29 Gennaio 2019

Il romanzo su Brexit? Non l’ha scritto Jonathan Coe, paladino dei perbenisti, ma George Orwell, più contemporaneo di molti scrittori di oggi (e poi, pasturate gli adolescenti con Stevenson, vi prego…)

Gira per le librerie un libro di fango inglese, il titolo è Middle England e l’autore si chiama Jonathan Coe, uno che manco ha scritto la metà dei libri che valgano quelli di McEwan o Barnes (mica sono defunti! scrivono da sessantenni pimpanti). Il libro è propinato da Feltrinelli e manco a dirlo vi aiuterà a capire 1. le seghe mentali di una coppia, lui energumeno che vota Brexit – lei sofisticatina europea che vota per stare nella UE; 2. la grande pippa del loro terapeuta, il quale li porta a concentrarsi sulla politica perché è proprio questa la bastardona che ha fatto scoppiare i due citrulli variamente assortiti nella midlle class; 3. e non meno importante – che tanto vale rileggersi due scozzesi purosangue come Orwell e Stevenson, sepolti nell’ossario e nell’incenso, anziché queste fregnacce di Coe.

Poi è chiaro, se cercate di farvi belli per la dama a spasso che legge solo Feltrinelli e vi crede un ganzo se le parlate di Coe, fate vobis.

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Coe è il classico perbenista leccato. Vent’anni fa ci ha deliziato con La casa del sonno. Io un libro lo voglio dissezionare. Guardate come minchia scrive questo Coe (e mi perdoni Stevenson così candid se uso un turpe linguaggio a lui sconosciuto, magari Orwell gradisce il piglio giornalistico). Questo era l’incipit allegorico della vaccata, anche quella rigorosamente Feltrinelli: “Nota. I capitoli dispari sono ambientati per la maggior parte negli anni 1983-4. I capitoli pari sono ambientati nelle ultime settimane del giugno 1996”. Insomma il classico beota che si crede Joyce redivivo ma non vale nemmeno un nono della Woolf.

Altro florilegio degno di un giallucolo da stazione mal scritto: “Sacrificò i soldi della cena di una settimana e prese un taxi, fu a Ashdown in un attimo e restò a letto tutto il pomeriggio, con l’avvilimento che non accennava a diminuire”. Poi è chiaro, anche all’estero scrivono male, come se Dickens fosse ancora di là da venire – gialli in stile magistrato, quelli che piacciono ai colti del nostro Bel Paese. Ma all’estero la regola è la scrittura buona. Vedere Barnes per credere. Oppure leggere direttamente il decalogo di Stevenson al fondo di questo articolo.

Voglio dire. Se Coe non sa usare gli aggettivi, vale la pena di leggerlo? A me fa venire i brividi: “Partì a velocità irresponsabile dall’uscita del campus; diede appena un’occhiata al retrovisore e ci vide la sagoma di Robert ancora fermo al centro del parcheggio, imbambolato, derelitto…Terry continuava a ruminare queste domande soggiacendo a un’illecita tazza di caffè nel ristorante deserto”.

Io francamente, se leggo che in Middle England il terapeuta per la coppia parla così: “Quel che mi interessa nelle vostre risposte è che non avete tirato in ballo la politica. Come se il referendum non fosse una cosa europea. Forse c’è sotto qualcosa più personale, fondamentale? Ma allora la cosa diventa difficile” – sic rebus stantibus, io non lo leggo.

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Sento già la voce acuta e stronza che dice: allora come capisci la tua contemporaneità? La capisco, Miss. Eccome, mi leggo Orwell. Un romanzo come Una boccata d’aria che è del 1939, scritto divinamente e che mostra il senso dell’insularità UK e il suo orgoglio patriottico che li ha portati a uscire da UE. (Poi magari tra dieci anni rivediamo il nastro e vediamo chi era avanti, Moscovici o Bercow.) Romanzo dove l’Inghilterra democratica si pone due domande mentre gli Stukas trasvolano la Manica a passatempo.

E questo giornalista, Orwell, a tracciare il ritratto di un’epoca con tono affabile. Orwell oggi ci appare come un classico a confronto di scrittori feticci come Coe – ma lui sapeva benissimo, da giornalista, che non si poteva scrivere più come Joyce o James, non si poteva delegare tutto alle belle arti. Però (qui si stacca da terra) questo non svincola lo scrittore da tenere in mano la penna come un dio. E vediamo ad esempio come nel 1939 (ottant’anni fa, cazzo!) manda il suo protagonista a ritrovare i luoghi dell’infanzia e gli fa incontrare la sua prima donna: “Ecco che cosa sono io per i ventenni, pensai incamminandomi tra le tombe. Solo una povera vecchia carcassa. Finito. Curioso, no? Di solito, non me ne importa un fico della mia età. Perché dovrebbe importarmene? Sono grasso, ma forte e pieno di salute. Posso fare qualunque cosa voglia. Una rosa ha per me lo stesso profumo che sentivo quando avevo vent’anni. Già, ma ho lo stesso profumo, io, per la rosa?”. Così si detta al mondo. Il romanzo su Brexit l’ha scritto George Orwell.

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Quel che preoccupa è vedere come la pastura per ragazzi sia scarsa. Date in mano a un adolescente una vera bomba, L’isola del tesoro, e lasciate perdere le fantasie di Malvaldi su Leonardo da Vinci (ci ha già pensato Dan Brown, suvvia). E forse qui sta il punto: lo spegnimento dell’immaginazione a opera della tecnologia onnipervasiva. Allora attacchiamoci a Stevenson: “I romanzi non incatenano il lettore a un dogma che poi scoprirà essere fallace, né gli impartiscono una lezione che dovrà successivamente dimenticare. Essi ripetono, riassestano e chiariscono le lezioni della vita, ci liberano da noi stessi, ci costringono a conoscere gli altri e ci mostrano la trama dell’esperienza come non riusciamo a vederla con i nostri occhi, ma attraverso un’altra prospettiva che, per una volta, non è il nostro mostruoso ego distruttore. Per fare questo, essi devono essere ragionevolmente fedeli alla commedia umana”. Queste parole del 1887 sono più fresche delle menzogne di Coe (anche se scritte ieri l’altro).

Andrea Bianchi

Gruppo MAGOG