10 Dicembre 2018

Il mito di Tolkien è merito del figlio Christopher. Storia della suprema dedizione (e della fine di un’era)

Il principio, alla fine. Il 2 marzo 1916 J.R.R. Tolkien, sul fronte della Somme, Francia, scrive alla futura moglie – l’avrebbe sposata due settimane dopo – Edith Mary Bratt: “In questo triste pomeriggio piovigginoso, ho letto vecchi appunti di lezioni militari – ed ero già stufo dopo un’ora e mezza. Ho apportato dei ritocchi alla lingua delle fate che ho inventato, per migliorarla. Spesso mi viene voglia di lavorarci ma me lo proibisco perché, anche se mi piace tanto, mi sembra un’occupazione così pazza!”.

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Durante la Grande Guerra, Tolkien perfeziona la sua “lingua delle fate” – ovvero: degli elfi. Si vince l’orrore con un surplus di fantasia, si spaventa la paura inventando mondi fantastici.

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Un secolo fa, nel 1917, Tolkien abbozza The Fall of Gondolin, pubblicato quest’anno per la cura di Christopher Tolkien – in Italia stampa Bompiani – la scia primordiale della Terra di Mezzo. “La prima stesura della ‘Caduta di Gondolin’ fu iniziata durante la Grande Guerra, l’ultima, incompleta, è del 1951… Nel 1975 Christopher Tolkien abbandonò la borsa al New College di Oxford per occuparsi dell’eredità dell’opera leggendaria del padre. La prospettiva sembrava scoraggiante. Il cinquantenne medievalista si trovò davanti a 70 scatole di lavori inediti. Migliaia di pagine annotate, di frammenti narrativi, di poesie, alcune lavori erano scarabocchiati a matita, la prima storia era redatta su un quaderno delle scuole superiori… Nel 1977 Christopher si è preso la responsabilità di ricostruire Il Silmarillion. Poi si è occupato del resto. The Fall of Gondolin è il venticinquesimo libro postumo che Christopher Tolkien ha tratto dagli archivi di suo padre. Ora, dopo più di quarant’anni di lavoro, all’età di 94 anni, Christopher Tolkien ha posato la penna da editor, ha compiuto un silenzioso, capitale lavoro per precisare la visione del padre. L’ultimo atto pubblico di un gentiluomo e di uno studioso, l’ultimo membro degli Inklings. È la fine di un’era”.

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Fa bene a usare un tono epico, Hannah Long, dalle colonne di The Weekly Standard, per raccontare la storia di Cristopher Tolkien, The Steward of Middle-earth. C’è dell’epica, infatti, nella costruzione di un mondo fantastico complesso dal salotto di una casa inglese, evocare storie intorno al fuoco, ricordando le oscurità della guerra, incuneando una goccia di luce in quell’orrore che è l’umanità.

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tolkien gondolinMi sorprendono due cose. La prima riguarda la paternità. Christopher vive per realizzare l’eredità del padre. C’è un gesto sacro in questo – e anche una obbedienza innaturale. Tolkien, infatti, è uno scrittore sostanzialmente postumo: in vita pubblica le opere decisive – Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli – ma tutto il resto – libri compiuti, presunti, desunti che perfezionano, precisano e amplificano il mondo della Terra di Mezzo e la nostra conoscenza di Tolkien – viene dopo la morte del creatore. Insomma: J.R.R. Tolkien, in fondo, è opera di Christopher Tolkien. Il figlio ha creato il padre, J.R.R. è il dio e Christopher il suo profeta: è mai esistita fedeltà più profonda, proficua, agghiacciante?

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Christopher è il terzo figlio di J.R.R., il più giovane, nasce nel 1924, “ma già a cinque anni comincia a ‘editare’ le storie del padre, mentre le ascolta, prima di andare a dormire. Quelle storie, costituiranno l’ossatura dello Hobbit (Long). Come si sa, è Christopher a disegnare le mappe della Terra di Mezzo, “a 21 anni era il più giovane tra gli Inklings – e l’unico sopravvissuto… quando si incontravano all’Eagle and Child Pub di Oxford o nello studio di Lewis al Magdalen College, Christopher veniva reclutato per leggere le storie di suo padre. Il gruppo riteneva che la sua voce fosse più chiara, la sua recitazione fosse un talento rispetto ai sommessi borbottii del padre” (Long).

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Questa dedizione allucinata, come se il figlio fosse l’elfo del padre – è grazie a quella devozione, anche, che Tolkien è diventato il grande forgiatore del nostro immaginario – chi non ha sognato una vita da Aragorn?

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L’altro aspetto che mi affascina è la guerra. La Terra di Mezzo nasce nel bel mezzo del conflitto mondiale. La scrittura del Signore degli Anelli attraversa la Seconda guerra. In quegli anni oscuri, J.R.R. scrive spesso al figlio Christopher, arruolato dal 1943 nella Royal Air Force. Il padre chiede consigli al figlio riguardo alla sua opera. Ovviamente, però, c’è di più: il mondo ‘parallelo’ non è una fuga da questo mondo, ma un modo lampeggiante per rivelarne l’assurdità e la gloria.

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Da una lettera del 23-25 settembre 1944 al figlio Christopher (in J.R.R. Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere 1914-1973, Rusconi, 1990): “Gli inglesi si gloriano, o si gloriavano, di essere ‘sportivi’ (che voleva anche dire ‘riconoscere i meriti dell’avversario’)… ma è irritante vedere la stampa che si abbassa come faceva Goebbels, strillando che ogni comandante tedesco che resiste in una situazione disperata (quando è necessario strategicamente) è un ubriacone e stupido fanatico. Non riesco a vedere differenze fra il nostro stile popolare e i decantati ‘idioti militari’. Sapevamo che Hitler, oltre ad altri difetti, era un piccolo furfante volgare e ignorante; ma sembra che ce ne siano molti altri che non parlano tedesco e che, nelle stesse circostanze, mostrerebbero di avere molte delle altre caratteristiche di Hitler. C’era un solenne articolo nel giornale locale che teorizzava in tutta serietà lo sterminio sistematico dell’intera nazione tedesca come unico giusto modo di comportarsi dopo una vittoria in guerra: perché sono serpenti a sonagli e non conoscono la differenza tra bene e male! I tedeschi hanno lo stesso diritto di definire polacchi ed ebrei veri da schiacciare, creature subumane, quanto noi di definire così i tedeschi: e cioè nessun diritto, qualunque cosa abbiano fatto”.

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Qui c’è l’insegnamento profondo di Tolkien, penso, spesso visto come un autore ‘manicheo’ – bene di qui, male di là. Posto che il male non è giustificabile, non possiamo giudicare chi fa il male perché anche noi siamo imparentati con il malvagio. Di tutti gli uomini è quella mancanza che si chiama colpa; in tutti gli uomini arde – glaciale o perentoria – la fiamma del bene; i veri uomini, al di là del bene e del male, amano. (d.b.)

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