14 Ottobre 2018

“Il poeta è un uomo pieno di dubbi, che si nutre dell’arte del sospetto, è un tipo scomodo”: dialogo con Rodrigo Arriagada-Zubieta, tra i grandi poeti cileni di oggi

La sensazione è quella, finalmente, di aver costruito un cafè in mezzo all’Atlantico, alla deriva dagli imperativi estetici e dai tromboni letterari. Finalmente, dico, oltre al consueto scambio di versi – con occhiolino complice: tu traduci una cosa a me e io una cosa te, cosa, nello specifico, che non mi riguarda – prima di tutto, una mitragliera di idee. Rodrigo Arriagada-Zubieta, cileno, classe 1982, è un poeta che esercita l’arte raffinata della critica. Anzi, della totale messa in questione delle questioni letterarie. Rodrigo è un poeta latinoamericano anomalo e dinamico: ha studiato – e insegna – in Cile, si è perfezionato a Barcellona, parla di Baudelaire e di Francis Bacon, discetta di Thomas S. Eliot e di Pasternak, scrive sulla Latin American Literature Review, che è un progetto organizzato dall’Università dell’Oklahoma, e su Buenos Aires Poetry, che è la più interessante testata di settore in Argentina. Quando gli parlo, ad esempio – e lui mi scrive in italiano le mail di circostanza, in spagnolo il resto – in questa specie di cafè del primo Novecento sopra l’oceano, incuranti dei continenti, mi sorprende questo suo concetto: “Mi interessano tutti quegli autori che hanno un atteggiamento di sospetto dinnanzi a qualsiasi stato prestabilito delle cose”. Lo specifica così: “mi interessano i poeti che nutrono il sospetto nei confronti del linguaggio stesso, il dubbio sul potere della poesia ma come correlato di un dubbio che scaturisce dai rapporti che si stabiliscono tra il linguaggio e l’esperienza”. Mi piace proprio la parola sospetto. Il sospetto impone un surplus dell’indagine, uno sguardo raddoppiato, delle mani decuplicate. Il poeta, in effetti, che sospetta di sé fino a desertificarsi, sospetta delle cose, cioè le adorna di sguardi, per amarle in un modo nuovo, nell’oro. Rodrigo Arriagada-Zubieta ha da poco pubblicato un libro lirico, Extrañeza – a cui ne è seguito un altro, Hotel Sitges – di cui si è parlato molto, come di una novità sperata – un poeta che pensa e non si limita e sentire – al di là del mondo. Per questo, costruendo il mio cafè su una zattera oceanica, ho invitato il poeta al dialogo.

extranezaChe cosa è per te la poesia, per quale ragione scrivi?

La poesia è una cosa assolutamente reale e, quindi, l’unica cosa che esiste, se paragonata alla mera inerzia meccanica del mondo della quale non resta alcuna traccia. La vita moderna è una mirabolante impresa di estinzione delle cose umane. Sono d’accordo con Walter Benjamin quando afferma che le contrapposizioni imposte all’individuo dalla modernità – in quanto a stimoli, impatti visivi e svuotamento della esperienza – sono talmente sproporzionate rispetto alle forze dell’uomo che questi potrebbe fuggire verso la sua morte. Da questo punto di vista e collocando la mia poesia in una modernità che reputo non esaurita, la mia ragione di scrivere rientra nella crisi della esperienza della nostra epoca, una diagnosi solitamente espressa in termini filosofici ma che è diventata l’intuizione generale che credo di avere nei confronti della esistenza: un’idea della vita come cancellatura, come bagliore, qualcosa che non accade mai nella realtà, qualcosa che non si riesce a conoscere mai e che, di conseguenza, deve essere rielaborata nel linguaggio. In questo senso, non credo di nutrire interesse nello scrivere. Tuttavia identifico una ossessione permanente per dare forma a certe immagini che mi tormentano e che richiedono una rielaborazione. È implacabile, da questa prospettiva, l’esempio della Recherche di Proust: insegna che la vita in sé non ha nessun significato, a meno che non gliene venga attribuito uno quando si crea una opera d’arte. La mia poesia verbalizza ciò che resta all’individuo nella sua intimità, quella intimità minacciata dalla logica transazionale delle relazioni umane, assolutamente priva, oggigiorno, di legami significativi. La mia poesia potrebbe benissimo essere identificata con un spazio privato, qualcosa che accade in testa, quasi unicamente nella solitudine di una stanza (da qui il mio interesse nei confronti di una pittura come quella di Hopper o della cinematografia di Lynch). Questo si spiega probabilmente col fatto che la vita per me non è niente altro che questo: qualcosa che accade in quello spazio intermedio tra ciò che sembra essere stato e ciò che persiste a guisa di ricordo tragicamente vago.

