dico. “Se devo fare la pipì…”, dice, “…la fai nel pannolino”, rispondo, come ogni volta. Poi si preoccupa delle tapparelle, lascio almeno due dita di fessura da cui traspira la luce. La cucina. La sala. “Chiuso tutto?”. Chiuso. La nonna trema. “Quando torni?”. Non è autonoma, non può alzarsi, non può mangiare se ha fame, non saprebbe spegnere neppure la lampada. Non vuole separarsi da me. Ha paura. “Stai tranquilla…”, dico io. Cinque e mezza di pomeriggio. Il sole sbatte sulle finestre come un uccello. Per le prossime 14 ore mia nonna se ne sta a letto. Il letto è una prateria, dove pascolano e corrono le decine di morti che hanno varcato la vita di mia nonna. “Torna, però, non scordarti di me, non ti scordi di me, vero?”, dice.

Oggi l’ho trovata nuda. Si è liberata delle coperte, si è tolta i vestiti. Nuda, nel letto con le sponde, sembra un passerotto in gabbia. A volte mi pare che la nonna si trasformi. Ora è un passero, domani un topo, dopo domani una iguana – fa paura perché la sua natura, ora, è più vicina al resto degli esseri che all’uomo. A volte, penso, può balzare dal letto e sbranarmi. Oltre a spogliarsi, la nonna si è tolta il pannolone. L’ho vista, di pomeriggio, con le mani sporche di merda: si leccava le dita. Mangiare la propria merda vuol dire che non si avverte più la differenza tra ciò che si ingurgita e ciò che si espelle, non si sente più la necessità di ricordare quello che si vede. La scena non mi sorprende. Quando parlo con la nonna assumo la voce rassicurante di un monaco o di un boia. Candida, tesa, indifferente. Tolgo lenzuola e coperte, le butto nella vasca da bagno. Faccio scorrere l’acqua – immagino torrenti artici, il sotterraneo sussurro dei ghiacci. Riempio una bacinella, spruzzo il sapone, piglio la spugna. Abbasso una sponda del letto. Ruoto mia nonna, in modo da avere il suo culo, floscio, magrissimo, davanti a me. Immagino di benedire un bambino. Non ci vuole un carisma particolare per occuparsi del prossimo, non occorre inspirare Dio, indossare l’estasi dei missionari o degli scout. Lo si fa e basta. Per convenienza sociale, per mero desiderio di pulizia. Con la spugna lavo il culo della nonna, lo pulisco dalle scaglie di merda che si sono indurite, sulle gambe. Faccio tutto a mani nude, sperando, forse, che un’infezione letale mi divori gli arti, la lingua, le mani. Cosa sarebbe di me se non riuscissi più a scrivere? L’importante è che funzionino i denti: scrivere, in fondo, è mordere. Non è la prima volta che maneggio la merda: prima della nonna pulivo quella del nonno. La merda, in fondo, infine, è l’essenza dell’essere umano. L’unica cosa di cui è naturale produttore. Ciò che hai sottratto alla terra, ritorna in forma di merda. Ora capisco la teoria puritana del denaro come ‘sterco del demonio’. Basta togliere la parola ‘demonio’ – che è l’analogo del senso di colpa – e il gioco funziona: tanto guadagni e tanto devi ridare al mondo che ti ha concesso quel guadagno. Se rompi l’equilibrio, vai in blocco intestinale, muori. La merda è il reliquiario di ciò che siamo: cosa sacra e intoccabile. Per questo, il water è simile a un trono e facciamo scomparire gli stronzi nell’acqua, l’elemento più puro e importante della terra. Sono il casto sacerdote della merda di mia nonna. Al contrario del cuore – volgare pompa che fa funzionare un meccanismo umano – è la merda la sintesi dei nostri sentimenti; siamo come caghiamo. Non è il cuore la sede dell’amore, ma il culo, da sempre.

Il libro ha diversi brandelli. Non ho continuato a scriverlo. Se si scrive la vita di un vivo, lo si uccide. La vita di mia nonna ha ucciso il libro. Entrarci, ora, è una lordura, una locura.

