13 Febbraio 2019

“Il suo nome dovrebbe diventare domestico, come quello di Garibaldi”: Robert Luis Stevenson racconta la storia di Yoshida Torojiro, eroe giapponese

Il Giappone non è quello che raccontano gli autori mainstream col nome Banana. Il Giappone originario è quello di cui i bambini nati a metà Ottocento sentivano come di una terra da scoprire, perché chiusa all’Occidente. Solo gli Stati Uniti a governo progressista whig si preoccupavano di cercare la benedizione del loro dio montando cannoni ultima generazione sulle navi e sfondando le protezioni dei porti al sud del Giappone.

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Matthew Perry fu uomo militare statunitense e fece le guerre in Florida contro la Cuba spagnola e poi in Messico partecipò a pistolettate. Piacque così tanto allo zar che cercava di prenderlo tra i suoi, come al tempo delle epopee mercenarie alla scoperta di mondi nuovi in mare quando italiani navigavano per inglesi e francesi. Perry fu più pragmatico di così, insistette con la marina yankee e fece un primo viaggio verso il Giappone nel 1851 per poi tornarvi tra 8 e 14 luglio 1853, sparando cannonate con la scusa di celebrare la giornata d’Indipedenza. Gli fu intimato dai giapponesi imperiali in crisi, imbozzolati in un ordine statale che non cambiava da due secoli e mezzo, di prendere il largo verso la sua madrepatria e di ripresentarsi dopo un anno.

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Ora immaginate un bambino scozzese come Stevenson che sente queste storie intorno ai suoi sei anni, la fantasia prende fuoco. Perché Perry è stinco di diavolo. Guadagna nell’estate del ’53 Formosa e poi brucia i tempi, si ripresenta il 13 febbraio 1854 in Giappone, molto a sud, per il secondo round esplorativo e commerciale. Come doveva gonfiarsi Stevenson quando da scozzese gli raccontavano che la madre del comandante Perry discendeva da William Wallace, eroe delle guerra medievale per l’indipendenza scozzese. Naturalmente Perry vantava antenati anche tra gli eretici della Mayflower, così come Augusto si spiegava ai suoi come discendente da Enea.

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Perché l’editoria casereccia di Sellerio quando si mise a tradurre parzialmente Ritratti familiari di uomini e libri di Stevenson omettesse il saggio su un remoto giapponese, è presto detto. Il giapponese non era scrittore ma uomo a tutto tondo. Poi. Aveva nome orrendo, Yoshida Torojiro (1830-1859, il nome si pronuncia così come si legge, il cognome suona a Tokyo come Tahasgio e vale per ribelle esterofilo). Ancora. Traduco di nuovo dal saggio I libri che mi influenzarono (maggio 1887): “Suppongo qui, in chiusura, di aver scordato le cose più influenti, ché vedo di aver dimenticato Thoreau, Hazlitt (il cui Spirito delle obbligazioni fu un punto di svolta nella mia vita) insieme a Penn il cui piccolo libro di aforismi ebbe breve ma forte effetto su di me, e poi i Racconti del vecchio Giappone di Mitford dai quali ho appreso per la prima volta l’attitudine specifica di qualsiasi uomo razionale verso le leggi della sua nazione – un segreto scovato e custodito nelle isole asiatiche”.

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In sintesi. Niente vacuità di stile, e parola al saggio di Stevenson che era anche precedente a questa uscita pro-nipponica. 1880. Stevenson si fa storico di questo ribelle giapponese ucciso perché aveva cercato un adescamento con Perry. Il quale non venne mai a sapere che un samurai aveva cercato di raggiungerlo con una scialuppa la notte del 31 marzo. Perry stava per salpare per gli States. Aveva appena firmato un trattato coi giapponesi pensando di aver ricevuto l’avallo del loro imperatore.

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Yoshida avrebbe atteso quella notte in una grotta davanti al mare. Prese una scialuppa per raggiungere le Black ships di Perry ma le guardie yankee lo presero per nemico. Lui ritornò a terra. Fecero in tempo a punirlo per decapitazione. Stevenson l’aveva capito che letteratura e coraggio sono la stessa cosa.