Sei uno studioso di letteratura e le tue poesie sono ricche di riferimenti letterari (a Pasternak e a Baudelaire, ad esempio): che importanza hanno i tuoi studi, le tue letture, per la tua poesia?

Quando affermo che la mia poesia è moderna, probabilmente penso a ciò che disse Paul Valéry nei confronti di Baudelaire. Per Valéry, Baudelaire non è il primo moderno, come molti ritengono, per aver realizzato una poesia ‘da città’, ma piuttosto per essere stato il primo ad associare la coscienza critica alla virtù della poesia. In questo senso credo che più che lo studio della letteratura legato alla mia attività di studioso, ciò che può essere stato determinante nella ideazione di un progetto poetico, è stata la mia attività di critico. La modernità di Baudelaire si oppose al Romanticismo a partire dalla lucidità, da certi calcoli che effettuava il poeta in base agli effetti che voleva provocare nel lettore. Questo fu ciò che più gli attrasse di Poe, la sua filosofia della composizione. Visto con lo sguardo di oggi, si può comprendere che con la sua presa di posizione Baudelaire volle sradicare dalla poesia il concetto di ispirazione. Lo stesso potremmo dire di un poeta come Thomas S. Eliot che integra le contraddizioni del suo tempo in una tecnica poetica necessariamente difficile che si astrae dagli effetti ipnotici dell’automatismo surrealista. In entrambi i casi, si tratta di demistificare sentimenti correnti e forme del linguaggio che riproducono quello che è. Nel mio caso specifico, non concepisco l’esistenza di un poeta senza la sua capacità di scrivere critica su altri poeti e di articolare un discorso sulla sua stessa poesia. Sono cileno, e nello stesso modo in cui Nicanor Parra ed Enrique Lihn dovettero battersi contro gli effetti ipnotici della poesia di Neruda, oggi penso che ci si debba battere contro la cattiva eredità di Parra, il suo mal compreso facilismo, ma soprattutto si devono evitare gli effetti ipnotici di poeti quali Zurita e Jodorowski che hanno praticato per anni ciò che ho denominato “una retorica dell’apparizione fantoccesca”. Occorre tornare alla scrittura e alla sua complessità. Ritengo che i grandi problemi del declino della poesia attuale in lingua spagnola – ed ecco la mia diagnosi – siano la mancanza di una riflessione che accompagni la prassi poetica, la scelta permanente di una espressione semplice e un certo discredito su cui è piombata l’intelligibilità limitata. La riflessione sulla poesia altrui – e qui mi rifaccio al vocabolo originale greco krinein – mi ha consentito di criticare, vale a dire, di separare ciò che è proprio del mio lavoro attraverso l’esperienza diretta con altre manifestazioni artistiche. In questo senso e relativamente ai riferimenti ad altri autori presenti nelle mie poesie, le allusioni a Baudelaire, a Lihn, a Pasternak, a Camus e ad alcuni pittori o registi come Godard costituiscono un grado di identificazione col modo di percepire il mondo e un interesse permanente per un tipo di arte che riflette sui propri mezzi di espressione. Questo cumulo di risonanze può effettivamente rendere più complessa la lettura delle mie opere ma non ho voluto rinunciare a una poesia oscura. Credo piuttosto in quella vecchia risorsa identificata già dai formalisti russi: lo straniamento della forma come possibile restituzione della esperienza. L’effetto è quello di ritardare la percezione affinché qualcuno possa vedere anziché semplicemente guardare, saturare la realtà di stranezza affinché si possa vedere, parafrasando Šklovskij.

BAP
Le ultime poesie di Rodrigo Arriagada-Zubieta sono pubblicate dalla rivista “Buenos Aires Poetry”

Che tipo di poesia preferisci leggere? Che rapporto hai con la poesia latinoamericana? Chi sono stati i tuoi maestri?