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Temporaneamente, la nonna è ricoverata in ospedale. La nutrono con dei cavi conficcati nel naso. Non pesa neanche 40 chili. Le vene sono invisibili, sottoterra. Per prelevarle il sangue bucano la nonna nella coscia interna, in prossimità del pube. Devo firmare per autorizzare un ciclo di trasfusioni. Il ferro non basta. L’ospedale è in campagna, alle spalle di Riccione, bisogna varcare i colli. Ogni tanto appare l’Adriatico, una lingua metallica, una spada. Le colline, oggi, sono verdi, splendono. Quando mi vede, la nonna sembra sorridere. Vado a trovarla la sera, ore 18. Alle 12 va a trovarla la signora che mi dà una mano. 45 anni, matrimonio fallito, un figlio di 26 e una di 20, con una bimba, avuta l’anno scorso, papà prof di economia all’Università, lei che lascia l’Ucraina per fare soldi, occupandosi di vecchi, malati, disabili. Una bella donna. Che nasconde il dolore dietro la coltre di una arguta riservatezza. Quando ha voce, la nonna dice ‘Davide, Davide, Davide’. Io le bacio la fronte, le accarezzo il braccio. Le gambe, bombardate di liquidi, sono enormi. Parlo con la signora di fianco. Tedesca, 75 anni, si è spaccata l’anca, ha una demenza senile visibile. ‘Portami i rasoi, devo togliermi i peli’, mi dice. La accontento. Anche lei, quando mi vede, esulta – non ha parenti.

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Guardo nelle stanze del ricovero ospedaliero. Lungodegenza. C’è stato anche mio nonno, qui. Quando lo andavo a trovare mi diceva ‘grazie’, con occhi appagati, angelici. Grazie. E basta. Mi sembrava uno di quegli uomini santificati dall’Himalaya, che passano gli anni a pregare, fuori dal mondo, conficcati in una roccia. Sapienza nell’accettazione. I letti sono pieni di vecchi. Spesso sono soli. Spesso sono nutriti con i tubi nel naso. Sembrano feti. E quei cavi che li nutrono dei cordoni ombelicali di plastica. Il primario, che ha la faccia da rospo e l’idiozia di chi pensa di avere potere sulle leggi della vita e della morte, non si cura dei vecchi. Carne deperita, corrotta, che fa gola ai vermi. Solo i ricchi possono invecchiare, stipati in strutture con ogni comodità, medico personale, vista sul mare. I poveri muoiono così, come topi, inerti. Ogni tanto entro in una stanza, guardo il viso di questi vecchi sconosciuti, immagino le loro esistenze – banali, come le nostre, gonfie di una gloria personale: non m’importano i fatti, ma i pensieri – e bacio la loro fronte.

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La nonna ha imparato a dire ‘grazie’. Me lo dice spesso. La nonna mi dà l’idea di dipendere totalmente da me. Se io non ci fossi, lei morirebbe. Non è così, mi dico. Ma questa sensazione mi dà gioia. Se mia nonna morisse, in fondo, perderei il mio compito. Che un altro sia schiavo, completamente, di noi – per il cibo, la pulizia, la vita – è qualcosa che inebria.

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Al piano terra dell’ospedale c’è la camera mortuaria. Ogni tanto ci vado. Non amo i morti – ma so che se i vivi risplendono è perché qualcosa, da altri luoghi, li infiamma. Nella camera mortuaria ci sono solo vecchi. Alcuni privi di familiari. Allora gli faccio compagnia, li accompagno negli altri mondi. Chi si cura di questi corpi freddi, violacei, maleodoranti? La cura non finisce nella vita. L’anima del morto, prima di elevarsi, per giorni, vaga intorno al corpo, lo guarda con orrore e nostalgia. L’anima del morto è seduta a cavalcioni del letto, ammira il suo corpo. Un gesto di grazia – un bacio sulle mani – forse intenerisce la ferocia dell’anima, che si congeda senza rancore dal corpo.

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Se curo mia nonna è per carpire il segreto di mio padre. Mio padre si è ucciso quando avevo dieci anni. L’ho scoperto dieci anni dopo. Mia mamma non parla – non voglio turbare il suo dolore, che è l’unico gioiello che ha. Mia nonna mi diceva, spesso, ‘devo dirti delle cose su tuo padre, devo dirti…’. Ora non ricorda neanche che il figlio è morto. Ricorda solo il mio nome, ma ignora di chi sia figlio. Quando mi fissa, scombinando le parole, mi domando dove sia la sua anima: nell’iride? No. Forse è nei polsi. Forse è tra le costole, aggrovigliata, come edera. La nonna non sa più deglutire e respira a bocca aperta. Per questo le labbra sono piene di ferite, e la lingua è fratturata. Scaglie di sangue ovunque. Le medico le labbra con un unguento. Lei scuote la testa. Il segreto di mio padre è perduto per sempre, come un anello dentro un lago. Eppure, è ancora l’amore a ostinarmi.

Davide Brullo

 

Gruppo MAGOG