Andrea Bianchi

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Yoshida Torojiro

Il nome in cima a questa pagine è probabilmente sconosciuto al lettore inglese, e tuttavia penso che dovrebbe essere parola domestica come quello di Garibaldi o di John Brown. Presto tra qualche giorno possiamo attendere di sentire più dettagli della storia di Yoshida, e il grado della sua influenza nella trasformazione del Giappone; persino ora ci deve essere qualche Inglese familiare con l’argomento e forse la comparsa di questo bozzetto può consentire qualcosa di più completo ed esatto. Mi auguro di dire che non sono, per correttezza, autore del presente articolo: racconto la storia sull’autorità di un intelligente gentiluomo giapponese, Mr. Taiso Masaki, il quale me la disse con un’emozione che onora il suo cuore; e sebbene con fatica gli abbia mandato le mie note perché le correggesse, il suo non può essere di più che un ritratto imperfetto, come una linea che definisca Yoshida.

Yoshida Torajiro era figlio dell’istruttore militare erede della casa di Choshu. Il nome lo dovete pronunciare con eguale accento sulle varie sillabe, quasi come in francese, vocali all’italiana ma consonanti al modo inglese – eccetto la J che ha suono francese o, come è stato ben proposto per scriverla, il suono di ZH. Yoshida era molto esperto di lettere cinesi o, potremmo dire, nei classici di quella lingua e anche abile nell’arte del padre; fortificazioni era il suo studio favorito e fu poeta sin da bambino. Nacque in mezzo a patriottismo vivace ed intelligente; la condizione del Giappone lo preoccupava assai e mentre progettava un futuro migliore non perse l’opportunità di migliorare la sua cognizione dello stato di cose a lui attuali. A questo fine viaggiò a lungo in gioventù al modo coraggioso degli eroi che si aiutano da soli, a piedi e talvolta con tre giorni di provviste sulle spalle. Teneva un diario tutto fitto nei suoi viaggi ma temeva che queste note sarebbero state distrutte. Se il loro valore era, come possiamo aspettarci, come il carattere dell’uomo, questa sarebbe una perdita difficilmente esagerabile. È ancora meraviglioso come quel Giapponese tentasse di spingersi avanti nelle esplorazioni; un gentiluomo di cultura di quella terra e di quel periodo lasciava un poema gratulatorio là dove trovava ospitalità; e un amico di Mr. Masaki, anche lui grande viaggiatore, ha trovato tracce del passaggio di Yoshida in tutte le regioni remote del Giappone.