Mi interessano tutti quegli autori che hanno un atteggiamento di sospetto dinnanzi a qualsiasi stato prestabilito delle cose. Ho cominciato a nutrire interesse per la poesia ai 15 anni quando lessi il poeta cileno Enrique Lihn, probabilmente il poeta più influente delle attuali generazioni di poeti latinoamericani e quello che ha avuto un maggior influsso sulla mia scrittura. Ma non si tratta del sospetto – come si potrebbe pensare – sui poteri dell’originalità, un problema già affrontato da Borges e Nabokov, tanto per citare alcuni autori che fecero una letteratura della lettura. In questo senso non mi interessa la riscrittura come risorsa, né i procedimenti autoparodici acritici. Oggi alcuni autori latinoamericani scrivono come se Gérard Genette, Romand Barthes e Julia Kristeva fossero delle vere e proprie bibbie. È vero che la letteratura è permeata dal dialogo tra diversi testi ma questo dialogo non può diventare un metodo intenzionale a discapito della esperienza. Un atteggiamento di questo tipo, vale a dire, considerare il resto dei testi come “cadaveri” che possono essere rianimati a destra e a manca porta a una pratica infinitamente sterile di moltiplicazione di quanto già è stato scritto. Questo atteggiamento spiega come mai certi autori – sulla soglia dei 35 o 40 anni – hanno già pubblicato una trentina di libri o altri addirittura delle antologie, nonostante la ricezione della loro opera sia minuscola. Anche se non credo nella originalità come un valore, mi interessano i poeti che nutrono il sospetto nei confronti del linguaggio stesso, il dubbio sul potere della poesia ma come correlato di un dubbio che scaturisce dai rapporti che si stabiliscono tra il linguaggio e l’esperienza, più di ogni altra cosa. A mio avviso Pasternak, Lihn e Baudelaire compresero ben presto che lo status del poeta della modernità era quello di un personaggio scomodo e che al tempo stesso doveva scomodare. Mi interessa la riflessione metapoetica in quel senso che io definisco critico. Ma attenzione: non intendo critico nel senso di una poesia impegnata nei temi sociali, e qui sbagliarono a sufficienza i surrealisti quando confusero il mandato rimbaudiano di cambiare la vita con quello di cambiare il mondo. Si tratta di un atto critico nella misura in cui si fa carico della sua condizione di artificio e rispecchia – nella sua opacità – lo stesso dubbio da cui scaturisce, producendo un discorso pubblico che può spiegare il dilemma stesso. In questo senso i poeti che prediligo sono quelli come Montaigne che nutrono il sospetto che si possa arrivare a qualcosa di simile a una forma e si accontentano di propiziare l’infinità delle loro domande in un atteggiamento profondamente manierista, un periodo della storia dell’arte che ammiro profondamente.

In una tua poesia scrivi: “En lo que toca al amor/ todo está hecho de palabras”. Che cosa significa?

La poesia, secondo me, dice e installa, non credo che significhi. Il parlante di Extrañeza è un individuo che parla a se stesso e nel contempo non dialoga con nessuno. In quel andirivieni iscrive il suo proprio dubbio che emana dalla sua propria esperienza poetica. Il verso a cui alludi potrebbe essere collegato al momento in cui si scopre che l’esperienza amorosa può risultare insufficiente, se paragonata all’aspettativa che ha inculcato il concetto di amore nella sua formulazione più eccelsa, mi riferisco all’amore come idea formulata dalla Letteratura. In qualsiasi caso, l’idea a cui alludo si potrebbe identificare con il crollo del grande stile in poesia o con la messa in discussione della retorica. Questo lo troviamo in Musil, nell’opera L’uomo senza qualità, ed è qualcosa che in certo modo è andata perduta negli anni: l’organizzazione del linguaggio è coercitiva, non permette che la pluralità delle cose reali si manifesti nella sua totalità. In Extrañeza cerco di esprimere quanto possa essere indefinita e aperta l’esperienza nel momento in cui la riscrivo in una poesia; da questo non fugge un concetto così naturalizzato come l’amore. Il correlato stilistico di quel dubbio persistente potrebbe essere quello di un io volatile e privo di densità che ricostruisce se stesso a partire da episodi frammentari della sua vita. Forse è proprio questo il motivo per cui ho impiegato cinque anni a scrivere il libro, nonostante non sia particolarmente lungo. In un esercizio deliberato ho lasciato entrare il tempo nei versi, una sorte di sospetto nei confronti della mia stessa scrittura.

Come può la poesia intervenire nella storia, nel mondo? La poesia sembra sempre più impotente, oggi.

