31 Marzo 2018

Il nostro Santo è il patrono dei condannati a morte, un bandito, un bastardo. Si chiama Dismas e fa il crocefisso

Riconoscere i santi è difficile: puoi essere cattolico, apostolico, romano e non capirci niente. Puoi essere il Papa e saperne pochissimo. Lo dice la Chiesa cattolica: il numero dei Santi è incalcolabile e conosciuto solo da Dio. Non è esauriente quindi il processo della canonizzazione, con i due miracoli accertati e la figura ora estinta dell’ advocatus diaboli (l’avvocato del diavolo, quello che pone tutte le obiezioni possibili, scovando particolari divisivi nella vita del beatificabile) e l’iscrizione al Martirologio Romano.

La santità è un fatto non burocratico, poco socialmente riconoscibile, in fondo non verificabile né falsificabile: ecco perché le inchieste sui santi, tipo quella di Christopher Hitchens su Madre Teresa di Calcutta, sono invariabilmente inutili. Non possono dire nulla oltre l’aspetto terreno. Che, a rigore, è solo un riflesso della santità, ma non la santità. I ‘libri verità’ sui Santi equivalgono a parlare di opere liriche disputando sul peso in tonnellate della scenografia. Hitch era witty, ma non era The Lord. E nemmeno l’advocatus diaboli.

Per chi considera al cattolicesimo oltre la suggestione fantasy (o Bdsm) può essere stranamente suggestivo pensare di avere incontrato alcuni santi o almeno uno e non averli riconosciuti. La vecchina pia in bus? Magari anche sì.Il piccolo Aylan che giace sulla spiaggia? Magari sì e magari no: ricordiamo la vignetta crudele di Cherlie Hebdò che lo raffigurava cresciuto e diventato molestatore.
O magari il testa di minchia che ti ha appena distrutto il parafango. O magari, anche, l’assassino di tuo figlio. Un orribile paradosso che ha ipnotizzato Dostoevskij e fatto impazzire Ivan Karamazov: vittima e carnefice che si abbracciano in Paradiso.
La cosa più incomprensibile per l’etica contemporanea, legata al finito, è la possibilità di un perdono divino (l’etica contemporanea, di base, è tecnicamente incapace di perdono) e quello di conversione è uno dei concetti più inestricabili della teodicea, la riflessione sulla giustizia di Dio.

Bertrand Russel scriveva: “Se un filosofo è un uomo cieco, in una stanza buia, che cerca un gatto nero che non c’è, un teologo è l’uomo che riesce a trovare quel gatto”. Ecco. Qui siamo se non altro ipovedenti assai. La stanza buia è qui: oggi è venerdì Santo, il giorno simbolicamente legato all’oscurità, cioè alla morte del Dio uomo nell’unica religione che ammette questo scandalo. Possiamo sentirci teologi. Perché il gatto l’abbiamo trovato.

Riconoscere i santi è difficile ma qui a quanto pare ne abbiamo uno. La cosa singolare è che non ha un nome. Eppure è uno dei santi più importanti, forse il più importante di tutti, l’unico a cui Cristo ha detto: “oggi sarai con me in Paradiso”, cosa che non ha detto né agli Apostoli, né alla Madre. Ed è anche l’unico personaggio delle Scritture che chiama il Cristo col nome proprio e basta, Gesù.
Il santo più importante di tutti non ha un nome, ed è un delinquente di mestiere. I vangeli di Marco e Matteo lo chiamano Lestos, brigante, mentre Il Vangelo di Luca lo chiama Kakourgos, “malfattore”: Luca scrive più tardi degli altri due evangelisti, e vuole evitare il termine Lestai, usato, dopo le violenze in Giudea, per identificare i cristiani, delinquenti pure loro.

Si tratta naturalmente di uno dei ladroni crocifissi con il Cristo, quello che nella tradizione cattolica si chiama “il buon ladrone”, e che è stato denominato Dismas (o Disma, o Dema) solo nel quarto secolo. Normalmente viene festeggiato il 25 marzo, che secondo Agostino e Tertulliano sarebbe il giorno della morte di Gesù e della sua. L’altra particolarità dei santi è che il loro “dies natalis”, il giorno della nascita al Cielo, è quello della morte. La ricorrenza di San Dismas è sentitamente celebrata nelle carceri Usa in cui vige la pena di morte.

La scena. Gerusalemme, Golgota, pomeriggio, tre croci. I detenuti pestati e crocefissi. Cristo in mezzo, moribondo. I due Kakourgoi (o Lestai) a lato. Ecco il racconto di Luca (23,39-43) “Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E disse: «Gesù, ricòrdati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel Paradiso»”.

Conversione di un delinquente all’ultimo minuto. Nel Vangelo arabo dell’infanzia di Gesù il ladrone si chiama Tito, da cui la canzone di De Andrè Il testamento di Tito. A parte la citazione di Luca qualche notizia su Dismas si trova, appunto nei Vangeli apocrifi. A cui la Chiesa Cattolica non attribuisce valore, ma che per i teologi ciechi -e poi appassionati a quella forma finitista di filologia che si chiama “storia degli effetti”, quindi alle leggende in quanto portatrici di verità extrametodiche- sono interessanti. Disma sarebbe nato in Egitto, avrebbe passato la vita rubando e uccidendo. E ci sarebbe stato un precedente incontro con Gesù: Disma avrebbe rischiato di attaccare la famiglia Nazareth in fuga in Egitto. Ma il ladrone sarebbe rimasto intenerito dalla visione di Maria, e avrebbe, anzi, portato alla Sacra Famiglia il proprio figlioletto lebbroso. Guarito dall’acqua usata da Gesù bambino per fare il bagnetto. Disma, in seguito, sarebbe tornato a fare il ladrone.

Bruno Giurato

L’articolo è pubblicato originariamente su Linkiesta, potete leggerlo per intero qui.

Gruppo MAGOG