La politica è forse l’unica professione per la quale non si ritenga necessaria alcuna preparazione; ma Yoshida pensava altrimenti e studiò le miserie dei suoi compatrioti con tanta attenzione e studio come se dovesse scrivere un libro invece di proporre un banale rimedio. Ad un uomo della sua intensità e singolarità, non vi è questione – questa ricerca era melancolia, all’estremo. La sua insoddisfazione è provata dalla determinazione con la quale si buttò nella causa delle riforme; e quel che avrebbe scoraggiato altri, Yoshida lo prese come suo compito. Siccome professava la teoria delle armi, in primo luogo la sua mente fu occupata dalle difese per il Giappone. La flebilità esterna di quella nazione era verificata allora dal modo in cui i barbari la attraversavano, e dalla visita di grandi navi da guerra barbariche: il Giappone era una donna contesa. Quindi il patriottismo di Yoshida prese una forma che potremmo dire si sconfisse da sola: si impegnò a tener fuori tutti questi potenti stranieri, che è ora suo merito maggiore aver aiutato a introdurre; ma un uomo che segue il suo cuore virtuoso si troverà sempre, alla fine, ad aver lottato per il meglio. Una cosa porta naturalmente all’altra in una mente pronta, con un progresso al rialzo da effetto a causa. Il potere e la conoscenza di questi stranieri erano cose inseparabili; invidiandone la forza militare, Yoshida prese ad invidiarne la cultura; dal desiderio di eguagliarli nella prima esplose il suo desiderio di condividerne la seconda; e perciò si trovò a scrivere in uno stesso libro di un nuovo schema per rafforzare le difese di Kioto e dello stabilimento, nella stessa città, di un’università per insegnanti stranieri. Sperava, forse di prendere il buono senza il malvagio dalle altre terre; di consentire al Giappone di profittare della conoscenza dei barbari e però mantenerlo inviolato con le sue arti e virtù. Ma qualunque fosse la natura precisa della sua speranza, i mezzi coi quali la perseguì erano insieme difficili ed ovvi. Qualcuno con occhi e comprensione deve irrompere tramite il cordone ufficiale, scappare nel nuovo mondo e studiare l’altra civiltà sul punto. E chi potrebbe essere più idoneo a questa faccenda? Non era senza pericolo ma lui era senza paura, Si cercava preparazione e veduta interiore; e che aveva fatto sin da bambino se non prepararsi col meglio della cultura giapponese acquistando nelle sue escursioni il potere e l’abitudine all’osservazione? A soli ventidue anni a già tutto chiaro nella mente, quando giunsero nuove a Choshu che il Commodoro Perry stava nei pressi di Yeddo. Qui, allora, stava l’opportunità del patriota. Tra i Samurai di Choshu e in particolare tra i consiglieri del Daimio, la sua cultura generale, le sue vedute, che i più illuminati accoglievano volentieri e, soprattutto, lo charme profetico, la radiante persuasione dell’uomo, gli guadagnavano molti e sinceri discepoli. Aveva forte influenza nella Corte provinciale; e ottenne permesso di abbandonare il distretto e, con un pretesto, il privilegio di mantenere la sua professione a Yeddo. Poi si affrettò e arrivò in tempo per essere in ritardo: Perry aveva levato l’ancora, e le sue navi erano svanite dalle acque del Giappone. Ma Yoshida, messa la mano sul petto, non era uomo da tornare indietro; ormai c’era dentro e, con Dio, avrebbe portato avanti la prova; quindi smise la sua carriera di professionista e rimase a Yeddo per cogliere l’opportunità a venire. Con questo comportamento di mise in una posizione verso il suo superiore il Damio di Choshu che non posso spiegare facilmente. Certo, divenne un ronyn, un uomo spezzato, un fuorilegge del feudo; certo era da arrestare se tornava a casa; pure, mi si dice che “non ruppe davvero il suo patto, ma solo si separò così che il principe non potesse essere responsabile della condotta del suo ex-vassallo”. C’è del bello nel costume feudale che sfugge alla mia comprensione.

A Yeddo, con questo status politico imprevisto, e tagliato fuori senza mezzi di sussistenza, era sostenuto con gioia da chi simpatizzava col suo progetto. Uno era Sakuma-Shozan, ereditiere di uno dei consiglieri dello Shogun, e da lui ottenne più che monete o valore delle monete. Uomo sano, rispettabile, con un occhio all’opinione del mondo, Sakuma era quello dei due che, se da soli non riescono a fare molto, hanno però ardore di ammirazione per quelli che vi riescono – e questo li raccomanda alla gratitudine della storia, Loro aiutano e portano la grandezza più, forse, di quanto immaginiamo. Uno pensa di loro e i Nicodemo che visitò nostro Signore di notte. E Sakuma era in posizione di aiutare Yoshida più nella pratica che per semplice condivisione; perché sapeva leggere l’olandese e sapeva comunicare bene quel che sapeva.

Mentre il giovane ronyn stavo perciò a studiare a Yeddo, vennero nuove di una nave russa a Nagasaki. Non andava perso tempo. Sakuma fornì “una lunga copia di versi di incoraggiamento e spedì Yoshida a piedi verso Nagasaki”. Si passava proprio per la provincia di Choshu; ma siccome la strada principale passava a sud della capitale, riuscì a evitare l’arresto. Si faceva forza, come un trovatore medievale, con la sua destrezza nei versi. Portava avanti i suoi lavori, a servire da introduzione. Quando raggiungeva una città voleva capire tutto di chi era celebrato per la spada, la poesia o altre forme riconosciute dalla cultura; e lì, dando prova di abilità nel gusto, era ricevuto e intrattenuto, lasciando dietro di sé un complimento in forma di verso. Quindi viaggiò nel Medioevo nel suo viaggio di scoperta del diciannovesimo secolo. Quando raggiunse Nagasaki era ancora una volta troppo tardi. I Russi se n’erano andati. Ma trasse profitto dal viaggio nonostante i fati e stette un po’ a prendere frammenti di conoscenza dagli interpreti olandesi – bassa classe di uomini, ma colma di opportunità; e poi, ancora col suo scopo, tornò a Yeddo a piedi, come se n’era venuto.