La poesia interviene nel mondo solamente nella misura in cui rende visibile la stessa possibilità di dire. In questo senso la poesia e il linguaggio – a partire da Baudelaire e poi con Rimbaud – devono affrontare l’ignoto. Questo significa addentrarsi fino in fondo e strappare la luce ad ogni epoca: questo voleva dire essere assolutamente moderno. La parola sarà più avanti dell’azione, disse Rimbaud, e in certo modo credo che quel mandato abbia raggiunto la sua totale pienezza con Mallarmé per cancellarsi – fatalmente- con Breton, che commise l’errore di confonderlo con l’imperativo marxista di “cambiare il mondo”. In quel modo la poesia cedette terreno alla politica. Su questo punto concordo con Gottfried Benn quando in un’intervista afferma che subordinare la funzione della poesia a quella di cambiare il mondo supporrebbe scrivere sul parlamento, interessarsi per le questioni municipali o per la vendita di terreni, per esempio. La poesia può insegnare all’umanità – parafrasando Benn – quanto segue: tu sei così e non sarai mai una altra; vivi così, hai vissuto così e vivrai così sempre. Si tratta, in definitiva, di accettare una sconfitta che si colloca in quel momento in cui la parola resta a tu per tu con la sua stessa lucidità: una sorta di sospensione del tempo, quella è l’ultima possibilità per la parola e, al tempo stesso, la causa del suo carattere non trascendente. Non ha nulla a che vedere con il progresso, bensì con il re-gresso all’esperienza di noi stessi e, in aggiunta, a quella di una umanità comune che non si riconosce ancora perché ha posticipato l’atto della lettura.

Perché la tua prima raccolta di poesia si intitola “Extrañeza”? E ora a cosa stai lavorando?

La Extrañeza è – come ha fatto notare un critico sulla mia opera – la capacità dell’individuo di vedersi da fuori, una sorte di estraneazione. La cosa strana che scopre il soggetto che parla nelle poesie è la percezione stessa, realizzare che essere se stessi non è altro che una disfatta dei sensi e un distacco continuo nei confronti di ciò che denominiamo – con molta leggerezza- mondo. C’è una sorta di cancellatura permanente nel soggetto che parla e che deve essere riempita attraverso referenti visivi o acustici che possano sorreggere le esperienze apparentemente vissute. Da qui si spiegano i riferimenti a diversi artisti quali Füssli, Bacon e Hopper; alla musica di gruppi musicali come i Pulp e i Depeche Mode; a film come Velluto blu, Tre colori. Film bianco, Nuovo Cinema Paradiso e I ponti di Madison Country. Questi sostegni di tipo culturale sono pensati per ravvivare in qualche modo l’esperienza, individualmente insignificante. Questi referenti sembrano essere l’unica cosa che accomuna l’uomo, gli specchi in cui ci riconosciamo a causa di una saturazione dell’inconscio. La poesia, credo, è un cammino per espurgare quelle risonanze e vivere con maggior leggerezza e minori ossessioni. In merito alla tua seconda domanda, ora sto ultimando Hotel Sitges, un insieme di poesie molto più metapoetiche che ho scritto quando ho vissuto in Catalogna e che saranno pubblicate a breve per i tipi di Buenos Aires Poetry.

*

Lector

En lo que toca al amor
todo está hecho de palabras,
historias que deslumbran a lectores nocturnos
con la inagotable fascinación de su apariencia
En lo que hay de real
nuestros cuerpos que nunca se comunican convierten esta danza erótica
en algo que indeciblemente no es
Estos cuerpos acuosos que se liquidan en la cama como una vertiente que llorara
volviendo a su soledad natural
La devoción por dicho estado de las cosas
puede habernos hecho sufrir una historia de amor en lengua muerta
un simulacro hecho de nada
en el que tú eras la indiferente protagonista
y yo el estúpido lector empedernido._

Lettore

In quanto all’amore
tutto è fatto di parole,
storie che abbagliano i lettori notturni
con l’inesauribile incanto della sua apparenza.
In quanto a ciò che è reale
i nostri corpi che non comunicano mai fanno diventare questa danza erotica
qualcosa che indicibilmente non è.
Questi corpi acquosi che si liquidano nel letto come un versante che piove
tornando alla loro solitudine naturale.
La devozione per questo stato delle cose
può averci fatto subire una storia d’amore in una lingua morta
un simulacro fatto di nulla
nel quale tu eri l’indifferente protagonista
e io il tonto lettore incallito.

Rodrigo Arriagada-Zubieta

(il servizio è di Davide Brullo, la traduzione italiana di Mercedes Ariza)

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