Non era solo la sua gioventù e il coraggio che lo tenevano su in queste varie disillusioni, ma il continuo afflusso di discepoli. L’uomo aveva la tenacia di Bruce e Colombo, con una piacevolezza tutta sua. Non combatteva per quel che il mondo chiama successo; ma per “la ricompensa di andare avanti”. Controllatelo in una dozzina di direzioni, lo troverete ancora in un’altra via, appena scovata da lui. Perdeva un appoggio dopo l’altro, e il suo lavoro principale stava ancora su; finché avesse un singolo Giapponese da illuminare e preparare per un futuro migliore, sentiva di star lavorando per il Giappone. Ora, era da poco tornato da Nagasaki che fu cercato da uno, il più interessante di tutti. Un soldato comune, della classe Hemming, tintore per nascita, che aveva sentito vagamente dei movimenti di Yoshida e si era fatto tutto meraviglia per i suoi progetti. Era uno abbastanza diverso da Sakuma-Shozan e dai consiglieri del Daimio di Choshu. Non era un gentiluomo a doppio taglio, ma la solita razza della nazione, nata in mezzo a tradizioni basse senza miglioramento libresco; eppure quell’influenza, quella persuasione radiante che non mancavano mai a Yoshida in nessuna circostanza della sua breve vita, incantavano, soggiogavano e convertivano quel soldato qualunque, allo stesso modo di come era avvenuto con gli elegantoni istruiti. L’uomo immediatamente si infiammò per entusiasmo; la sua mente stava solo aspettando un maestro; afferrò in un momento il profitto di queste nuove idee; anche lui sarebbe andato in posti stranieri oltremare e avrebbe riportato quella conoscenza che rafforzava e rinnovava il Giappone; e nel frattempo, perché si preparasse meglio, Yoshida si mise a insegnargli tutta la letteratura cinese. È un episodio che onora Yoshida e ancor più il soldato, e la capacità e la virtù della gente comune in Giappone.

E ora, infine, il Commodoro Perry tornò a Simoda. Amici si radunarono intorno a Yoshida con aiuto, consigli e incoraggiamento. Uno si presentò con una spada enorme, lunga tre piedi e molto pesante e che, nell’esaltazione dell’ora, giurò di portare per tutte le strade e di riportare indietro – che arma da passeggio! – in Giappone. Fu preparata una lunga lettera in cinese per gli ufficiali americani; fu rivista e corretta da Sakuma e firmata da Yoshida sotto il nome di Urinaki-Maji, e poi dal soldato come Ichigi-Koda. Yoshida si era provvisto di materiali a profusione per scrivere; il suo vestito era letteralmente ripieno di carta che doveva tornare indietro arricchita di osservazioni e fare del Giappone un regno grande e felice. Così equipaggiata, questa coppia di emigranti si mise in cammino da Yeddo e raggiunse Simoda prima che venisse notte. In nessun periodo della storia il viaggio può aver presentato a creatura europea la medesima faccia di paura e terrore come fu per questi coraggiosi Giapponesi. La discesa di Ulisse agli inferi è un parallelo più vicino al caso che la più lineare spedizione ai circolari polari. Ché il loro atto era senza precedenti; era criminale; e stava per portarli oltre la soglia degli umani in una terra di demoni. Non ci meravigliamo che fossero scioccati al pensiero della loro situazione insolita; e forse il soldato diede voce al sentimento di entrambi quando cantò in cinese – aveva già tratto profitto dalle sue lezioni – questi due versi ben indicati:

“Non sappiamo dove ci tocca dormire stanotte, Tra migliaia di deserti dove non vediamo fumo umano”.

In breve tempo, lontani dal bagnasciuga, giacquero per riposare; il sonno li prese tutti; e quando si svegliarono, “est era già bianco” per il loro ultimo mattino in Giappone. Presero la barca di un pescatore e vogarono – Perry stava al largo in mare a causa delle due maree. Il loro modo di imbarcarsi sta per determinazione; ché non appena saliti in barca erano ormai lontani e impossibile il ritorno. Ora avreste detto che tutto era concluso. Ma il Commodoro aveva ormai trattato col governo dello Shogun; una di quelle stipulazioni che non consentivano ai Giapponesi di evadere dal loro paese; e Yoshida e i suoi seguaci furono presi come prigionieri dalle autorità di Simoda. Quella notte colui che stava per esplorare i segreti del barbaro dormiva, se mai ci fosse riuscito, in una cella troppo piccola per distendervisi completamente, e troppo bassa per rimanere in piedi. Alcune disillusioni sono troppo grosse per essere commentate.

Sakuma, coinvolto per via del testo scritto, fu confinato nella sua provincia da dove fu presto rilasciato. Yoshida e il soldato soffrirono un lungo e miserevole periodo di prigionia e il secondo morì in prigione per malattia della pelle. Ma uno spirito come quello di Yoshida-Torajiro non è fatto o tenuto prigioniero facilmente; e quello che non può esser rotto dalla sfortuna tenterai invano di confinarlo in una Bastiglia. Era infaticabilmente attivo, a scrivere report al Governo e trattati di indottrinamento. Questi ultimi erano in contrabbando; pure, non ebbe difficoltà a distribuirli perché ebbe dalla sua il carceriere. Invano lo portavano di prigione in prigione; il Governo in questo modo inaspriva soltanto la forza d’irradiamento delle nuove idee; ché Yoshida bastava arrivasse e faceva convertire tutti. Dunque benché a terra confermava ed estendeva il suo partito dentro lo Stato.

Infine, dopo pochi altri trasferimenti, gli fu data la prigione del superiore dello Shogun – quella del Daimio di Choshi. Ora mi pare plausibile che avesse tentato di lasciare il Giappone e fosse riconsegnato al Governo provinciale come un infimo ribelle feudale, un ronyin. Ma, sia come sia, il cambiamento fu di grande importanza per Yoshida; per influenza dei suoi ammiratori al consiglio del Daimio gli fu concesso il privilegio, sotto banco, di andare a casa. E lì, nel tentativo di tenere la comunicazione con i suoi amici riformatori e proseguendo il lavoro di istruzione, ricevette ragazzi ai quali insegnare. Non si pensi che fosse libero; era un uomo troppo segnalato; gli fu data forse una cerchia ristretta e visse, diremmo, sotto sorveglianza politica; ma a lui che aveva fatto così tanto sotto chiave questa sembrava una libertà larga della quale approfittare.

In questo periodo Mr. Masaki fu messo in contatto personale con Yoshida; e di qui, con occhi di ragazzo di tredici anni, diamo un buono sguardo al carattere e alle abitudini dell’eroe. Era bruttino e sfigurato da far ridere con gibboni; la natura era stata cattivella con lui dall’inizio, le sue abitudini consone. Gli abiti trascurati; quando mangiava o si lavava metteva le mani sulle labbra; i capelli pettinati non più di una volta al mese, era davvero disgustoso a vedersi. Con simile figura, è facile capire che non si sposò mai. Buon insegnante, gentile nelle azioni benché violento ed eccessivo nell’eloquio, le sue lezioni adatte a superare le menti dei suoi scolari e lasciarli gongolare, e spesso a ridacchiare. Tale la sua passione per lo studio che non si dava riposo consono; e dopo ore passate sui libri, se era estate, si metteva le zanzare sulle sue labbra; se era inverno, si toglieva le scarpe e correva nella neve scalzo. La sua calligrafia villana in modo straordinario; benché poeta non aveva gusto per quanto fosse elegante; e in una nazione dove scrivere con stile non era contrassegno dello scrivano ma complimento ammirevole per il gentiluomo, egli soffrì che le sue lettere fossero fuse insieme non da lui ma dalla stampa e dal calore delle sue convinzioni. Non tollerava nemmeno la manifestazione di una ruberia; questa era alla radice di ogni male in Giappone e nelle nazioni adiacenti. Una volta che un mercante gli portò il figlio perché lo istruisse aggiungendo, come era usanza, un piccolo raddolcimento privato, Yoshida rigettò le monete in faccia a chi gliele offriva e si lanciò a correre indignato, e con lui il pubblico della scuola. Era ancora, quando Masaki lo conobbe, assai indebolito dalle difficoltà della prigione; e la spada della presentazione, lunga tre piedi, era troppo pesante per lui perché la portasse senza affaticarsi; pure la portava appresso quando andava a zappettare nel suo giardino. Tocco che qualifica l’uomo. Una natura più debole si sarebbe allontanata dal segno che solo commemorava un fallimento. Ma era del parere di Thoreau, che se “puoi fare il tuo fallimento tragico con coraggio, non sarà diverso dal successo”. Poteva guardare indietro senza confusione alla sua promessa entusiasmante. Se gli eventi erano stati contrari e si era trovato inabile a raggiungere lo scopo – bene, non era che una ragione in più per essere coraggioso e costante altrove; se non poteva portare la spada in terre barbare, questa sarebbe stata, almeno, testimone di una vita trascorsa interamente per il Giappone.

Questo lo sguardo che abbiamo di lui per come appariva allo scolaro, ma scollegato dallo spirito dello scolaro. Un uomo con così poca cura delle grazie doveva essere fuori concorso con ragazzi e donne. E infatti, siccome siamo stati tutti (o quasi) a scuola, non sorprenderà nessuno che Yoshida fosse per i ragazzi un baule pieno di ridicolaggini. Gli scolari hanno un fine senso dell’umorismo. Gli eroi imparano a capirli ed ammirarli nei libri; ma oltre non sanno coglierli sotto i tratti di un uomo contemporaneo, e ancor meno se questi è un insegnante raggomitolato, zozzo ed eccentrico. Ma come gli anni passavano e gli scolari di Yoshida continuavano in vano a guardarsi intorno per la perfetta astrazione e capivano sempre più la sottigliezza delle sue istruzioni, impararono a guardare indietro a quel comico maestro di scuola come al più nobile degli uomini.

L’ultimo atto di questa esistenza breve ma ricca era ormai prossimo. Parte del lavoro era compiuto; tre insegnanti olandesi erano stati ammessi a Nagasaki e la nazione era tutta pronta per il nuovo insegnamento. Ma benché la rinascita fosse cominciata, fu impedita e minacciata pericolosamente dal potere dello Shogun. Il suo ministro – lo stesso che poi fu assassinato nella neve proprio tra le sue guardie – non solo tratteneva gli allievi dal recarsi dagli Olandesi, ma con spie e detective, con imprigionamento e morte, continuava a trattenere gli spiriti più intelligenti ed attivi del Giappone. È la vecchia storia del potere che sta in piedi sulle sue ultime gambe – il coraggio spedito in Bastiglia, il coraggio incatenato alle colonne; quando non restano in giro che pecore e asini, lo Stato sarà stato salvato. Ma un uomo non deve pensare a trattare della rivoluzione; né un Ministro, benché reso forte dalle sue guardie, trascurare di controllare una nazione che ha dato natali a uomini come Yoshida e il suo soldato seguace. La violenza del Tarquinio ministeriale serviva solo a dirigere l’attenzione all’illegalità della regola del maestro; e le persone presero a dare la loro alleanza al Mikado a lungo abbandonato nella sua reclusione di Kioto, non a Yeddo e allo Shogun. In questa congiuntura, ne fosse conseguenza o no, le relazione tra questi due sovrani si complicarono; e il ministro dello Shogun andò a Kioto per lanciare un altro affronto al sovrano che stava nel giusto. La circostanza doveva far precipitare gli eventi. Era opera di religione difendere il Mikado; era solo gesto di correttezza politica opporsi all’usurpazione tirannica e sanguinaria. A Yoshida il momento dell’azione sembrò arrivato. Era ancora confinato a Choshu. Nulla era libero se non la sua intelligenza; ma con quella dava forma alla spada del ministro dello Shogun. Un partito di suoi seguaci era in via per scacciare il tiranno sulla strada di Yeddo e Kioto, gli presentò una petizione e gli diede la spada. Ma Yoshida e i suoi amici erano osservati da vicino; e la spedizione troppo grossa di due cospiratori, un ragazzo di diciotto anni e suo fratello, risvegliò il sospetto delle autorità e portò alla scoperta di tutto il piano e all’arresto di tutti I coinvolti. A Yeddo, dove fu portato, Yoshida fu gettato di nuovo in cella di confinamento. Ma non rimase senza simpatia nell’ultima ora del suo processo. Nella cella accanto stava un certo Kusakabe, un riformatore dalle valli meridionali di Satzuma. Erano in prigione per situazioni diverse ma per le medesime intenzioni; condividevano identiche convinzioni e aspirazioni per il Giappone; molte e lunghe furono le conversazioni che tennero tramite la parete divisoria, cara la simpatia che prestò li unì. Prima toccò a Kusakabe essere condotto davanti ai giudici; e quando la sentenza fu pronunciata, fu condotto a morire sotto la finestra di Yoshida. Voltare la testa sarebbe stato rendersi complice del suo compagno di prigione; ma diede uno sguardo da un occhio e diede un addio a voce alto con questi due versi cinesi: “Meglio essere cristallo e venir rotto,/ Che rimanere perfetto come una tegola sopra il tetto”.

Così Kusakabe dalle valli di Satzuma lasciò il teatro di questo mondo. La sua morte fu per valore come quelle degli antichi.

Poco dopo anche Yoshida dovette apparire davanti alla Corte. La sua ultima scena fu un pezzo solo con la sua carriera e la coronò adeguatamente. Sfruttò l’occasione dell’audience pubblica, confessò e glorificò il suo progetto e dando a chi lo ascoltava una lezione di storia nazionale, raccontando a lungo dell’illegalità del potere dello Shogun e dei crimini attraverso i quali stava in piedi. Così, detta la sua in una volta sola, fu condotto al luogo dell’esecuzione e processato, trentun anni.

Ingegnere militare, ottimo viaggiatore (almeno nei desideri), poeta, patriota, maestro di scuola, amico dell’insegnamento, martire per la riforma – non ci sono molti uomini, anche se muoiono a settant’anni, che abbiano servito la loro nazione in così vari ruoli. Non solo era saggio e previdente nel pensiero, ma certo uno dei più orgogliosi tra gli eroi al patibolo. Difficile dire cosa sia più notevole – la sua capacità di comando che soggiogava gli stessi carcerier; il suo zelo bollente, mai un grado di sotto; o la sua cocciuta superiorità, dura da sconfiggere. Fallì in ogni impresa particolare che tentò; eppure dobbiamo solo guardare la sua nazione per vedere come sia stato completo il suo successo generale. I suoi amici ed allievi furono la maggioranza dei leader in quella finale Rivoluzione, ora sono dodici anni; e molti di loro sono, o furono fino all’altro ieri, ben in alto tra i governanti giapponesi. E quando guardiamo intorno a noi questi studenti rapidi e intelligenti, con la loro strana aria straniera, non dovremmo mai dimenticare come Yoshida marciasse a piedi da Choshu a Yeddo, e da Yeddo a Nagasaki, e da Nagasaki di nuovo indietro a Yeddo; come si mise sulla scia della nave americana, il suo vestito ripieno di materiale scrittorio; né come languì in prigione e finalmente morì, come dapprima aveva dato tutta la sua vita e forza e disciplina, al fine di rendere alla sua terra nativa quei benefici dei quali lei ora gode così largamente. Meglio essere Yoshida e morire che essere solo Sakuma e salvarsi la pelle. Kusakabe di Satzuma ha detto la parola: meglio essere cristallo e venir rotto.

Devo aggiungere una parola; ché spero il lettore non mancherà di percepire che questo è tanto la storia di un popolo eroico come di un uomo eroico. Non basta ricordare Yoshida; non dobbiamo dimenticare il soldato comune, neanche Kusakabe, neanche il ragazzo di diciotto anni, Nomura di Choshu, la cui furia tradì il complotto. Fa perdere lucidità pensare di essere vissuti al tempo di questi uomini dal cuore gigante. Solo a poche miglia da noi, per prendere le proporzioni dell’universo, mentre svolazzavo nelle mie lezioni, Yoshida stava a stuzzicarsi con le punture di zanzare; e mentre voi eravate riluttanti a pagare un penny di tassa, Kusakabe andava a morire con una nobile sentenza sulle labbra.

Robert Louis Stevenson

Gruppo MAGOG